NIETZSCHE:

Brani da “Umano, troppo umano”

e  “Aurora”.

 

 

In questa sinossi presentiamo tre brani tratti da “Umano, troppo umano” e “Aurora”, pubblicati fra il 1878 e il 1881, ovvero nel periodo intorno al quale Nietzsche abbandonò, per motivi di salute, l’ università di Basilea (1879), e in seguito al cui avvenimento, (e alla precedente rinuncia alla cittadinanza prussiana), egli rimase in  Europa come apolide, praticamente come scrittore  intellettuale e turista colto; di fatto senza fissa dimora,  trattenendosi di preferenza in località italiane, svizzere, e francesi (Nizza).

Il particolare interesse delle citazioni che qui presentiamo proviene dal fatto che esse, in seguito, non furono mai smentite da Nietzsche, salvo essere ribadite, sebbene a volte con l’ aggiunta di contraddizioni.

La intuizione del genio, ad esempio, che in questo file  appare  specialmente nella prima raccolta  sinottica di aforismi, ed ancora da prima, non fu mai  espressa molto chiaramente nell’ opera di Nietzsche, in quanto egli la intense sia con riferimento alla cultura in sé (Goethe), sia con riferimento allo Stato, ed all’ “uomo di Stato”, al “costruttore dello Stato” (da Licurgo sino alla “belva innocente”,  a Cesare Borgia).

Illuminanti, a questo proposito, sono, nei “Sintomi di cultura” gli aforismi 231 e 235, ove Nietsche prevede perfettamente, con quarant’ anni di anticipo, lo effettivo carattere della futura “dittatura del proletariato” (che egli definisce semplicemente “socialismo”), descritta con intuizione profetica, nella visione di come  essa avrebbe portato alla irreggimentazione delle masse, alla  educazione forzata di poderosi armenti umani che, secondo le aspettative culturali dell’ epoca (comprese quelle di Marx, che però Nietzsche mostra di non nominare mai direttamente), avrebbero dovuto vivere  pacifici e felici a rivoluzione compiuta.

Rivoluzione che avvenne però soltanto a causa della prima guerra mondiale, per demerito delle classi egemoni russe.

E col nome di “socialismo” intese anche, senza rendersi conto del carattere profetico della propria intuizione, fascismo e nazional socialismo.

Tutti tre nati  in realtà nella temperie di un mondo razionalmente incomprensibile e assurdo, nati da una identica madre ideologica, alla quale le religioni non sono estranee.

Così fu anche per il mito dell’ uomo “libero” , come fu inteso nel Ventesimo secolo.

L’ Ottocento fu un secolo positivo per la cultura filosofica e tecnico – scientifica (per merito dello stesso Nietzsche … Comte, Darwin, Peirce …) secolo che preparò però contemporaneamente, a causa della propria cultura politica e dello Stato, la decadenza del Ventesimo.

Il Ventunesimo ha forse capito qualcosa, ma non ne è fuori.

Riassumendo: Nietzsche in sé fu un filosofo positivo che già da prima di “Aurora” iniziò  la sua transvalutazione della  la morale corrente.

Gli aforismi che si riportano nella  terza delle nostre sinossi, riguardano la sua critica alla religione cristiana, comprensiva della sua parte luterana.

Sebbene scrittore “di assoluta avanguardia” per il suo secolo, dovette anch’ egli subire  il capestro dei costumi correnti e la incomprensione di molti.

Finiamo qui l’ esposizione delle sue interpretazioni della  morale, certamente disinteressate e sincere (Nietzsche fu anche accusato. da Lukacs, di essere al soldo del grande capitale).

Gli scritti posteriori al suo volontario allontanamento da Basilea, (la Gaia Scienza, Zarathustra, Genealogia della morale e gli altri), sono molto noti al pubblico, in quanto editori contemporanei ne propongono continuamente le opere.

Le contraddizioni successive riguardano soprattutto: la sua concezione metafisica (il concetto dello “eterno ritorno”), la sua interpretazione del Superuomo; la sua concezione dello Stato. Nel nostro libro  ne abbiamo aggiunto la nostra idea (con numerose citazioni) della sua “contraddizione dell’ ateismo”

Enrico Orlandini, novembre 2012.

 

 

 SINTOMI DI CULTURA SUPERIORE

E INFERIORE

da: Umano, Troppo Umano I.

vol. IV, 2 della collezione Adelphi

Traduzione di Sossio Giametta

 

225. Un concetto relativo: lo spirito libero.

Si chiama spirito libero colui che pensa diversamente da come, in base alla sua origine, al suo ambiente, al suo stato o ufficio, o in base alle opinioni dominanti del tempo, ci si aspetterebbe che egli pensasse.

Egli è l’ eccezione; gli spiriti vincolati sono la regola; questi ultimi gli rimproverano che i suoi liberi principii trovino origine nella sua smania di farsi notare, oppure addirittura che facciano pensare ad azioni libere, cioè ad azioni che sono incompatibili con la morale vincolata. Talvolta si dice anche che quei liberi principii sono da attribuire a stramberia o esaltazione della mente; ma così parla solo una malignità che – essa stessa – non crede a ciò che dice, ma vorrebbe in tal modo nuocere; infatti la testimonianza della maggiore bontà e acutezza del suo intelletto è di solito scritta in volto allo spirito libero, e a così chiare lettere che gli spiriti vincolati la intendono benissimo.

Ma gli altri due modi di spiegare l’ origine del libero pensiero sono intesi onestamente; in effetti molti spiriti liberi si formano anche nell’ uno o nell’ altro modo. Tuttavia le conclusioni a cui essi per quelle vie sono giunti, potrebbero essere, proprio per questo, più vere e attendibili di quelle degli spiriti vincolati.

Nella conoscenza della verità ciò che conta è che la si possieda, non per quale impulso la si è cercata o per quale via la si è trovata.

E se gli spiriti liberi hanno ragione, allora gli spiriti vincolati hanno torto, non importa se i primi sono giunti alla verità per immoralità, e se i secondi si sono attenuti finora alla non verità per moralità. D’ altronde non appartiene all’ essenza dello spirito libero che egli abbia opinioni più giuste, ma piuttosto che egli si sia staccato dalla tradizione, sia con fortuna, sia con insuccesso.

Di solito, comunque, egli avrà dalla sua parte la verità, o almeno lo spirito di ricerca della verità; egli esige ragioni, gli altri fede.

 

226.  Origine della fede.

Lo spirito vincolato accetta la sua posizione non per ragionamento, bensì per abitudine; è, per esempio, cristiano, non per aver esaminato le varie religioni e per avere scelto fra esse; è inglese, non per essersi deciso per l’ Inghilterra; egli semplicemente si è trovato davanti il Cristianesimo e la qualità di inglese, e ha accettato le due cose senza ragionarci sopra, come uno che, nato in un paese vinicolo, diventa bevitore di vino.

Più tardi, quando già era cristiano e inglese, sarà forse riuscito a trovare alcune ragioni a favore della sua abitudine; ma per quanto si demoliscano queste ragioni, non si demolirà nulla della sua posizione.

Si costringa ad esempio uno spirito vincolato ad esporre le sue ragioni contro la bigamia, allora si vedrà se il suo santo zelo per la monogamia è basato su ragionamenti oppure su abitudine. L’ abitudine a principii intellettuali non ragionati si chiama fede.

 

227.  Concludere dalle conseguenze alla fondatezza e infondatezza.

Tutti gli Stati e gli ordinamenti della società: i ceti, il matrimonio, l’ educazione, il diritto, tutte queste cose hanno la loro forza e durata solo nella fede che ripongono in esse gli spiriti vincolati – cioè nell’ assenza di ragioni, o per lo meno nel rifiuto delle indagini sulle ragioni. Ciò gli spiriti vincolati non ammettono volentieri e sentono bene che è un pudendum. Il Cristianesimo, che era molto innocente nelle sue ispirazioni intellettuali, non notò nulla di questo pudendum, esigé fede e nient’ altro che fede e  respinse con passione la richiesta di ragioni; esso indicò il successo della fede: sentirete subito il vantaggio della fede, spiegava, sarete per essa beati.

In realtà anche lo Stato procede così, e ogni padre educa in ugual maniera il figlio: tieni per vero soltanto questo, dice, e sentirai come questo fa bene.

Ma ciò significa che la verità di una opinione sarebbe dimostrata dall’ utile personale che essa arreca, che l’ utilità di una dottrina costituirebbe garanzia della loro sicurezza e fondatezza intellettuale. E’ come se l’ accusato dicesse davanti al tribunale: il mio difensore dice tutta la verità, perché guardate che cosa segue dal suo discorso: io vengo assolto.

Gli spiriti vincolati, avendo dei princìpi a causa della loro utilità, presumono anche dallo spirito libero, che egli con le sue vedute cerchi ugualmente il proprio utile e tenga per vero solo ciò che precisamente gli giova.

Ma, dato che sembra che a lui giovi il contrario di ciò che giova ai suoi connazionali o a quelli di pari condizione, essi suppongono che i suoi princìpi siano pericolosi per loro; essi dicono e sentono: non può aver ragione perché per noi è nocivo.

 

228.  Il carattere forte e buono.

L’ esser vincolati dalle opinioni, divenute con l’ abitudine istinto, conduce a ciò che si chiama la forza di carattere. Quando qualcuno agisce in base a pochi motivi, ma sempre in base agli stesi, le sue azioni acquistano una grande energia; se queste azioni sono in armonia con i princìpi degli spiriti vincolati, ottengono riconoscimento e generano fra l’ altro, in chi li compie, il sentimento della buona coscienza.

