APPENDICE
L’ECCIDIO DI LIPA 30
APRILE 1944
MORTI ITALIANI O
MORTI CROATI?
STRAGE TEDESCA O
NAZI-FASCISTA?
(Estratto dalla
Rivista “Fiume” della Società di Studi Fiumani di Roma - Anno 2003)
Inauguriamo la nuova
rubrica “Testimonianze orali” pubblicando un contributo del dott.
Rodolfo Decleva sull’eccidio di Lipa del 30 aprile 1944.
Lo scritto del dott.
Decleva - che ci era pervenuto in una prima stesura nel settembre 2000
e, in una seconda stesura riveduta (l’attuale), nel giugno 2001 - non fu
allora pubblicato sia perché non si era ancora conclusa la ricerca sulle
vittime di nazionalità italiana dal 1939 al 1947 a Fiume e dintorni
intrapresa dalla Società di Studi Fiumani insieme all’Istituto Croato di
Storia sia perché la rivista non aveva ancora una rubrica specifica in
cui poter collocare adeguatamente scritti di questo tipo.
Il contributo del
dott. Decleva (che, in prima stesura, è già apparso sul n. 16 di
Panorama del 31/8/2001,
pubblicato a Fiume - Croazia) è infatti un resoconto interamente fondato
su fonti orali. La
madre del dott. Decleva, che è nato a Fiume l’8 gennaio 1929, era
infatti nativa di Lipa e a Lipa la famiglia Decleva aveva cugini e
parenti. Una settimana dopo la strage, una cugina del Decleva, Maria
Bernetich, fortunosamente sopravvissuta (il 30 aprile non si trovava in
paese), riparò a Fiume in casa della zia (la madre del Decleva), per
sfuggire alla cattura da parte dei tedeschi, che cercavano i superstiti
di Lipa, e vi rimase nascosta per 15 giorni, finché non trovò un altro
rifugio più sicuro. Maria Bernetich, che aveva allora vent’anni, tra le
lacrime raccontò tutto ciò che era accaduto.
“Questa è una
testimonianza”, ci ha detto il dott. Decleva,
“che mi ha accompagnato per
tutta la vita e che ha suscitato in me l’esigenza di approfondire e di
chiarire come realmente si svolsero questi incredibili e terribili
fatti. Ho sentito più approfonditamente miei parenti superstiti, tra cui
due cugini di Lipa e un secondo cugino di Rupa, che aveva vissuto quei
fatti in cantina a pochi metri dal Presidio fascista e dalla colonna
tedesca ferma al bivio. Sono così risalito all'episodio della signora
Maria Africh - salvata, come è noto a tutti gli abitanti della zona, da
una Camicia nera sconosciuta - e al Carabiniere (anch’egli sconosciuto)
che aveva la ‘morosa’ in paese ed aveva avvertito gli abitanti di Lipa
del pericolo incombente. Sono riuscito anche a risalire, sia pure
indirettamente, al
Comandante del presidio fascista ovvero della guarnigione di Rupa, ten.
Aurelio Piesz. La mia testimonianza dell'eccidio si basa pertanto su:
1. la cugina
superstite di Lipa, Maria Bernetich, attualmente in Australia, da me
ospitata a caldo qualche giorno dopo la strage;
2. due cugini
superstiti viventi in zona, Slosar Alois e
Floriano, che mi hanno in pratica confermato negli anni '70 e recenti
quanto riferito dalla cugina Maria Bernetich;
3. un cugino in
seconda di Rupa, Surina Vinko, testimone "oculare" di quanto avvenuto a
Rupa il giorno dell'attacco partigiano e della strage tedesca;
4. per la parte
italiana vedi nel testo dell'articolo.
Nell’Aprile 1944 i
rapporti tra i fascisti e i partigiani erano di normale ostilità e così
quelli tra il Presidio fascista e la popolazione, notoriamente schierata
con i partigiani, ma non c'era assolutamente l'odio che avrebbe potuto
provocare un così efferrato eccidio da parte italiana. La signora Africh salvata dal fascista italiano, il signor Ivancich fintosi morto al tedesco assassino e non all’italiano, il bambino ributtato vivo nel fuoco dal tedesco e non dall’italiano (come risulta dalla gigantografia ora rimossa dal Museo di Lipa) sono episodi che fanno ricadere il crimine interamente sui tedeschi.
