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LEZIONI DI FILOSOFIA PITAGORICA
LEZIONE QUINTA
L’ Epicureismo e il confronto con la morale pitagorica
Parte prima:
Note sulla morale di
EPICURO
L’ Epicureismo, a paragone
dello Stoicismo, del Cirenaismo, del Pirronianesimo, del Cinismo, e di
tutto il resto della vasta fioritura del pensiero ellenistico, consegue
dalla chiara coscienza della incapacità dell’ individuo a raggiungere la
felicità entro il corpo sociale esistente. Di
conseguenza la perfezione viene cercata individualmente, e l’uomo può
illudersi di essere forte nello Stoicismo, o di essere felice con
Epicuro, o di essere ricco quanto Diogene nella botte.
Può illudersi sino a capovolgere il senso stesso della verità,
sino a camminare sul soffitto.
In realtà la sua ricchezza, la sua forza e la sua felicità sono
ingannevoli, poiché egli, per quanto intensamente lo desideri, non potrà
mai separarsi dal corpo sociale nel quale vive e che lo condiziona.
Come si giunse in Taranto (città che abbiamo preso a campione
del pitagorismo “pre” ed ellenista) a tale modificazione della mentalità
pubblica, è spiegato dai tempi del precedente primo pitagorismo, e dalla
evoluzione della situazione mondiale (mediterranea), che vede scadere
sempre più la città a rango di potenza secondaria; nonché appunto dalla
evoluzione della politica interna del mondo, che trova Taranto una delle
pochissime democrazie superstiti dell’ epoca ellenistica; si riconosce
inoltre dalla modificazione della posizione cosmica umana, che vede la
sicurezza e la dignità degli individui scadute a bassissimi livelli.
Ma forse sarebbe errato trarre da queste premesse la
conclusione, troppo generica, che la filosofia ellenistica si
caratterizzi nella rinuncia dei pensatori a trarre principii generali di
valore universale (simili, ad esempio, a quelli che scaturivano dalle
speculazioni pitagoriche intorno alla decade)
e a limitarsi a ricercare una via di accomodamento tra le esigenze
individuali di libertà e felicità, e quelle sociali, oppressive, della
società in quel momento storico.
Limitandoci alla indagine sull’ Epicureismo, mi sembra di dover
invece convenire che tale fiducia fu, almeno nelle intenzioni del
proprio autore e dei discepoli che lo seguirono, un serio tentativo di
capovolgere le basi etiche sulle quali la società si reggeva, e di
modificarne la morale allo scopo di ottenere, in pratica, un
vivere migliore, o
almeno una vita più accettabile.
Forse, ma non esattamente, analogo tentativo si ebbe, del resto,
sebbene su basi speculative alquanto diverse, in epoca più tarda, col
cristianesimo. In entrambe i casi la prospettiva sarebbe stata,
comunque, quella di un fallimento, ciò perché l’
uomo aveva
già rinunciato a sé stesso abbandonando il concetto di anima
universale. Aveva scelto, volutamente, per la
propria anima, un carattere unico
ed eterno nel tempo,
e tutto ciò lo aveva inchiodato a riconoscere una gerarchia permanente
(terrena e spirituale), alta o bassa che fosse, ed una vita
assolutamente insufficiente e inutile, da qualsiasi punto di vista la si
fosse voluta considerare.
Questa è la causa della stasi morale nella quale la civiltà del
mondo è rimasta bloccata, da poco meno di tremila anni ad oggi.
Che i nuovi movimenti filosofici non riuscissero quindi a
ottenere quanto si ripromettevano, ciò è dovuto al fatto che essi, per
loro natura, erano inadatti, in quel tempo, a ottenere la modificazione
della struttura economica della società, dalla quale poi derivava la
traduzione degli egoismi in fatti di costume.
Di Epicuro si può dire che fu uno dei più grandi, rari, veri
moralisti della storia. Da ciò che ci rimane del suo pensiero possiamo
trarre il succo di due principii generali validi
per ogni epoca: il primo, che l’ umanità ha il potere e l’ esigenza di
ricercare la felicità sulla terra, e che la felicità stessa si riconosce
nell’ equilibrio dei desideri.