Pochi motivi, energico agire e buona coscienza , costituiscono ciò che si chiama forza di carattere.

A chi è forte di carattere manca la conoscenza delle molte possibilità e direzioni dell’ agire; il suo intelletto non è libero, è vincolato, perché in un dato caso egli mostra forse solo due possibilità; fra queste due egli deve poi, secondo tutta la sua natura, necessariamente scegliere, ed egli fa ciò con facilità e rapidità, perché non deve scegliere fra cinquanta possibilità.

L’ ambiente in cui si viene educati vuol rendere ogni uomo non libero, ponendogli davanti agli occhi il minor numero di possibilità. L’ individuo viene trattato dai suoi educatori come se fosse , sì qualcosa di nuovo, ma dovesse diventare una ripetizione.

Se l’ uomo appare da principio come qualcosa di sconosciuto, ma mai esistito, deve poi essere trasformato in qualcosa di conosciuto e di già esistito.

Si dice buon carattere in un bambino il manifestarsi  del suo essere vincolato a ciò che è già esistito; mettendosi dalla parte degli spiriti vincolati il bambino mostra per la prima volta il senso comune che si sveglia in lui; sulla base di questo senso comune, diventa più tardi utile al suo Stato e al suo ceto.

 

229.  Misura delle cose per gli spiriti vincolati.

Di quattro categorie di cose gli spiriti vincolati dicono che esse sono giuste.

Primo: tutte le cose che hanno durata sono giuste.

Secondo: tutte le cose che non ci sono moleste sono giuste.

Terzo: tutte le cose che ci recano vantaggio sono giuste.

Quarto: tutte le cose che ci sono costate sacrifici sono giuste.

Quest’ ultima cosa spiega per esempio perché una guerra, che sia stata iniziata contro la volontà del popolo, venga poi proseguita con entusiasmo non appena abbia fatto delle vittime.

Gli spiriti liberi che difendono la loro causa davanti al foro degli spiriti vincolati, devono dimostrare che ci sono sempre stati spiriti liberi, cioè che il libero pensiero ha durata; poi che essi non vogliono essere molesti; e infine che essi recano in complesso vantaggio agli spiriti vincolati; ma poiché di quest’ ultima cosa non potranno convincere gli spiriti vincolati, non gli servirà a niente neanche di aver dimostrato il primo e il secondo punto.

 

230.  Esprit fort.

Paragonato a colui che ha la tradizione dalla sua parte e non ha bisogno di ragioni per il suo agire, lo spirito libero è sempre debole, specialmente nell’ agire; giacché egli conosce troppi motivi e punti di vista, ed ha perciò una mano incerta, non esercitata.

Ma quali mezzi ci sono per renderlo relativamente forte, sicché si faccia almeno valere e non perisca senza lasciare traccia?

Come nasce lo spirito forte (esprit fort)?

E’ questa, in un particolare caso, la questione circa il prodursi del genio. Da dove viene l’ energia, la forza inflessibile, la perseveranza con cui il singolo, contro la tradizione, procura di acquistare una conoscenza affatto individuale del mondo?

 

231.  La nascita del genio.

La fantasia con la quale il prigioniero cerca mezzi per liberarsi, il suo sangue freddo e la sua tenacia nell’ utilizzare ogni minimo vantaggio, possono insegnare a quali mezzi ricorra a volte la natura per produrre il genio (una parola che prego di intendere senza nessun sapore mitologico o religioso); essa lo rinchiude in un carcere ed eccita all’ estremo il suo desiderio di liberarsi.

O con un’ altra immagine: qualcuno che, camminando per il bosco si sia completamente smarrito, ma che con straordinaria energia tenda a uscire all’ aperto in una qualunque direzione, scopre talvolta un nuovo sentiero, che nessuno conosce: così nascono i geni, di cui si decanta l’ originalità.

E’ stato già detto che una mutilazione, una storpiatura, una grave deficienza di un organo, fanno spesso sì che un altro organo si sviluppi straordinariamente bene, dovendo adempiere la sua funzione, e ancora un’ altra. Con ciò si può spiegare l’ origine di parecchi splendidi ingegni.

Si applichino questi accenni generali sulla nascita del genio al caso specifico della nascita del perfetto spirito libero.

 

232.  Supposizione sull’ origine del libero pensiero.

Come i ghiacciai ingrossano quando nelle zone equatoriali il sole dardeggia sui mari con più ardore di prima, così può ben darsi che anche un assai forte e dilagante libero pensiero sia testimonianza del fatto che in qualche punto l’ ardore del sentimento sia straordinariamente cresciuto.

 

233.  La voce della storia.

In generale sembra che la storia dia, nel prodursi del genio, il seguente insegnamento: “ Maltrattate e tormentate gli uomini” così essa grida alle passioni dell’ invidia, dell’ odio e dell’ emulazione “spingeteli all’ estremo, l’ uno contro l’ altro, popolo contro popolo, e ciò per secoli; allora fiammeggerà forse d’ un tratto, per così dire da una scintilla sprizzata via dalla terribile energia in tal modo incendiata, la luce del genio; la volontà resa selvaggia come un cavallo dallo sprone del cavaliere; eromperà e salterà allora in un altro campo”.

Chi giungesse a comprendere come si produce il genio e volesse anche mettere in pratica metodi che la natura di solito applica, dovrebbe essere esattamente così cattivo e brutale come la natura.

Ma forse abbiamo udito male.

 

234.  Valore del mezzo del cammino.

La produzione del genio è forse riservata soltanto a un limitato periodo dell’ umanità. Infatti, dal futuro dell’ umanità non ci si può aspettare ancora tutto ciò che solo ben determinate condizioni di un qualche passato poterono produrre; non per esempio i sorprendenti effetti del sentimento religioso.

Persino quest’ ultimo ha fatto il suo tempo e molte cose assai buone non potranno mai prodursi, perché poterono prodursi solo grazie a esso. Così non ci sarà mai più un orizzonte della vita e della cultura circoscritto dalla religione.

Forse lo stesso tipo del santo è possibile solo con una stessa soggezione dell’ intelletto, che, a quanto pare, è finita per sempre.

E così il vertice dell’ intelligenza è stato forse riserbato solo a una certa epoca dell’ umanità: esso si manifestò  - e si manifesta, giacché viviamo ancora in quest’ epoca – quando una straordinaria energia della volontà, dopo essersi a lungo accumulata, si riversò eccezionalmente, attraverso l’ ereditarietà, in canali intellettuali.

Quel vertice sarà abbandonato , se questa furiosa energia non sarà più coltivata.

Forse nel mezzo del cammino , nel tempo mediano della propria esistenza, più che non al termine di essa, l’ umanità si avvicina alla sua vera meta.

Forze da cui per esempio l’ arte è condizionata, potrebbero addirittura spegnersi;  il gusto della menzogna, dell’ imprecisione, del simbolismo, dell’ ebbrezza e dell’ estasi, potrebbe cadere in discredito. Anzi, non appena la vita sarà ordinata nello Stato perfetto, non ci sarà più da trarre dal presente alcun motivo di poesia; in questo caso sarebbero solo gli individui arretrati a bramare poetiche irrealtà.

Questi allora guarderebbero certamente con nostalgia all’ indietro, verso i tempi dello Stato imperfetto e della società semibarbara, verso i nostri tempi.

 

235.  La contraddizione del genio e lo Stato ideale.

I socialisti desiderano produrre il benessere per il maggior numero possibile. Se la patria durevole di questo benessere, lo Stato perfetto, fosse veramente raggiunta, da questo benessere sarebbe distrutto il terreno dal quale nasce il grande intelletto e in genere il potente individuo: voglio dire la grande energia.

L’ umanità sarebbe divenuta troppo fiacca, se questo Stato fosse realizzato, per potere ancora produrre il genio. Non si dovrebbe pertanto desiderare che la vita conservi il suo carattere violento, e che forze ed energie selvagge continuino ad essere suscitate?

Ora il cuore caldo e compassionevole vuole proprio la eliminazione di quel carattere violento e selvaggio, e il cuore più caldo che si possa immaginare desidererebbe  nel modo più appassionato appunto ciò: mentre, tuttavia, proprio da quel selvaggio e violento carattere della vita la sua passione ha preso il suo fuoco, il suo calore e la sua stessa esistenza; il cuore più caldo vuole cioè la eliminazione del suo fondamento, l’ annientamento di sé stesso, il che significa però che vuole qualcosa di illogico, che non è intelligente.

L’ intelligenza più alta e il cuore più caldo non possono stare insieme in una stessa persona, e il saggio che pronuncia il giudizio della vita si pone al di sopra della sua bontà, considerando la bontà semplicemente come una delle cose di cui si deve tener conto nel calcolo complessivo della vita.

Il saggio deve opporsi a quegli stravaganti desideri della bontà intelligente, perché il suo compito è quello di conservare il proprio tipo e di favorire il sorgere finale del sommo intelletto: per lo meno egli non favorirà la fondazione dello “Stato perfetto”, in quanto in esso trovano posto solo individui infiacchiti.

Per contro Cristo, che per una volta vogliamo raffigurarci come il cuore più caldo, promosse l’ istupidimento degli uomini, si pose dalla parte dei doveri di spirito e fermò la produzione del sommo intelletto: e ciò fu coerente.

Il suo opposto, il saggio perfetto – lo si può ben predire – sarà di necessità un ostacolo altrettanto forte alla produzione di un Cristo.

Lo Stato è una saggia istituzione per la protezione degli individui gli uni contro gli altri: se si esagera nel nobilitarlo, l’ individui finisce con l’ esserne indebolito, anzi dissolto – l’ originario fine dello Stato viene cioè vanificato nel modo più radicale.