Per questo motivo - a
differenza di quanto è stato fatto nel 1942
dai nostri connazionali a Podhum vicino a Grobnico, dove si
consumò un altro eccidio - mi sento di affermare per la verità storica e
per la pietosa memoria della innocente popolazione trucidata che
l'eccidio di Lipa è stato un crimine contro l'umanità esclusivamente
tedesco e non italiano o fascista.
La
ricostruzione dell’eccidio è esposta dettagliatamente nel contributo che
segue, che viene pubblicato nella versione del giugno 2001 con qualche
integrazione apportata dall’autore e con l’aggiunta di una nota
redazionale.
I
FATTI
Nel 1996 la Società
di Studi Fiumani (Roma) ha sottoscritto un progetto di ricerca con
l’Istituto Croato per la Storia (Zagabria) per accertare le perdite
umane di nazionalità italiana a Fiume e dintorni dal 1939 al 1947. La
ricerca - certamente laboriosa e lunga - non è stata ancora conclusa[1]
e pertanto mi pongo il problema dei ricercatori sul significato di
“nazionalità italiana” delle vittime.
Ciò in
quanto il 30 aprile 1944 a Lipa, borgo del Comune di Elsane in provincia
di Fiume, fu commesso un eccidio in cui trovarono morte violenta 269
cittadini inermi, rappresentanti la quasi totalità della popolazione del
paese. È un episodio della guerra criminale - rimasto purtroppo impunito
- che si vendica sulla povera gente inerme e di cui addirittura nulla si
è scritto sulla stampa della famiglia profuga giuliana o fiumana in
Italia e nel mondo. Forse la causa di questo colpevole silenzio è stata
la difficoltà di individuare la nazionalità delle vittime (italiane o
croate?), ma spero che la Società di Studi Fiumani non vorrà escludere
dalla sua ricerca quanto è successo a Lipa nel 1944.
Sino al
1918 la regione giuliana ha fatto parte dell’Impero austro-ungarico e
successivamente col Trattato di San Germano del 10 settembre 1919,
confermato dal Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920, la linea di
confine italiana avanzò su tutta l’area di Tarvisio-Monte
Nevoso-Volosca, comprendendo anche questo territorio che divenne
italiano.
Successivamente con gli Accordi di Roma del 27 gennaio 1924 anche Fiume
venne annessa all’Italia e la provincia di Fiume acquistò la
giurisdizione su 14 comuni, tra cui quelli di Villa del Nevoso (Ilirska
Bistrica), con popolazione di lingua d’uso slovena, e di Elsane, con
lingua d’uso prevalentemente croata.
La
popolazione di Lipa, frazione di Elsane, era dedita all’agricoltura e
all’allevamento del bestiame, ma molte persone facevano anche i
pendolari con Fiume, lavorando al Porto, all’Ospedale, al Macello
Comunale, ecc., o servendo in case e trattorie, favoriti dalla facili e
rapide comunicazioni delle Autolinee Grattoni che, partendo dalla piazza
Regina Elena (Via Spalato) compivano il percorso di 25 Km in meno di tre
quarti d’ora.
Con
l’avvento dell’Italia, l’insegnamento del croato fu abolito e fu
introdotto obbligatoriamente l’insegnamento dell’italiano, mentre i
giovani venivano mandati a fare il servizio militare nel meridione. In
quei tempi si doveva ancora “fare” l’Italia e perciò la politica del
Regno d’Italia era quella di “travasare” i giovani dal Nord nel Sud e
viceversa, ma per le popolazioni croate di nuova annessione (allogeni)
la cosa veniva interpretata come cattiveria e forse era anche così.