Volgari e grossolane noi definiamo quelle forme di vita che non
tendono alla felicità. (così
Ateneo in Diogene Laerzio, Vita
epicuri cum testamento 7, e
nell’ epistola
a Meneceo, 128, sgg.
Il secondo, che la verità, anche riguardo alla natura degli dèi,
ovvero alla conoscenza di Dio, deve essere cercata attraverso le prove
naturali, e non sul mito.
Anzi, su questo punto troviamo Lucrezio, il poeta che vide in
Epicuro la liberazione dal dominio che i fantasmi delle credenze
metafisiche più torbide e dolorose esercitavano allora sul genere
umano.
La liberazione dell’ uomo dalla paura, sia fisica che
psicologica, usata come strumento di potere, fu una delle principali
preoccupazioni di Epicuro.
Per ciò che riguarda Taranto, si può notare che i portati dell’
etica epicurea, nonché contrastare, si legavano molto bene con i
principii generali provenienti dalle precedenti dottrine pitagoriche che
già conosciamo, e che potevano succingersi in questo modo:
Una umanità imperfetta produce essa stessa, attraverso il dolore
che crea, i semi della propria modificazione (della propria sofferenza o
del proprio miglioramento, sia sul piano collettivo che su quello
individuale). Da ciò consegue un concetto di forza che si esprime
attraverso la fede nella evoluzione naturale umana, forzata e
irreversibile, anche se valutabile in migliaia d’ anni e soggetta a
recessioni e stasi.
Tutto ciò conseguiva dalla dipendenza di tutte le cose dalla emanazione, e
la possibilità di conoscenza della stessa attraverso il sacro strumento
della Decade, strumento
di lavoro adoperato dall’ uomo per la conoscenza del mondo.
In pratica, era il genere umano, che attraverso la conoscenza
del mondo, sarebbe dovuto arrivare a Dio e a rendere in tal modo
vivibile la propria casa.
Nella simbologia della Decade era
implicito il riconoscimento della natura divina dell’ uomo e, in
pratica, il concetto della fratellanza in Dio delle persone umane, e di
tutte le cose.
Queste intuizioni, sebbene allora non traducibili in leggi
applicabili, erano notevoli per quell’ epoca. Strideva dunque il grado
di evoluzione al quale gli intellettuali tarantini erano giunti, sia con
la primitività della economia, sia della vita umana in generale.
Mancava, per raggiungere collettivamente al grado di civiltà al
quale alcuni erano arrivati, la conseguenza logica dell’ armonia che,
dati i tempi e la qualità delle scelte metafisiche e pratiche compiute,
non si sarebbe mai potuta raggiungere.
Anche da un punto di vista puramente teorico, quindi, la fine
della città (ovvero la fine del pitagorismo) avrebbe dovuto essere
prevista.
La posizione di Epicuro di fronte alla verità non era diversa da
quella di uno scienziato moderno: infatti egli affermava la validità
della esperienza sensoriale (Epistola a Pitocle).
Pure essendo limitativo questo giudizio rispetto a quello
formulato dal precedente pitagorismo, tuttavia è notevole lo sforzo
compiuto per distinguere il concetto di bene,
inteso come concreta felicità terrena dell’
individuo, raggiungibile
attraverso la conoscenza armonica delle leggi naturali e realizzabile
attraverso la saggezza e l’ equilibrio degli impulsi, da
quello di male, identificabile
nella mancanza di desiderio di verità, e nelle regole sociali
contraddittorie alle leggi della natura umana.
Dalla Epistola a Meneceo: (130, 5, sgg.).
Consideriamo un gran bene l’ indipendenza dai desideri, non
perché sempre dobbiamo avere il poco, ma perché, se non abbiamo il
molto, sappiamo accontentarci del poco; profondamente convinti che con
maggior dolcezza gode dell’ abbondanza chi meno di essa ha bisogno, e
che tutto ciò che natura richiede è facilmente procacciabile. Ciò che è
vano è difficile a ottenersi.
I cibi frugali, inoltre, danno ugual piacere che un vitto
sontuoso, una volta che sia stato tolto del tutto il dolore del bisogno,
e pane e acqua danno il piacere più pieno quando se ne cibi chi ne ha
bisogno.