 

236.  Le zone della cultura.

Si può dire a mo’ di paragone che le epoche della cultura  corrispondono alle diverse zone climatiche, solo che le prime stanno l’ una dietro l’ altra, e non come le zone geografiche l’ una accanto all’ altra.

In confronto con la zona temperata della cultura in cui è nostro compito passare, quella trascorsa fa complessivamente l’ impressione di un clima tropicale.

Violenti contrasti, brusco alternarsi di giorno e di notte, ardore e sfolgorio di colori, la venerazione di tutto ciò che è improvviso, misterioso, terribile, la rapidità degli irrompenti uragani, dappertutto il prodigioso straripare delle cornucopie della natura; e per contro, nella nostra cultura, un cielo chiaro e tuttavia non splendente, aria pura, che rimane quasi uguale, asprezza, all’ occasione persino freddo: così si diversificavano, l’ una rispetto all’ altra, tra le due zone .

Quando vediamo là come le più furiose passioni vagano con tremenda forza, abbattute e spezzate da concezioni metafisiche, ci pare come se davanti ai nostri occhi, nei tropici, selvagge tigri fossero stritolate nelle spire di mostruosi serpenti; al nostro clima spirituale mancano simili fatti, la nostra fantasia è moderata: neanche in sogno ci sovviene ciò che i popoli precedenti vedevano nella veglia.

Ma non dovremmo poter essere felici di questo cambiamento, pur ammettendo che gli artisti sono stati sostanzialmente danneggiati dallo sparire della cultura tropicale, e che per loro noi non artisti siamo un po’ troppo freddi?

In tal senso gli artisti hanno bene il diritto di negare il progresso, poiché in realtà, che gli ultimi tre anni mostrino uno svolgimento progressivo delle arti, di ciò si può almeno dubitare; parimenti un filosofo metafisico come Schopenhauer non avrà alcun motivo di riconoscere il progresso, se considererà gli ultimi quattro millenni con riguardo alla filosofia metafisica e alla religione. Ma per noi l’ esistenza stessa della zona temperata della cultura costituisce progresso.

 

237.  Rinascimento e Riforma.

Il Rinascimento italiano racchiuse in sé tutte le forze positive a cui si deve la cultura moderna: ossia liberazione del pensiero, disprezzo dell’ autorità, vittoria dell’ istruzione contro l’ alterigia della schiatta, entusiasmo per la scienza e per il passato scientifico degli uomini, affrancamento dell’ individuo, amore ardente per la veracità e ostilità verso l’ apparenza e il mero effetto (un ardore che divampò in tutta una folla di caratteri artistici, i quali nelle loro opere pretesero da sé, con somma purezza morale, perfezione e null’ altro che perfezione); Sì, il Rinascimento ebbe in sé quelle forze positive  che finora nella nostra cultura moderna non sono ancora ridiventate così potenti.

Esso fu l’ età aurea di questo millennio, nonostante tutte le sue pecche e i suoi vizi.

La Riforma tedesca appare invece come una energica protesta di spiriti arretrati, che non s’ erano ancora affatto saziati della visione medievale del mondo, e che avvertirono i sintomi del suo dissolversi, la straordinaria superficializzazione ed esteriorizzazione della vita religiosa, con profondo abbattimento, invece che con giubilo, come si sarebbe convenuto.

Con la loro nordica forza e caparbietà, essi respinsero gli uomini indietro, provocarono la Controriforma, vale a dire un Cristianesimo cattolico da legittima difesa, con le violenze di uno stato d’ assedio, e ritardarono di due secoli il pieno risvegliarsi e dominare delle scienze, così come resero forse impossibile per sempre l’ armonioso concrescere a unità dello spirito antico e di quello moderno.

Il grande compito del Rinascimento non poté essere portato a termine; lo impedì la protesta della germanicità, rimasta frattanto indietro, che nel Medioevo aveva almeno avuto il buon senso di attraversare ogni momento le Alpi per la propria salute.

Dipese dal caso di una straordinaria costellazione della politica, che allora Lutero si salvasse ed che quella protesta guadagnasse forza: perché l’ imperatore lo protesse per servirsi della sua innovazione come di uno strumento di pressione contro il papa; e del pari lo favorì in segreto il papa, per servirsi dei principi protestanti come di un contrappeso contro l’ imperatore.

Senza questa singolare coincidenza di intenzioni Lutero sarebbe stato bruciato come Huss – e l’ autorità dell’ illuminismo sarebbe forse sorta un po’ di tempo prima e con una luce più bella di quel che oggi possiamo immaginarci.

 

238.  Giustizia verso il Dio che diviene.

Quando tutta la storia della cultura si apre davanti agli occhi come un groviglio di idee cattive e nobili, vere e false, e alla vista di questi flutti ondeggianti cui si sente quasi cogliere dal mal di mare, si comprende quale consolazione risieda nell’ idea di un Dio che diviene.

Egli si rivela sempre più nelle trasformazioni e nelle vicende dell’ umanità; così non è tutto cieco meccanismo, insensato e inutile urtarsi di forze. La divinazione del divenire è una visione metafisica – come da un faro sul mare della storia – in cui trovò consolazione una generazione troppo storicizzata di dotti; di ciò non ci si deve indignare, per quanto erronea quella idea possa essere.

Solo chi, come Shopenhauer, nega l’ evoluzione, non soffre neppure per gli ondeggiamenti della storia e, nulla sapendo e nulla avvertendo di quel Dio che diviene e nel bisogno di ammetterlo, può ragionevolmente abbandonarsi alla irrisione.

 

239.  I frutti secondo stagione.

Ogni miglior futuro che si auguri all’ umanità è anche necessariamente, per più rispetti, un futuro peggiore; poiché è fanatismo credere che un superiore, nuovo grado di umanità, riunirebbe in sé  tutti i pregi dei gradi precedenti, e dovrebbe anche, per esempio, produrre la forma somma dell’ arte.

Piuttosto ogni stagione ha i suoi pregi e le sue attrattive, ed esclude quelli delle altre.

Ciò che è cresciuto dalla religione e in sua vicinanza, non può più crescere se quella è distrutta; tutt’ al più sperduti e tardivi virgulti potranno indurre in inganno a tale riguardo, come appunto fa il ricordo che temporaneamente prorompe dell’ arte antica: una condizione che rivela sì il senso della perdita e della privazione, ma che non è una prova della forza dalla quale potrebbe nascere una nuova arte.

 

240.  Crescente severità del mondo.

Quanto più in alto la cultura di un uomo sale, tanti più campi si sottraggono allo scherzo e alla irrisione. Voltaire era riconoscente di cuore al Cielo per la invenzione del matrimonio e della Chiesa: che aveva in tal modo così ben provveduto al nostro sollazzamento.

Ma egli e il suo tempo, e prima di lui il sedicesimo secolo, si sono fatti di questi temi beffe a non finire; ogni scherzo che oggi ancora si attenti in questo campo, giunge in ritardo ed è soprattutto troppo a buon mercato per poter attirare i compratori.

Oggi si chiedono le ragioni; questa è l’ epoca della serietà. In colui al quale importa ancora oggi di vedere in luce scherzosa le differenze fra realtà e pretenziosa apparenza, fra ciò che l’ uomo è e ciò che vuole rappresentare, il senso di questi contrasti produce subito tutt’ altro effetto, quando si ricerchino le ragioni.

Quanto più profondamente uno intende la vita, tanto meno irride; solo che finisce magari per irridere ancora alla profondità del suo intendere.

 

241.  Genio della civiltà.

Se qualcuno volesse immaginare un genio della civiltà, come sarebbe questo fatto?

Egli adopera sicuramente la menzogna, la violenza e il più brutale egoismo come suoi strumenti, che solo il nome di maligno essere demoniaco gli converrebbe. Ma i suoi fini, che qua e là tralucono, sono grandi e buoni.

E’ un centauro, mezzo animale e mezzo umano, e in più ha ancora ali d’ angelo sul capo.

 

242.  Educazione – miracolo.

L’ interesse per l’ educazione acquisterà grande forza solo dal momento in cui smetterà di credere in un Dio e nella sua provvidenza: così come l’ arte medica poté fiorire solo quando cessò la fede in cure miracolose.

Ma per ora tutto il mondo crede ancora nell’ educazione – miracolo: dal più grande disordine, dalla confusione dei fini, dallo sfavore delle circostanze si videro infatti sorgere gli uomini più fecondi, più possenti: come poteva ciò accadere a cose normali? Oggi anche in questi casi si comincerà ben presto a vedere chiaro e sottoporli a un esame più accurato; ma miracoli non se ne scopriranno mai. In uguali circostanze numerosi individui continueranno a perire; in compenso il singolo individuo salvato è divenuto di solito più forte, perché ha sopportato queste cattive circostanze di virtù di una indistruttibile forza innata e ha ancora esercitato e accresciuto questa forza: così si spiega il miracolo.

Una educazione che non creda più al miracolo dovrà badare a tre cose: primo, quanta energia è stata ereditata?

Secondo, con che si può incendiare ancora nuova energia?

Terzo, come si può adattare l’ individuo a quelle esigenze così straordinariamente molteplici della civiltà, senza che esse lo inquietino e disgreghino  la sua singolarità – insomma, come si può inquadrare l’ individuo nel contrappunto della vita pubblica e privata, come può esso in pari tempo fare la melodia e, come melodia, accompagnare?

 

243.  Il futuro del medico.

Non esiste oggi una professione che sia suscettibile di un così altro incremento come quella del medico; specialmente dacché i medici spirituali, i cosiddetti curatori di anime, non possono più esercitare con pubblico consenso le loro arti di esorcismo, e l’ uomo colto li scansa.