Successe anche a noi profughi vent’anni dopo, quando la burocrazia
romana smistava da Udine le nostre famiglie a vegetare o morire nei
campi profughi di Altamura, Laterina, Gaeta, Latina, Barletta o Termini
Imerese, dove c’era gente buona e dal cuore immenso, ma i posti erano
assolutamente non idonei per la sistemazione di gente con la nostra
qualificazione tecnica, marinara e industriale.
E così
nei paesi interni della Venezia Giulia il ventennio fascista non riuscì
ad accattivarsi la fiducia delle popolazioni di lingua slava, che
nell’ultimo conflitto si schierarono a favore della lotta partigiana di
Tito e guardarono ancora più lontano, verso Mosca. Stalin, con le sue
false promesse di giustizia ed eguaglianza, aveva fatto dimenticare la
religione a questa gente assai devota, rendendola addirittura
autolesionista, perché - pur essendo piccoli proprietari terrieri e
coltivatori diretti - auspicavano l’abolizione della proprietà.
“Striz, çe
prit” (arriverà lo zio), dicevano dopo l’8 settembre 1943, quando tutti
credevamo che la guerra fosse finita, e così i giovani scappavano “in
bosco” per non essere arruolati dagli occupatori tedeschi o per non
essere mandati a lavorare in Germania.
Mentre
il 23 settembre 1943 Mussolini annunciava la costituzione della
Repubblica Sociale Italiana, da parte tedesca si istituiva
l’“Adriatisches Küstenland”, che aveva giurisdizione sulla Venezia
Giulia e il Friuli, cioè sugli ex territori austriaci, nonché sulla
provincia di Lubiana, quest’ultima annessa all’Italia dal 1941.
È’ da
questo momento in poi che la guerra si inasprisce e l’odio tra slavi e
italiani si infiamma: foibe, fucilazioni, impiccagioni e violenze
inaudite si susseguono chiedendo sempre nuove rappresaglie.
Accanto
ai tedeschi che comandano, esistono ancora in Venezia Giulia forze
italiane, dell’ordine e collaborazioniste, quali i Carabinieri, la
Guardia di Finanza, la Polizia e altri reparti, e, nel caso di Lipa, un
Presidio fascista di una ventina di militi con sede a Rupa.
Rupa si
trova a circa un paio di chilometri da Lipa ed è un nodo di
comunicazione assai importante fra Trieste, Fiume e Lubiana; spesso i
partigiani disturbano con i cannoni il passaggio delle colonne dei
militari tedeschi.
Il
Presidio fascista non ci fa una bella figura e si dà da fare per
riportare l’ordine ed eliminare l’azione dei partigiani, che viene
individuata provenire o da Lipa o da Novocracine, un borgo attiguo.
Un
Carabiniere, che ha la fidanzata in paese, avverte quelli di Lipa:
“State attenti perché finirete male!” e la voce si diffonde, ma la gente
non può fare niente, perché i partigiani sono i loro figli e combattono
per la loro comune giusta causa.
Intanto
i partigiani pensano ad un’azione dimostrativa contro il Presidio
fascista, fissata per la domenica del 23 aprile e poi spostata alla
domenica successiva 30 aprile 1944. Ciò in quanto questa data è il
giorno che precede il Primo Maggio, Festa dei Lavoratori, e quindi
l’attacco avrebbe avuto anche un grande significato politico e
propagandistico.
Appena
comincia l’attacco e cadono su Rupa le prime granate, il comandante del
Presidio fascista manda un uomo a chiedere rinforzi e questi ferma per
tale scopo una colonna di tedeschi che procede verso Fiume.
La
colonna - sono quattro camionette con una cinquantina di soldati - si
ferma per decidere il da farsi e in quel momento cade su di essa una
granata che provoca quattro morti.
Immediatamente il comandante tedesco si collega con il suo Comando, che
ha sede a Villa del Nevoso (Ilirska Bistrica) - a 10 Km da Rupa - e,
quando dopo qualche ora arrivano altri rinforzi, procede alla
eliminazione dei partigiani.
Purtroppo l’attacco non viene svolto in maniera militarmente corretta:
il paese di Lipa viene circondato e ogni civile che si trova in strada e
sui campi viene ammazzato.