L’ avezzarsi a un vitto semplice e frugale, mentre da un lato dà
la salute, dall’ altra rende l’ uomo sollecito verso i bisogni della
vita, e quando di tanto in tanto ci accostiamo a vita sontuosa, ci rende
meglio disposti nei confronti di essa, e intrepidi nei confronti della
fortuna.
Quando dunque diciamo che il piacere è il bene, non intendiamo i
piaceri dissoluti, o quelli delle crapule, come credono alcuni che
ignorano, o non condividono, o male interpretano la nostra dottrina, ma
il non avere dolore nel corpo, ne’ turbamento nell’ anima.
Poiché, non banchetti, ne’ feste continue, ne’ godersi fanciulli
e donne, ne’ pesci e tutto quanto offre una lauta mensa, dà vita felice;
ma saggio calcolo che indaga le cause di ogni atto di scelta e di
rifiuto, che scacci le false opinioni dalle quali nasce quel gran
turbamento che prende le anime.
Di tutte queste cose il principio e il massimo bene è la
prudenza; per questo, anche più apprezzabile della filosofia è la
prudenza, dalla quale provengono tutte le altre virtù, che insegna come
non vi può essere vita felice senza che essa sia saggia, e bella e
giusta senza che sia felice.
Le virtù sono connaturate alla vita felice, e questa è
inseparabile da esse.
LEZIONE QUINTA
PARTE SECONDA
Confronto con la filosofia pitagorica
e conseguenze etiche e politiche
Può essere sufficiente procedere sul sentiero di
Epicuro per giungere a vita individualmente felice? Si
intende, nel giorno d' oggi.
Può darsi, quando si possa contare su un reddito
equilibrato, si abiti in un luogo tranquillo, si sappia far
bene il proprio mestiere, si abbia la fortuna di non
dipendere da persone moralmente malate e si possegga noi
stessi un carattere tollerante.
Certo, la buona filosofia serve molto a darci un
sostegno nei momenti di crisi.
Ma quanti di noi oggi risponderebbero positivamente
alla domanda: - Vuoi tornare a rivivere la tua vita così
come già l' hai già vissuta (intendo: pari-pari, così come
vuole Nietzsche nel proprio concetto dello eterno ritorno),
oppure continuare a procedere ineluttabilmente verso
la morte?
Io, a ottanta e quattr’ anni, sceglierei di
procedere, pur non avendo trascorsa una vita particolarmente
sofferta (e penso molte altre persone oltre
me,
anche se, certo, non tutte).
Questo perché una vita vissuta completamente secondo
ragione (in conseguenza logica coi propri pensieri), sarebbe
difficile a ottenersi, almeno da una persona incline a
desiderare giustizia e verità.
Gettati nel grande labirinto dell' esistenza,
difficilmente riusciamo a guadagnarne l'uscita: la mente non
sempre è affidabile, e tende per natura ad obbedire al
corpo.
E poi, dove ci proponiamo di arrivare?
In cielo? E' pericoloso, Dio non è buono.
In paradiso? Dio non è giusto.
All' inferno?. Nel mondo tutti abbiamo una nostra
giustificazione: ambientale (educativa), fisiologica,
chimica, che costruisce la nostra personalità e normalmente
conforma il nostro modo di ragionare e i nostri impulsi. Per
cui non è giusto nemmeno l' inferno.
In nessun luogo? E' impossibile dopo la morte
mantenere una soggettività sul proprio cadavere, sia pur
esso un granello. "Non sentire più niente" è impossibile.
Non si può essere un soggetto essendo nulla: realizzare che
si possa possedere il sentimento del non esserci.
La buona filosofia di Epicuro conduce, come si vede,
al superamento dell' individualismo, ed esige, per diventare
realizzabile, la comunione di amici. Sempre però senza
modificare il rapporto legale con
la società.
L' etica pitagorica esigerebbe di più: per produrre
risultati utili dovrebb' essere conosciuta nel mondo anche a
livello vulgo.
Capìta e utilizzata, potrebbe consentire anche
modifiche strutturali etiche di livello, senza cedere al
meccanismo della struttura organizzata, che la renderebbe un
"limitato".