Oggi la più alta formazione spirituale di un medico non è raggiunta quando egli conosca i metodi migliori e più recenti, si sia in essi esercitato e sia capace di trarre quelle rapide conclusioni dagli effetti alle cause, per cui vanno famosi i diagnostici; egli deve inoltre possedere una eloquenza che si adatti a ogni individuo e gli strappi il cuore dal petto; una virilità la cui sola vista basti a fugare la pusillanimità (il tarlo che rode tutti gli ammalati) ; una versatilità da diplomatico nel destreggiarsi fra quelli che hanno bisogno di gioia per la loro guarigione e quelli che devono (e sanno) dispensare gioia per ragioni di salute; la sottigliezza di un poliziotto e di un avvocato nell’ intendere i segreti di un’ anima senza tradirli – insomma, un buon medico ha bisogno oggi degli artifici e delle prerogative di mestiere di tutte le altre classi di professionisti: così equipaggiato egli è ancora in grado di diventare un benefattore per tutta la società, accrescendo le buone opere, la gioia e la produttività intellettuale, prevenendo i cattivi pensieri e propositi e le mascalzonate (di cui il basso ventre è così spesso la fonte ripugnante), stabilendo un’ aristocrazia intellettuale – fisica (come fondatore e combinatore di matrimoni), troncando tutte le cosiddette pene d’ anima e rimorsi: solo così diventerà, da “stregone”, salvatore, senza peraltro aver bisogno di fare miracoli, e senza aver neanche bisogno di farsi crocifiggere.

 

244.  In vicinanza della follia.

La somma dei sentimenti, delle conoscenze. Delle esperienze, cioè il peso totale della civiltà, è diventato così grande, che una sollecitazione delle forze nervose e di pensiero è oggi il pericolo generale; anzi, le classi colte del paesi europei sono diventate completamente nevrotiche e quasi ciascuna delle loro famiglie più grandi si è avvicinata, in qualche modo, alla pazzia.

Ora, è vero che oggi si cerca in ogni modo la salute; ma principalmente rimane necessario diminuire la tensione del sentimento e il peso schiacciante  della civiltà; anche se ciò dovesse costare gravi perdite, ci darebbe tuttavia modo di sperare fortemente in un Nuovo Rinascimento.

Al Cristianesimo, ai filosofi, ai poeti e ai musicisti si deve una sovrabbondanza di sentimenti profondamente eccitati: perché questi non ci soffochino, dobbiamo evocare lo spirito della scienza, che rende in complesso alquanto più freddi e scettici, e in particolare raffredda l’ ardente fiume delle fedi in verità ultime e definitive; esso è diventato così impetuoso, principalmente a causa del Cristianesimo.

 

245.  Fusione di campana della civiltà.

La civiltà è nata come una campana, dentro una camicia di materiale più grezzo e comune: falsità, violenza, illimitata estensione di tutti i singoli io, di tutti i singoli popoli, furono questa camicia.

E’ ora tempo di estrarla?

Sì è il liquido solidificato, sono i buoni utili impulsi, le abitudini del cuore nobile diventati così sicuri e generali, che non ci sia più bisogno di appoggiarsi alla metafisica degli errori delle religioni, di durezze e violenze, come dei mezzi più potenti onde unire gli individui e i popoli tra loro?

Per rispondere a questa domanda non ci aiuta più il cenno di un Dio: qui è il nostro giudizio che deve decidere. Il governo terreno dell’ uomo nel suo complesso deve prendere in mano l’ uomo stesso, la sua “onniscienza” deve vegliare con occhio attento sull’ ulteriore destino della civiltà.

 

246.  I ciclopi della civiltà.

Chi guarda quelle conche frastagliate in cui si sono formati i ghiacciai, ritiene appena possibile che sia per venire un giorno in cui, nello stesso posto, si stenderà una valle di prati e dei boschi attraversata da ruscelli.

Così è anche nella storia dell’ umanità; le forze più selvagge aprono la strada, dapprima distruggendo; la loro attività è tuttavia necessaria, perché più tardi dei costumi più miti stabiliscano qui la loro sede.

Le terribili energie – ciò che si dice il male – sono i ciclopici architetti e pionieri dell’ umanità.

 

247.  Circolo dell’ umanità.

Forse tutta l’ umanità è soltanto una fase evolutiva di una determinata specie animale di durata limitata: sicché l’ uomo è divenuto dalla scimmia e in scimmia ancora si trasformerà, mentre non c’è nessuno che prenda qualche interesse a questo bizzarro scioglimento di commedia.

Come, con la decadenza della civiltà romana e con la sua principale causa, la diffusione del Cristianesimo, si propagò all’ interno dell’ impero romano un generale imbruttimento dell’ uomo, così anche da una eventuale decadenza della civiltà su tutta la terra potrebbe essere prodotto un imbruttimento di gran lunga più forte e alla fine un imbruttimento dell’ uomo, fino allo scimmiesco.

Proprio perché possiamo renderci conto di questa prospettiva, siamo forse in grado di prevenire una tal fine dell’ avvenire.

 

248.  Parole di conforto di un progresso disperato.

Il nostro tempo fa l’ impressione di una situazione provvisoria; le vecchie concezioni del mondo, le vecchie culture sono ancora in parte esistenti, le nuove non ancora sicure e abituali, e quindi senza compattezza e coerenza.

Sembra che tutto diventi caotico, che il vecchio vada perduto e che il nuovo non abbia alcun valore e diventi sempre più debole. Ma così va al soldato che impara a marciare: per un certo tempo egli è più incerto e goffo che mai, perché i muscoli vengono mossi ora secondo il vecchio sistema, ora secondo il nuovo, e ancora nessuno di essi ha decisamente riportato vittoria.

Noi barcolliamo, ma è necessario non spaventarsene e non abbandonare magari le nuove conquiste. Inoltre non possiamo più tornare al vecchio, abbiamo bruciato le navi; non resta che essere valorosi, quale che sia l’ esito. Solo, moviamoci, solo, usciamo dall’ immobilità!

Forse un giorno il nostro comportamento apparirà come progresso; altrimenti, sia detta anche a nostra consolazione, la frase di Federico il Grande: Ah, mon cher Sulzer, vous ne connaisez pas cette race maudit à laquelle nous appartenons.

 

249.  Soffrire del passato della civiltà.

Chi si è chiarito il problema della civiltà, soffre poi di un sentimento simile a quello di chi abbia ereditato una ricchezza acquisita con mezzi illeciti, o del principe che governi grazie alla violenza dei suoi predecessori.

Egli pensa con afflizione alla sua origine, e talora se ne vergogna, talora se ne irrita. L’ intera somma di forza, vitalità e gioia che egli devolve ai suoi averi, si bilancia spesso con una profonda stanchezza: egli non sa dimenticare la propria origine. Guarda al futuro con tristezza; i suoi discendenti, lo sa già, soffriranno come lui del passato.

 

 UNO SGUARDO ALLO STATO

da: Umano, Troppo Umano I.

vol. IV, 2 della collezione Adelphi

Traduzione di Sossio Giametta

 

Traduzione di Sossio Giametta

 

443.  Speranza e presunzione.

Il nostro ordinamento sociale andrà lentamente liquefacendosi, come fecero tutti gli ordinamenti precedenti non appena i soli di nuove opinioni splendettero sugli uomini con novello ardore.

Si può desiderare questa dissoluzione solo in quanto si speri: e sperare si può ragionevolmente solo quando in sé e nei propri simili si suppone più forza di mente e di cuore che nei rappresentanti dell’ ordine vigente.

Di solito, cioè, questa speranza sarà una presunzione, una sopravvalutazione.

 

444.  La guerra.

A sfavore della guerra si può dire: essa rende stupido il vincitore e cattivo il vinto.

A favore della guerra: essa imbarbarisce con entrambi i suddetti effetti, rendendoli così più naturali; essa rappresenta per la civiltà il letargo o l’ inverno, l’ uomo ne nasce più forte, per il bene e per il male.

[Ma se il nuovo barbaro (vincitore) diventerà stupido, combinerà più danno e non potrà favorire l’ avanzamento della civiltà.

Converrà quindi perdere e diventare più cattivi, ovvero più forti, ma per  soltanto a fine di male.

Assieme alla contraddizione del “genio”, ove Nietzsche spazia da Goethe a Valentino Borgia, questa è la sua seconda contraddizione. Non ve ne sono altre, importanti, a parte la contraddizione dell’ ateismo, intorno alla quale ho scritto nel mio libretto “Friedrich Nietzsche, contraddizioni e valori”. Edizioni Webster Press, Libreria Universitaria.

Nietzsche cioè intende il mito della guerra come “purificazione”, valore sostenuto da quasi tutti (liberali, comunisti, fascisti) nel trapasso fra l’ ‘ Otto e il ‘ Novecento. Valore oggi scomparso, almeno fra filosofi ed uomini di governo dotati di un minimo  saggezza.

Ma, si dirà,  “la guerra contro i talebani”?

I talebani intendono alla lettera i valori biblici del Pentateuco. Ad esempio, i valori che giustificano la distruzione dei monumenti degli idoli antichi. Valore  che i cristiani, verso la fine del quarto secolo dopo Cristo, hanno applicato, anche con grande solerzia.

Quindi noi occidentali, noi cristiani, noi biblici, non siamo incomunicabili ai talebani. Potremmo discutere e, col tempo, calmare le acque e risolvere. Avremmo anche le persone giuste allo scopo. Non lo facciamo per non mostrare d’ esser noi stessi ancora pregni di cultura talebana.