Uno di
questi - Ivan Ivancich - ha la fortuna di essere solo scalfito dalla
pallottola ed è ferito all’orecchio; egli si finge morto - restando
immobile accanto al cadavere della moglie - e si salva così la vita,
divenendo l’unico testimone dell’eccidio tedesco, che descrive due
giorni dopo a Scalniza, una località vicina a Lipa.
I
militari entrano nelle case e le svuotano degli abitanti, che vengono
concentrati in un edificio diroccato all’inizio del paese.
Mentre
viene dato fuoco alla case, la gente di Lipa attende il suo destino che
- secondo un rituale già collaudato nel 1942 quando le nostre Camicie
Nere andavano per spedizioni punitive in quel di Karlovac o di Grobnico
o di Delnize - avrebbe dovuto essere: villaggio bruciato per
rappresaglia e confino per la popolazione civile con deportazione a
Gonars o nell’isola di Arbe.
Ricordo
infatti un mio vicino di casa, che era di fede fascista, il quale
tornava da queste “eroiche” spedizioni con un “jancich” (agnellino)
sulle spalle e ricordo ancora nei tristi giorni dell’8 settembre 1943 -
quando i nostri soldati riparavano dalla Jugoslavia in Italia - la
povera gente slava, uomini e donne dei paesi bruciati in Croazia, che
facevano il percorso inverso, scappando dai campi di confino di Arbe,
del Friuli, della Toscana e perfino dalla lontana Procida.
Ma per
Lipa non fu così: la domenica del 30 aprile 1944 fu una “Tuzna Nedelja”,
come cantava una vecchia canzone tzigana ungherese.
Le
terribili regole della guerra non furono rispettate e prevalsero la
vendetta e l’odio: le belve umane in divisa sfogarono la loro rabbia
sulla povera gente innocente e indifesa, certamente dopo averla
depredata dei valori che intendevano portare seco.
A un
tratto furono svuotate latte di benzina su di loro e venne dato fuoco
per bruciarli vivi e colpi di mitra per chi tentava di uscire da
quell’inferno.
I
criminali tedeschi tentarono di nascondere l’eccidio, facendo brillare
della dinamite e coprire così le prove del misfatto, ma i sopravvissuti
- grazie al fatto che quel giorno non si trovavano in paese - poterono
raccontare l’accaduto.
Si
calcola che dei 300 abitanti di Lipa solo una trentina di persone
rimasero vive e furono i ragazzi che pascolavano il bestiame nei
dintorni o i giovani che erano in bosco coi partigiani o quelle poche
persone che - pur essendo domenica - erano ugualmente a Fiume per
lavoro.
Alcuni
cognomi[2]
più ricorrenti delle 269 vittime: Africh, Bernetich, Calcich, Gabersnik,
Iskra, Jaksetich, Juricich, Maglievaz, Puharich, Simcich (la famiglia
più numerosa), Slosar, Smaila, Tomsich, Toncich, Toncinich e Valencich.
Anton
Toncinich era la persona più anziana, aveva 81 anni, mentre le tre
bambine Bozilka Iskra, Carla Slosar, mia cuginetta, e Miliza Valencich
non avevano ancora compiuto il primo anno della loro vita.
La
versione da parte italiana del massacro fu resa nel marzo 1945 da un ex
allievo ufficiale dell’Accademia della G.N.R. di Modena, amico del
tenente della Milizia per la Difesa Territoriale Aurelio Piesz,
comandante del Presidio fascista di Rupa, del quale riporto la
testimonianza nei termini seguenti[3]:
“Nessun militare
italiano partecipò al raid tedesco.
Il caposaldo di Rupa
era mèta di continue provocazioni da parte dei partigiani, in ispecie
tiri di mortaio da 81 mm.
Non era possibile
individuare se l’arma fosse piazzata a Lipa, Novocracina o in qualche
dolina circostante, ma mai - nonostante le piogge di bombe acciaiose,
alcune inesplose - si ebbero reazioni da parte dei Militi fascisti.
La mattina del 30
aprile 1944 un’ autoblindo tedesca si fermò al quadrivio per rifornirsi
di acqua per il radiatore e fu colpita da una granata che uccise due
tedeschi.