Parmenide per primo pensò a un luogo eterno; lo
scoprì nella volta del cielo stellato e lo chiamò "Verità".
Tutto ciò che non poteva essere modificato (nel suo tempo)
egli definì
"Verità".
Il luogo non eterno dove noi siamo, fu definito dai
pitagorici "limitato", ovvero, una forma di "non verità".
Questo luogo è la terra, con tutti i corpi che vi stanno
dentro, i più forti dei quali sembrano esser la pietra
e il metallo. Il tempo (Crono) forse è vero e falso
contemporaneamente (per noi umani, non per i sassi).
Pitagora dimostrò che la dimensione di ogni cosa
limitata poteva essere misurata attraverso numeri
materializzati in punti, e i pitagorici scoprirono poi
una forma di verità nel triangolo rettangolo, che uno di
essi, Ippaso, approfondì in un teorema, rilevando,
attraverso la scoperta dei numeri irrazionali, che
anch' esso, a suo modo, dimostrava il relativismo della
verità.
Questo particolare provocò una crisi nel Circolo
pitagorico di Crotone e la ingiusta punizione del suo
scopritore; intendo, del probabile scopritore dei numeri
irrazionali.
Lo scopo era politico, in quanto metteva in dubbio
la capacità del bund a “possedere” la verità.
Questo errore permane ancor oggi in tutte le
strutture che si considerino ideologiche, sia politiche che
religiose, ove la verità viene considerata un possesso.
Una contraddizione interna alla verità posseduta può
mettere in crisi un partito, o un clero; e spesso, per tale
motivo, gli intellettuali “interni” a un partito totalitario
sono persone in pericolo.
I punti pitagorici erano dunque un qualcosa di
concreto che consentiva agli uomini di rapportarsi (essi che
erano "limitato") a forme reali di "verità". Si stabiliva,
nel pitagorismo, la possibilità di un rapporto diretto fra
un limitato (la persona umana) e una realtà fisica "vera"
che lo accompagnava nel mondo.
La presenza dell' anima, nella teologia orfico -
pitagorica, aggiungeva quella componente metafisica che
consentiva, non solo di giustificare Dio sia in senso
ideale che materiale, ma soprattutto avrebbe potuto
realizzare un mondo vivibile coerente
ad esso.
Verso la metà del quinto secolo a.C. i punti
pitagorici furono perfezionati dai valori numerici
descritti in dialetto greco-ionico, rapportati a lettere
alfabetiche rispondenti a quelle che noi oggi
conosciamo in arabo, escluso lo zero. Tali lettere, tutti
sanno, procedono soltanto dall' uno al dieci e poi si
ripetono connettendosi l'una nell'altra sino a determinare
qualsiasi valore.
Filolao pitagorico vide in tale strumento di misura
- capace di raggiungere il valore infinito - un collegamento
teologico verso una intuizione di verità (la "decade") che
poteva superare la limitazione umana e portare la mente a
pensare a un "oltre", a una trascendenza dalla speculazione
terrena.
Ciò si conciliava, anche con forme di religiosità
provenienti dal vecchio orfismo, come ad esempio, ripeto, la
credenza nelle trasmigrazioni dell' anima, che ancora oggi
avrebbe una propria coerente ragion d' essere.
Considerando l' "auge" del filosofo Filolao, e
di Leucippo padre dell' atomismo, pure essendo le anagrafi
dei medesimi assai confuse, possiamo calcolare, con
tollerabile errore, l' avvento dell' atomismo successivo di
una ventina d'anni alle speculazioni di Filolao sulla
decade.
Contemporaneamente possiamo considerare operante,
nel periodo, anche il filosofo Anassagora di Clazomene,
ambientato in Atene, amico di Pericle, nominato da Platone
nei "dialoghi", e da altri. Conosciamo l' opinione di lui
sui corpi celesti (materiali e non dèi) e la sua
teorizzazione del "Nous".
Contrariamente al numero, che fu sacralizzato dai
pitagorici già dal tempo della misurazione a punti, l'
atomo, all' inizio, ispirò a una speculazione di
tipo esclusivamente materialista. Si affermava che l'
insieme degli atomi aveva formato tutti i corpi celesti, e
la terra con tutti i suoi derivati, però non si concludeva
(contrariamente che nel pitagorismo) che tutto ciò avrebbe
dovuto comportare un orientamento etico mirato anche
alla speculazione sul valore spirituale della natura umana.