Tolte le tre contraddizioni: sulla guerra, sul genio educatore e su Dio   (per quest’ ultima vedi il mio libro “Friedrich Nietzsche, contraddizioni e valori, preambolo), al di là di questi temi Nietzsche non si contraddirà mai: ad esempio sugli ebrei, sulla politica sociale ed altro. Per cui tutta la sua produzione successiva diventerà comprensibile]. 

 

445.  Al servizio del principe.

Un uomo di Stato farà meglio, per poter agire completamente libero da ogni riguardo, ad attuare la propria opera, non per sé, bensì per un principe.

L’ occhio dello spettatore rimane abbagliato dallo splendore di questo continuo disinteresse, sicché non vede le perfidie e durezze che l’ opera dello statista comporta.

 

446.  Una questione di forza, non di diritto.

Per gli uomini che in ogni cosa tengono presente la superiore utilità, non vi è nel socialismo, sempreché esso sia veramente  l’ insorgere di coloro che furono per millenni soggiogati e oppressi contro i loro oppressori, un problema di diritto (con la ridicola, molle domanda: “Fino a che punto si deve cedere alle sue pretese?”), ma solo un problema di potenza, cioè come per un forza naturale, ad esempio il vapore che, o viene costretto dall’ uomo, come dio delle macchine, a servirlo, oppure, se ci sono errori nella macchina, cioè errori di calcolo umano nella costruzione della medesima, frantuma insieme la macchina e l’ uomo.

Per risolvere questo problema di potenza, bisogna sapere che la forza del socialismo abbia, in quale combinazione esso possa ancora essere utilizzato come una potente leva nell’ attuale giuoco delle forze politiche; in determinate circostanze bisognerebbe persino fare di tutto per rafforzarlo.

Di fronte a ogni grande forza – e foss’ anche la più pericolosa – l’ umanità deve pensare a fare di essa uno strumento dei propri disegni. Un diritto il socialismo lo acquisterà solo quando fra le due potenze, i rappresentanti del vecchio e del nuovo, sembrerà che si sia giunti alla guerra, e quando poi l’ intelligente calcolo della maggiore conservazione e utilità possibile farà nascere da tutt’ e due le parti, il desiderio di un contratto. Senza contratto nessun diritto.

Ma finora nel menzionato campo non esistono ne’ guerra ne’ contratto, dunque neanche diritti, neanche un dovere.

 

447.  Utilizzazione della disonestà minima.

Il potere della stampa consiste nel fatto che ogni individuo che la serve si sente solo pochissimo obbligato e vincolato. Egli dice di solito la sua opinione, ma per una volta anche non la dice, per giovare al suo partito o alla politica del suo paese, o infine a sé stesso.

Tali piccoli delitti di disonestà, o forse solo di disonesto silenzio, non sono difficili da sopportare per l’ individuo, tuttavia le conseguenze sono straordinarie, perché questi piccoli delitti vengono commessi da molti nello stesso tempo. Ognuno di costoro si dice: “Per servigi così piccoli, vivo meglio, posso procurarmi di che vivere; mancando di questi piccoli riguardi, mi rendo impossibile.

Siccome sembra quasi moralmente indifferente scrivere o non scrivere una riga in più, fra l’ altro magari senza neanche la firma, uno che abbia denaro e influenza può fare di ogni opinione l’ opinione pubblica.

Chi in questo campo sa che la maggior parte degli uomini sono deboli nelle piccolezze e vuol raggiungere per mezzo loro i suoi fini, è sempre un uomo pericoloso.

 

448.  Tono troppo alto nelle lamentele.

Per il fatto che una situazione di emergenza (per esempio le manchevolezze di una amministrazione, la corruzione e il favoritismo in corporazioni politiche e scientifiche) venga presentata in modo fortemente esagerato, la presentazione perde sì il suo effetto fra gli intelligenti, ma agisce tanto più fortemente sui non intelligenti (che a una esposizione accurata e moderata sarebbero rimasti indifferenti).

Ma dato che questi ultimi, in grande maggioranza  albergano in sé più potenti energie e volontà, e più impetuoso piacere di agire, quell’ esagerazione diviene causa di inchieste, punizioni, promesse, riorganizzazioni. In tal senso è utile presentare in modo esagerato situazioni di emergenza.

 

449.  Quelli che in apparenza fanno il tempo in politica.

Come il popolo, di fronte a chi s’ intende del tempo e lo predice con un giorno di anticipo, ammette tacitamente che egli faccia il tempo, così anche persone colte e dotte, con uno sperpero di fede superstiziosa, attribuiscono ai grandi statisti, come opera loro, tutti gli altri importanti mutamenti e congiunture che si produssero durante il loro governo, se appena appena è chiaro che essi ne seppero qualcosa prima degli altri e in base a ciò  fecero i loro calcoli; anch’ essi cioè vengono presi per uomini che fanno il tempo – e questa credenza non è il minore strumento della loro potenza.

 

450.  Nuovo e vecchio concetto di governo.

Il distinguere fra governo e popolo, come se qui si trattassero e si accordassero due separate sfere di potenza, una più forte e alta con una più debole e bassa, è un frammento di sentimento politico ereditato, che corrisponde ancora oggi esattamente, nella maggior parte degli Stati, alla configurazione storica dei rapporti di potenza.

Quando, per esempio, Bismarck definisce la forma costituzionale come un compromesso fra governo e popolo, egli parla secondo un principio che trova la sua ragione nella storia (benché in essa trovi anche il grano di ragionevolezza, senza il quale niente di umano può esistere).

Invece bisogna oggi imparare – secondo un principio che è scaturito dalla sola mente e che deve ancora far storia – che il governo non è altro che un organo del popolo, non il provvido e venerabile “sopra” in rapporto a un “sotto” avvezzo alla modestia.

Prima di accogliere questa formulazione del concetto di governo, finora antistorica e arbitraria, seppure più logica, se ne vogliano considerare le conseguenze: perché il rapporto fra governo e popolo è il più forte rapporto esemplare, in base al cui modello si foggiano involontariamente i rapporti fra insegnante e allievo, padrone di casa e servitù, padre e famiglia, condottiero e soldato, maestro e discepolo. Tutti questi rapporti oggi, sotto l’ influsso della forma costituzionale di governo dominante, si trasformano alquanto; essi divengono compromessi.

Ma come dovranno rovesciarsi e spostarsi, cambiare nome e natura, quando quel novissimo concetto si sarà dappertutto impadronito delle menti!

Per la qual cosa, comunque, potrebbe ben occorrere ancora un secolo. A questo riguardo nulla di più augurabile che prudenza e lenta evoluzione.

 

451.  La giustizia come richiamo di partito.

E’ certo possibile che nobili (benché non proprio molto avveduti) rappresentanti della classe dominante promettano a sé stessi: vogliano trattare gli uomini da uguali, accordare loro pari diritti. In tal senso un modo di pensare socialista che si fondi sulla giustizia è possibile; ma come si è detto, solo entro la classe dominante, che esercita in questo caso la giustizia con sacrifici e rinunzie.

Per contro il chiedere parità di diritti, come fanno i socialisti della casta assoggettata, non è mai il prodotto della giustizia, bensì dell’ avidità.

Quando alla belva si mettono e poi si tolgono continuamente da sotto il naso pezzi di carne sanguinolenta, finché da ultimo essa ruggisce: credete voi che questo ruggito significhi giustizia?

 

452.  Proprietà e giustizia.

Quando i socialisti dimostrano che la ripartizione della proprietà nell’ umanità presente è la conseguenza di innumerevoli ingiustizie e violenze e in summa negano l’ esistenza di doveri verso qualcosa di così ingiustamente fondato, essi vedono solo alcunché di isolato.

Tutto il passato della vecchia civiltà è costruito sulla violenza, sulla schiavitù, sull’ inganno e sull’ errore; ma noi non possiamo abolire noi stessi, gli eredi di tutte queste situazioni, anzi le concrescenze di tutto quel passato, e non dobbiamo volerne isolare una parte singola.

I sentimenti ingiusti si annidano anche nelle anime dei non possidenti, i quali non sono migliori dei possidenti e non godono di alcuna prerogativa morale, perché in una qualche epoca i loro antenati sono stati possidenti.

Non nuove violenze e ripartizioni, bensì graduale trasformazione delle idee occorrono; la giustizia deve diventare  in tutti più grande, l’ istinto di violenza più debole.

 

453.  Il timoniere delle passioni.

L’ uomo di Stato produce passioni pubbliche per trarre profitto dalla passione contraria in tal modo suscitata. Per fare un esempio: uno statista sa bene che la Chiesa Cattolica non avrà mai piani in comune con la Russia, che essa anzi preferirebbe di gran lunga allearsi coi Turchi che con quella; egli sa del pari che la Germania avrebbe tutto da temere da un’ alleanza con la Francia e con la Russia.

Se ora egli potrà giungere a fare della Francia l’ asilo e la rocca della Chiesa Cattolica, avrà eliminato per lungo tempo quel pericolo. Avrà quindi interesse a mostrare odio ai cattolici e a trasformare, con ostilità di ogni sorta i sostenitori dell’ autorità papale in un’ appassionata forza politica, che sarà ostile alla politica tedesca e dovrà naturalmente fondersi con la Francia come con l’ avversaria della Germania: il suo fine sarà la cattolicizzazione della Francia, con la stessa necessità con cui Mirabeau vedeva nella politicizzazione la salvezza della sua patria.

Uno Stato vuole cioè l’ offuscamento di milioni di cervelli in un altro Stato, per trarre da questo offuscamento il proprio vantaggio.