Subito fu chiesto
aiuto dal carrista superstite al Comando tedesco di Castelnuovo, che
inviò una colonna di S.S. al comando del tenente Arthur Walter, che
giunse a Rupa nel pomeriggio e «pregò» i soldati italiani di restare in
caposaldo a Rupa.
La strage fu pertanto
opera unicamente delle S.S. tedesche, di cui faceva parte il battaglione
‘Triest’ di stanza a San Saba, che inquadrava molti ucraini.”
Sempre secondo la
versione dell’amico del tenente Aurelio Piesz, “il Tenente Aurelio
Piesz, comandante del caposaldo di Rupa, fu catturato in seguito dai
partigiani a Trieste e impiccato a Rupa, mentre il tenente Arthur Walter
il 5 maggio sempre del 1944 si rese protagonista della distruzione dei
paesi di Sejane, Mune Grande e Mune Piccolo e della deportazione della
popolazione civile”.
Le ricerche da me
personalmente svolte non hanno però finora confermato l’esecuzione del
Tenente Aurelio Piesz: agli abitanti di Rupa, infatti, non risulta che
tale esecuzione sia realmente avvenuta.
La versione di parte
italiana è poi contraddetta da Maria Africh, la quale riuscì a salvarsi
grazie all’aiuto di un fascista - a lei sconosciuto - che le salvò la
vita, facendola fuggire in direzione opposta alla morte, quando uscì
dalla casa situata ai margini del paese.
La presenza di
quell’angelo in camicia nera prova che anche gli italiani furono della
partita, anche se con funzioni di “copertura”, e non relegati
passivamente nel caposaldo, ma è lecito pensare che ben difficilmente
essi avrebbero potuto rifiutarsi di collaborare con i tedeschi senza
pagare con la vita quella decisione.
Subito dopo la guerra
a Lipa è stato costruito un sobrio Cimitero monumentale nello stesso
posto dove le vittime vennero concentrate e bruciate vive, e anche il
paese è risorto sulle stesse case bruciate e diroccate per volontà dei
superstiti della strage.
Ogni anno la triste
ricorrenza del 30 aprile 1944 viene ricordata dalle autorità e dalla
gente del posto e dei paesi vicini, che interviene numerosa, malgrado
sia stata divisa in due dal confine con la Slovenia che passa lì
accanto.
Un Museo storico, che
raccoglie i poveri cimeli rinvenuti tra le macerie delle case diroccate,
espone in una parete l’ingrandimento di una fotografia dove un militare
tedesco, riconoscibile dall’elmetto, è ripreso mentre ricaccia nel fuoco
un bambino che era riuscito ad uscire dall’inferno.
Si dice che un
militare tedesco avesse fotografato quella scena e avesse dato a
sviluppare il rullino ad un fotografo di Villa del Nevoso e che questi -
vedendo di che cosa si trattava - ne avesse fatto una copia per sé.
Sulla strada
Trieste-Fiume, in prossimità del bivio di Rupa, ci sono dei cartelloni
stradali che richiamano l’attenzione degli automobilisti per farli
visitare il “Lipa Memorial”, ma forse il messaggio non esprime bene di
che cosa si tratti e la gente tira dritto.
In Croazia i morti di
Lipa sono ricordati da sempre, mentre da parte italiana non è mai stata
scritta una riga.
rodolfo
decleva
per
Rigo Camerano
30
Aprile 2014
[1]
La ricerca, che non era ancora conclusa quando fu scritto questo
contributo (giugno 2001), ha avuto termine, come è noto, nel
settembre 2002 con la pubblicazione del volume, in edizione
bilingue italiana e croata,
Le vittime di
nazionalità italiana a Fiume e dintorni (1939-1947),
edito dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali nella
serie “Pubblicazioni degli Archivi di Stato”. [NdR] [2] I cognomi sono scritti con l’ortografia italiana dell’epoca.
[3]
La testimonianza letteralmente trascritta dell'amico del Ten.
Piesz è compresa in due lettere custodite personalmente
dall'autore.
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