In altre parole, gli atomisti non ricercarono una
causa della esistenza degli atomi e dello iniziare del loro
primo movimento, sebbene Democrito affermasse che sia
l' anima che gli dèi fossero costituiti di atomi.
Ad esempio, mentre i pitagorici accettavano, in
armonia con i postulati della scuola di Elea (che molto
probabilmente avevano preceduto), la teorizzazione dell'
UNO, ovvero la potenziale uguaglianza in valore di tutto il
genere umano; l'atomismo al contrario si manteneva fedele al
piano esclusivamente "fisico" (accettazione del "vuoto"
cosmico che permetteva alle "cose" di starvi dentro e di
poter essere "divise" sino al loro minimo assoluto). Oggi
si pensa che il vuoto sia stato costruito dalle
stesse conseguenze del grande
bang, ma
ciò non ha interesse nel nostro discorso.
In altri termini, non si portava la meditazione sul
piano etico: ad esempio, si sarebbe potuto affermare: "il
nostro universo proviene comunemente dagli atomi, perciò
(sulla terra) siamo tutti fratelli".
Questo tipo di meditazione (che invece i pitagorici
accettavano) avrebbe consentito di attribuire al pensiero su
Dio (inteso come verità in senso eleatico) anche una
giustificazione materialista.
La meditazione di Anassagora sul Nous,
ovvero la teorizzazione di una forza cosmica
"sottile", intelligente, capace di governare la
trasformazione dei "semi" (specie di atomi generanti) è
stata a volte messa in dubbio, ma non si può,
giustificandosi su di un mal posto ateismo, proporre la
interruzione della speculazione filosofica.
I semi sono i produttori delle specie viventi, ed
Anassagora attribuiva a una intelligenza universale la
responsabilità delle loro naturali modificazioni.
Si potrà giudicare come si vuole, ma si deve
considerare che un tale tipo di speculazione, presa sul
serio, permetterebbe, in conseguenza logica, di migliorare
la società.
Epicuro, venuto in auge un centinaio d' anni dopo il
gruppo di filosofi testé
nominati, si trovò a vivere in un ambiente storico che non
consentiva più "deviazioni" di tipo eleatico, o pitagorico.
Il proprio "umanitarismo" è spontaneo; non limitò l'atomismo
alla parte fisica, come Leucippo o Democrito. Lottò
contro la superstizione diffusa (così come del resto aveva
fatto anche Socrate), e liberò, chi ebbe fiducia in lui, dai
fantasmi e dalle minacciose favole divulgate dalle religioni
del tempo suo.
Fu costretto a costruirsi una propria verità etica,
che trasfuse nella esigenza della saggezza del comportamento
umano e nel valore della "amicizia".
Già con l' inizio della impresa di Alessandro tutte
le grandi filosofie occidentali (presocratiche) andarono in
rovina.
Il pitagorismo lentamente scomparve dopo la morte di
Archita e praticamente morì ancor prima della conquista
romana della città.
In seguito, le religioni pagane non avrebbero più
potuto competere col cristianesimo, ne' con altre religioni
orientali, bibliche o meno, tutte comunque molto più
concrete e già per loro natura nate col carattere di
religioni di potere e quindi più affidabili per Roma (e lo
sarebbero state per qualsiasi impero).
Intendo, ogni religione tende a realizzare sé stessa per
strade d' impero; e
ciò le rende in pratica belve
amorose,
contraddittorie ai propri catechismi. Il Dio giudice ne è la
prova.
L' "impero", ahimè, non è la istituzione più adatta
a garantire la felicità dei popoli.
Ne conseguì da ciò un Dio di sottomissione piuttosto
che un Dio di amicizia. Da qui, grosso modo, tremila anni di
storia contraddittoria, eticamente perduta, tale perchè,
comunque lo si voglia, la Verità esiste, e arriva al cuore
degli uomini anche se ciò viene ad essa
proibito.
Enrico Orlandini, 27 ottobre 2010, con
aggiustamenti.
FINE DELLA QUINTA LEZIONE
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