Sono questi gli stessi principii per i quali si favorisce la forma repubblicana di governo nello Stato vicino, le désordre organisé, come dice Mériméper la sola ragione che la si suppone idonea a rendere il popolo più debole, diviso e inadatto alla guerra.

 

454.  I pericolosi fra gli spiriti sovversivi.

Si dividano coloro che si propongono un sovvertimento della società, in quelli che vogliono raggiungere qualcosa per sé stessi, e in quelli che vogliono raggiungere qualcosa per i loro figli e nipoti. Questi ultimi sono i più pericolosi; giacché hanno la fede e la buona coscienza del disinteresse.

Gli altri si possono tacitare con poco: la società dominante è sempre ancora ricca e intelligente abbastanza per farlo.

Il pericolo comincia non appena gli scopo divengono impersonali; i rivoluzionari mossi da interesse impersonale possono considerare tutti i difensori dell’ ordine costituito come personalmente interessati a sentirsi per ciò ad essi superiori.

 

455.  Valore politico della paternità.

Se l’ uomo non ha figli, non ha pieno diritto di interloquire sui bisogni di un singolo Stato. Bisogna aver rischiato personalmente con gli altri, nei figli, ciò che si ha di più caro: solo ciò lega saldamente lo Stato; bisogna tener presente la felicità dei propri discendenti, e quindi innanzitutto avere dei discendenti, per prendere giusta, natural parte a tutte le istituzioni e alle loro trasformazioni.

Lo sviluppo di una moralità più alta dipende dal fatto che uno abbia figli; ciò lo dispone altruisticamente, o più esattamente: allarga il suo egoismo nel senso della durata e gli fa perseguire con serietà scopi che vanno oltre la sua vita individuale.

 

456.  Fierezza per gli avi.

Si può essere fieri con ragione di una serie ininterrotta di antenati buoni fino al padre – ma non della serie; poiché questa l’ ha ognuno.

L’ origine da antenati buoni costituisce la vera nobiltà di nascita; una unica interruzione di quella catena, cioè un antenato cattivo, sopprime la nobiltà di nascita.

Bisogna chiedere a chiunque parli della propria nobiltà: non hai nessun uomo violento, avaro, dissoluto, malvagio o crudele fra i tuoi antenati?

Se egli in buona scienza e coscienza può rispondere di no, se ne ricerchi l ‘ amicizia.

 

457.  Schiavi e operai.

Che noi riponiamo maggior valore nel soddisfacimento della vanità che in ogni altro bene (sicurezza, sistemazione, piaceri di ogni specie), lo rivela in un grado ridicolo il fatto che ognuno desidera (prescindendo da ragioni politiche) l’ abolizione della schiavitù, e aborre nel modo più assoluto dal ridurre gli uomini in questa condizione : mentre ognuno deve dirsi che sotto tutti i rispetti gli schiavi vivono più sicuri e felici del moderno operaio, e che il lavoro dello schiavo è molto poco lavoro in confronto a quello del “lavoratore”.

Si protesta in nome della “dignità umana”; questa è però, detto più schiettamente, quella cara vanità che sente il non essere parificati, l’ essere pubblicamente stimati inferiori, come la sorte più dura.

Il cinico la pensa in proposito diversamente, perché disprezza gli onori: e così Diogene fu per un certo tempo schiavo e precettore.

 

458.  Menti direttive e loro strumenti.

Noi vediamo che i grandi statisti, e in genere tutti coloro che per l’ attuazione dei loro disegni devono servirsi di molti uomini, si comportano ora in una maniera ora in un’ altra: essi, o scelgono molto finemente e accuratamente gli uomini adatti ai loro progetti, e lasciano poi loro una libertà relativamente grande, perché sanno che la natura di quegli uomini scelti li conduce appunto dove essi stessi vogliono averli; oppure scelgono male, anzi prendono ciò che vien loro sotto mano, foggiano però da ogni argilla qualcosa di utile ai loro fini. Quest’ ultima specie è la più violenta, essa desidera anche strumenti più sottomessi; la sua conoscenza degli uomini è di solito molto minore, il suo disprezzo degli uomini maggiore che negli spiriti prima menzionati, ma la macchina che essi costruiscono lavora generalmente meglio della macchina che vien fuori dall’ officina degli altri.

 

450.  Necessario il diritto arbitrario.

I giuristi disputano se in un popolo debba vincere il diritto più completamente elaborato o quello più facile a capirsi.

Il primo, di cui il modello più alto è quello romano, appare al profano incomprensibile, e perciò non come espressione del suo sentimento del diritto.

I diritti nazionali, come ad esempio quelli germanici, erano rozzi, superstiziosi, illogici, in parte sciocchi, ma corrispondevano a costumi e sentimenti nazionali ereditari affatto determinati. Ma dove il diritto non è più, come da noi, tradizione, esso può essere solo imposto, solo costrizione; noi tutti abbiamo più un senso tradizionale del diritto, perciò dobbiamo accontentarci di diritti arbitrari, che sono espressione della necessità che esista un diritto.

Ciò che è più logico, e comunque allora ciò che è più accettabile, perché è ciò che è più imparziale; anche concedendo che in ogni caso l’ unità di misura minima nel rapporto fra reato e pena è fissata arbitrariamente.

 

460.  Il grand’ uomo della massa.

La ricetta per ciò che la massa chiama un grand’ uomo, è presto data.

In tutte le circostanze le si procuri qualcosa che le sia molto gradito, o le si metta prima in testa che questo o quello le sarebbe molto gradito, e poi glielo si dia.

Ma per nessuna ragione subito: lo si procuri invece con grande sforzo, o si faccia mostra di procurarlo con sforzo. La massa deve avere l’ impressione che ci sia una forza di volontà possente, anzi invincibile, per lo meno deve sembrare che ci sia.

Tutti ammiriamo la volontà forte, perché nessuno ce l’ ha e ognuno si dice che, se ce l’ avesse, per lui e per il suo egoismo non ci sarebbe più limite. Se poi vedono che una tale volontà forte attua qualcosa di molto gradito alla massa, invece di ascoltare i desideri del proprio egoismo, ammirano ancora una volta, e se ne ripromettono ogni bene. Nel resto bisogna avere tutte le qualità della massa: quanto meno essa si vergognerà di fronte a lui, tanto più il grand’ uomo sarà popolare.

Dunque: sia violento, invidioso, sfruttatore, intrigante, adulatore, strisciante, tronfio e, a seconda dei casi, tutto.

 

461.  Principe e Dio.

Per più versi gli uomini si comportano coi loro principi in maniera simile a come si comportano col loro Dio, come appunto anche il principe fu per più versi il rappresentante di Dio, o per lo meno il suo sommo sacerdote.

Questa quasi sinistra disposizione spirituale alla venerazione, alla paura, alla soggezione è divenuta ed è molto più debole, ma talvolta divampa e si attacca a persone potenti in genere.

Il culto del genio è un eco di questa venerazione dei principi – dèi. Dovunque ci si sforzi di elevare singoli individui a una sfera sovrumana, sorge anche la tendenza a raffigurarsi interi strati di popolo più rozzi e bassi di quanto realmente non siano.

 

462.  La mia utopia.

In un migliore ordinamento della società il lavoro e le necessità pesanti della vita saranno affidati a chi ne soffre di meno, cioè al più insensibile, e così gradualmente su su , fino a colui che è sensibile al massimo alle specie più alte e sublimate di sofferenza, e che perciò continua a soffrire anche quando la vita gli viene alleviata al massimo.

 

463.  Una illusione nella teoria della rivoluzione.

Ci sono esaltati politici e sociali che con fuoco ed eloquenza incitano a un rovesciamento di tutte le istituzioni, nella fede che subito, allora, sorgerebbe  quasi spontaneamente il più superbo esempio di bella umanità.

In questi pericolosi sogni echeggia ancora la superstizione di Rousseau, che credeva in una miracolosa bontà originaria per così dire seppellita dalla natura umana, e attribuiva la colpa di quel seppellimento alle istituzioni della civiltà, nella società, nello Stato e nella educazione.

Purtroppo si sa, da esperienze storiche, che ogni rivolgimento del genere fa risorgere le energie più selvagge, gli orrori e gli eccessi delle più lontane età da lungo sepolti: che cioè un rivolgimento può ben essere una fonte di forza in una umanità diventata fiacca, ma non mai un ordinatore, un architetto, un artista, un perfezionatore della natura umana.

Non la natura moderata di Voltaire, con la sua tendenza a ordinare, purificare e ricostruire, bensì le appassionate follie e le mezze verità di Rousseau hanno evocato lo spirito ottimistico della rivoluzione, contro il quale il grido: “Ecrasez l’ infàme!”.

Da esso è stato per gran tempo discacciato lo spirito dell’ illuminismo e dello sviluppo progressivo: vediamo – ognuno per conto proprio – se è possibile richiamarlo in vita.

 

  AURORA

Da: Pensieri sui pregiudizi morali

Vol. V, 1 della collezione Adelphi.

Versione di Ferruccio Masini.

 

LIBRO PRIMO.

62.  Dell’ origine delle religioni.

Come può essere sentita, quale rivelazione, la propria opinione sulle cose? E’ questo il problema dell’ origine delle religioni: c’è stato ogni volta un uomo in cui quel processo fu possibile.

Il presupposto è che già precedentemente egli credesse alle rivelazioni.

Ed ecco che un bel giorno, all’ improvviso, egli conquista il suo nuovo pensiero, e quel che v’ è di beatificante in una grande ipotesi personale, comprensiva del mondo e dell’ esistenza, entra così violentemente nella sua coscienza, che egli non osa sentirsi creatore di una tale beatitudine ed attribuisce al suo Dio la causa di questa, ed ancora la causa della causa di quel nuovo pensiero, inteso come rivelazione di Dio stesso.

Come potrebbe un uomo essere l’ autore di una così grande felicità? – suona il suo pessimistico dubbio.

A realizzare tuto ciò agiscono occultamente altre leve: per esempio, si rafforza innanzi a sé un’ opinione; sentendola come rivelazione, se ne cancella il carattere ipotetico, la si sottrae alla critica, anzi al dubbio, la si consacra.

In tal modo, in realtà, si degrada sé stessi, ma è pur sempre il nostro pensiero a vincere, in quanto pensiero di Dio; il senso di restare pertanto noi i vincitori, alla fine prende il sopravvento su quell’ altro senso di umiliazione.

C’è anche un altro sentimento che giuoca sullo sfondo: se si innalza sopra sé stessi la propria  creazione e apparentemente si prescinde dal proprio valore, esiste pur sempre un’ esultanza di amor paterno e fierezza paterna che compensa tutto e costituisce più di un compenso.

 

63.  Odio del prossimo.

Posto che noi sentiamo l’ altro così come egli sente sé stesso – cosa questa che Schopenhauer chiama compassione, e che più giustamente si dovrebbe chiamare uni passione, dolore all’ unisono – noi dovremmo odiarlo se lui, come Pascal, trova sé stesso odioso.

E fu ben questo, in complesso, il sentimento di Pascal verso gli uomini, e similmente quello dell’ antico cristianesimo che, come riporta Tacito, veniva “convinto” sotto Nerone, di odium generis humani.

 

64.  I disperanti.

Il cristianesimo ha l’ istinto del cacciatore verso tutti coloro che possono essere in un modo o nell’ altro ridotti alla disperazione: solo una parte eletta dell’ umanità ne è capace. Il cristianesimo se ne sta sempre alle loro spalle, è sempre lì a spiarli.

Pascal fece il tentativo, se non fosse possibile ridurre ognuno alla disperazione con l’ aiuto della conoscenza più tagliente: il tentativo fallì, causando una seconda disperazione.

 

65.  Brahmanesino e Cristianesimo.

Esistono ricette in ordine al senso della potenza, in primo luogo per quei tali che possono dominare sé stessi, e per cui già attraverso di ciò il senso della potenza è divenuto cosa familiare; in secondo luogo per quegli altri a cui è precisamente questo che manca.

Il brahmanesimo si è preso cura degli uomini della prima specie, il cristianesimo degli uomini della seconda.

 

66.  Facoltà di visione.

Per tutto il Medioevo la facoltà visionaria – cioé la capacità di subire un profondo turbamento spirituale – fu considerata un segno caratteristico e decisivo della più elevata umanità, e in fondo le medievali prescrizioni di vita per le nature superiori (i religiosi) miravano a rendere l’ uomo capace di visioni.

Non c’è da meravigliarsi se anche nel nostro tempo è straripata una sopravvalutazione di persone semisconvolte, vaneggianti, fanatiche, le cosiddette persone geniali: “esse hanno veduto cose che gli altri non vedono” – sicuro, questo dovrebbe renderci cauti verso di esse, e non già creduli.!

 

67.  Prezzo dei credenti

Chi annette al fatto di essere creduto, una tale importanza da garantire il Cielo a compenso di questa fede e da garantirlo a chiunque , fosse pure un ladrone crocifisso – costui deve avere sofferto un dubbio orrendo e avere conosciuto ogni specie di crocifissione: altrimenti non comprerebbe a sì caro prezzo i suoi credenti.

 

68.  Il primo cristiano.

Continuano sempre tutti a credere al mestiere di “scrittore dello Spirito Santo”, oppure subiscono l’ influsso di questa credenza: se si apre la Bibbia è per “edificarsi”, per trovare indicato un conforto nella propria personale grande o piccola tribolazione, - insomma, è sé stessi che si legge lì dentro, e tra le righe.

Che in essa sia descritta anche la storia di una delle anime più ambiziose e più moleste e di un cervello tanto superstizioso quanto accorto, la storia dell’ apostolo Paolo, - chi mai lo sa ad eccezione di qualche dotto?

Tuttavia, senza questa storia singolare, senza i perturbamenti e le burrasche di un tale cervello, di una tale anima, non esisterebbe una cristianità; avremmo avuto appena notizia di una piccola setta giudea, il maestro della quale morì sulla croce.

Non c’è dubbio: se si avesse appunto compreso questa storia a tempo giusto, se si avesse letto, letto realmente  - da mille e cinquecento anni non vi fu un tale lettoregli scritti di Paolo, non come rivelazioni dello “Spirito Santo”, bensì con rettitudine e libertà di spirito, e senza accompagnare la lettura con il pensiero della nostra personale tribolazione, anche il cristianesimo sarebbe passato da un pezzo: queste pagine del Pascal giudeo rendono manifesta l’ origine del cristianesimo, nella stessa misura in cui le pagine del Pascal francese mettono a nudo il suo destino e ciò che lo farà perire.

Che la navicella del cristianesimo abbia gettato fuori bordo una buona parte della zavorra giudaica, che sia andata fra i pagani, e abbia voluto andarci, tutto ciò dipende dalla storia di quest’ ultimo uomo, un uomo molto tormentato, degno di molta commiserazione, molto importuno e importuno a sé medesimo. Soffriva di una idea fissa, o per esprimerci più chiaramente, di un problema fisso costantemente presente, mai giunto a pacificarsi: come sta la questione della legge giudaica? E per l’ appunto quella dell’ adempimento di tale legge?

Nella sua gioventù aveva voluto soddisfarla lui stesso, affamato di questo segno distintivo, il più elevato che potessero concepire gli Ebrei – questo popolo che ha spinto la fantasia della sublimità etica più in alto di qualsiasi altro popolo e a cui soltanto è riuscita la creazione di un Dio santo accanto al pensiero del peccato, inteso come una mancanza verso questa santità.

Paolo era divenuto il fanatico difensore e l’ onorario custode di questo Dio e della sua legge, e a un tempo era continuamente in lotta e in agguato contro i trasgressori e i dubbiosi, duro e malvagio contro di essi e incline al massimo della pena.

E fu allora che sperimentò in sé stesso di non poterla adempiere – impetuoso, sensuale, malinconico, maligno nell’ odio com’ era – la legge medesima, ed anzi, cosa questa che gli pareva assai strana, sentì che la sua sfrenata avidità di dominio era continuamente stimolata e trasgredita e che lui era costretto ad assecondare questo pungolo.

E’ davvero la “concupiscenza” che fa di lui  sempre nuovamente un trasgressore ?

E dietro la concupiscenza  non è invece, come egli sospettò più tardi, la legge stessa, la legge che deve continuamente dimostrarsi inosservabile e allettare con irresistibile magia alla trasgressione?

Ma allora questa via d’ uscita non esisteva ancora per lui. Ogni genere di peccati gli pesavano sulla coscienza – egli accenna a inimicizia, omicidio, stregoneria, idolatria, scostumatezza, ebrietà e il piacere di sfrenate gozzoviglie – e per quanto cercasse di dare nuovo sfogo anche a questa coscienza, e ancor più alla sua avidità di dominio, attraverso l’ estremo fanatismo della venerazione e della difesa della legge, venivano sempre momenti in cui egli si diceva: “E’ tutto inutile!” Il martirio dell’ inadempimento della legge non può essere superato”.

Allo stesso modo deve aver sentito Lutero, allorché voleva divenire, nel suo convento, l’ uomo perfetto dell’ ideale sacerdotale: e come accadde a Lutero, che un bel giorno cominciò a odiare d’ un vero odio mortale, tanto maggiore quanto meno poteva confessarlo a sé stesso, l’ ideale sacerdotale  e il papa e i santi e l’ intero clero – così fu per Paolo.

La legge era la croce a cui di sentiva confitto: quanto la odiava! Quanto era il suo rancore verso di essa! Come andava cercando in ogni luogo un mezzo per annientarla – non più per adempierla nella sua persona!

E infine gli arrise il pensiero della salvezza insieme ad una visione, come non poteva non succedere in questo epilettico; a lui, il furibondo zelatore della legge, che di esse era enormemente stanco dentro di sé, apparve su una strada solitaria quel Cristo nel cui volto raggiava la luce di Dio, e Paolo udì queste parole: “Perché mi perseguiti”?

Ma l’ essenziale di ciò che avvenne fu questo: in quell’ attimo il suo spirito si fece chiaro; è irrazionalesi era detto, “perseguitare questo Cristo, sì, è qui la via d’ uscita, sì, è qui la compiuta vendetta, sì è qui e in nessun altro luogo che io ho e tengo il distruttore della legge!”.

Colui che era malato della più tormentosa superbia si sentì nello stesso istante ristabilito, la disperazione morale era come soffiata via, poiché era la morale ad esser volata via, ad esser distrutta, - vale a dire adempiuta là sulla croce!

Fino a quel momento quella morte ignominiosa era stata argomento principale contro la messianità di cui parlavano i seguaci della nuova dottrina: ma che dire, invece, se essa fosse stata necessaria per sopprimere la legge?

Le enormi conseguenze di questa ispirazione, di questo scioglimento dell’ enigma, turbinano davanti al suo sguardo, egli diventa d’ un subito il più felice degli uomini, - il destino degli Ebrei, anzi di tutti gli uomini, gli appare legato a questa ispirazione, a questo attimo della sua improvvisa folgorazione; egli possiede il pensiero dei pensieri, la chiave delle chiavi, la luce delle luci: in quel momento è intorno a lui stesso che si svolge la storia. 

Perché a partire da allora è lui il maestro della distruzione della legge!

Morire al male – cioè morire anche alla legge; essere nella carne – cioè essere anche nella legge; divenire una sola cosa con Cristo – cioè essere divenuti, con lui, anche distruttori della legge; essere morti con lui – cioè essere morti anche alla legge!

Anche se fosse ancora possibile peccare, non sarebbe più possibile peccare contro la legge. “Io sono al di fuori di essa”.

“Se io ora volessi nuovamente accettare la legge e sottomettermi ad essa, farei di Cristo il complice del peccato”; la legge infatti c’ era perché si commettesse peccati, essa generava sempre i peccati come umori acri generano la malattia; Dio non avrebbe mai potuto decretare la morte di Cristo se senza questa morte fosse stato in generale possibile  un adempimento della legge; ora non soltanto è tolta ogni colpa, bensì è annientata la colpa stessa in sé; ora è morta la legge, ora è morta la carnalità in cui la legge abita – o almeno sta continuamente morendo, per così dire è in via di decomposizione.

Per breve tempo ancora in mezzo a questa decomposizione : è questa la sorte del cristiano prima che egli, divenuto una cosa sola con Cristo, risorga con Cristo, sia partecipe, con Cristo, della divina maestà e diventi, come Cristo “figlio di Dio”.

Così l’ ebbrezza di Paolo è al suo culmine, come pure lo è l’ improntitudine della sua anima; con il pensiero dell’ unificarsi, essa ha perduto ogni vergogna, ogni subordinazione, ogni limite, e l’ indomabile volontà della bramosia di dominio si manifesta come un anticipato godimento delle divine beatitudini.

E’ questo il primo cristiano, l’ inventore della cristianità! Prima di lui non c’ erano che alcuni ebrei settari!

 

69.  Inevitabile.

Esiste tra invidia e amicizia, tra dispregio di sé e fierezza, una tensione di enorme portata: nella prima viveva il greco, nella seconda il cristiano.

 

70.  A che cosa è utile un intelletto grossolano.

La Chiesa cristiana è una enciclopedia di preistorici culti e intuizioni dall’ origine più disparata, e perciò è così capace di diffusione missionaria: essa giungeva un tempo, essa può giungere oggi ovunque voglia, essa si trovava e si trova dinanzi a qualcosa di somigliante, al quale può accordarsi e a cui può gradatamente sostituire il suo significato.

Non l’ elemento cristiano che è in essa , bensì quello universale e pagano delle sue consuetudini è la base del diffondersi di questa religione mondiale; le sue concezioni, che hanno radice in un terreno ebraico ed ellenico ad un tempo, hanno saputo fin da principio elevarsi al di sopra delle particolarità e delle sottili stonature nazionali e di razza, come pure al di sopra dei pregiudizi.

Si ammiri pure questa forza di far concrescere l’ una nell’ altra le realtà così diverse; ma non si dimentichi peraltro la caratteristica spregevole di questa forza; la sbalorditiva grossolanità e facilità d’ appagamento del suo intelletto, all’ epoca della fondazione della Chiesa, che le permettono così di accontentarsi di ogni cibo e di digerire opposizioni come ciottoli.

 

71.  La vendetta cristiana su Roma.

Forse non c’ è nulla che stanchi tanto, quanto lo spettacolo di un continuo vincitore, - per duecento anni si era visto Roma assoggettare a sé un popolo dopo l’ altro, il circolo era compiuto, tutto l’ avvenire sembrava alla fine, tutte le cose erano organizzate per una eterna condizione.

Sì, se l’ impero edificava, edificava con l’ intenzione dell’ aere perennius; e noi, noi che conosciamo soltanto la “malinconia delle rovine” possiamo a stento comprendere quella malinconia di tutt’ altra specie, delle costruzioni eterne, dalla quale bisognava cercare di salvarsi come si poteva: per esempio, con la frivolezza di Orazio.

Altri cercavano differenti mezzi di conforto contro la stanchezza confinante con la disperazione, contro la coscienza mortifera che ormai tutti i movimenti del pensiero e del cuore fossero senza speranza, che in ogni luogo si fosse piantato il grande ragno, che esso avesse implacabilmente bevuto tutto il sangue, dovunque ancora scaturisse. Questo odio vecchio di secoli, senza parole, nutrito dagli stanchi spettatori verso Roma, almeno per tutto il tempo in cui durò il suo dominio, si sgravò, alla fine, nel cristianesimo, coinvolgendo in un solo sentimento Roma, “il mondo” e il “peccato”; ci si vendicò di Roma ritenendo prossima l’ improvvisa fine del mondo; ci si vendicò di Roma ponendo di nuovo dinanzi a sé  un avvenire – Roma aveva saputo trasformare tutto nella sua preistoria e nel suo presente – e un avvenire in confronto al quale Roma non appariva più come il fatto più importante; ci si vendicava di essa sognando il giudizio ultimo – e l’ ebreo crocifisso, come simbolo di salvezza, costituiva l’ estrema irrisione verso gli splendidi pretori della provincia; infatti essi ora apparivano come i simboli della sventura e del “mondo” maturo per la fine.

 

72.  Il “dopo la morte”.

Il cristianesimo si ritrovò dinanzi alla rappresentazione di castighi infernali in tutto l’ impero romano: su di essa numerosi culti misterici hanno covato, con una compiacenza tutta particolare, come sull’ uovo più fecondo della loro potenza. Epicuro aveva creduto di non poter fare per i suoi simili niente di più grande che strappare le radici di questa credenza: il suo trionfo, che ha una bellissima risonanza nella voce del più fosco – eppur salito a chiarità – seguace della sua dottrina, il romano Lucrezio, venne troppo presto; il cristianesimo prese sotto la sua particolare protezione la credenza, già in via di sfiorire, nei terrori dell’ oltretomba, e in questo agì saggiamente.

Come avrebbe potuto, senza questo ardito aggancio col pieno paganesimo, riportar la vittoria sulla popolarità dei culti di Mitra e di Iside?

Così portò dalla sua parte i pavidi – i più forti proseliti di una nuova fede!

Gli Ebrei, essendo un popolo che amava ed ama la vita, come i Greci e più del Greci, avevano coltivato poco quelle concezioni: la morte definitiva, come castigo del peccatore, e l’ impossibilità di una nuova resurrezione come minaccia estrema, tutto questo esercitava una efficacia sufficientemente forte su questi uomini singolari che non volevano sbarazzarsi del loro corpo, ma speravano di salvarlo, nel loro raffinato egizianismo, per tutta l’ eternità (un martire ebreo, di cui si può leggere nel secondo libro dei Maccabei, non pensa di rinunciare ai visceri che gli hanno strappato: vuole averli quando risorgerà – tanto è questo un sentire ebraico!).

I primi cristiani erano assai lontani dal pensiero dei tormenti eterni; essi pensavano di essere liberati dalla morte e si aspettavano di giorno in giorno una trasmutazione, e non più una morte.

(Che curioso effetto deve avere avuto, tra questi uomini in attesa, il primo caso di decesso! Come dovevano essere mescolati, a questo punto, stupore, giubilo, dubbio, vergogna, acceso fervore – un vero soggetto per grandi artisti!).

Del suo redentore, Paolo non seppe dire altro di meglio se non che egli avrebbe aperto ad ognuno l’ accesso all’ immortalità; Paolo non crede ancora alla resurrezione dei non redenti, bensì in seguito alla sua dottrina dell’ impossibile adempimento della legge e della morte come corollario del peccato, ha il sospetto che in fondo nessuno, fino a quel momento (o ben pochi, eppoi per grazia e senza alcun merito) sia divenuto immortale; soltanto ora l’ immortalità convincerebbe a dischiudere le sue porte, - ed infine anche per essa pochi sarebbero eletti; come la superbia dell’ eletto non può fare a meno di aggiungere.

Altrove, dove l’ istinto della vita non era così grande come tra gli ebrei e i cristiani ebrei, e la prospettive dell’ immortalità non appariva senz’ altro più pregna di valore della prospettiva di una morte definitiva, quella interpolazione pagana, ma neppure del tutto non ebraica, riguardo all’ inferno, diveniva uno strumento propizio nelle mani dei missionari: nacque la nuova dottrina che anche il peccatore e il non redento sarebbero immortali, la dottrina del dannato in eterno, ed essa fu più potente del pensiero, ormai del tutti illanguidito, della morte definitiva.

Soltanto la scienza ha dovuto riconquistarselo ancora una volta, e proprio respingendo nello stesso tempo ogni altra rappresentazione della morte e ogni vita ultraterrena.

Di un solo interesse noi siamo divenuti più poveri: il “dopo la morte” non ci interessa più un bel niente! Un indicibile beneficio questo, che è soltanto ancor troppo giovane per essere sentito in tutta la sua estensione come tale. Ed ecco che di nuovo trionfa Epicuro!

 

73.  Per la “verità”.

“Depone a favore della verità del cristianesimo la condotta virtuosa dei cristiani, la loro fermezza nel dolore, la salda fede e soprattutto la loro espansione e il loro sviluppo, nonostante tutte le afflizioni”; così voi continuate a parlare ancor oggi.

E’ veramente pietoso! Sappiate dunque che tutto questo non depone ne’ a favore, ne’ contro la verità, che la verità ha una dimostrazione diversa da quella della veridicità, e che quest’ ultima non costituisce affatto un argomento a sostegno della prima.

 

74.  Riposta intenzione dei cristiani.

Sarà forse stata questa la riposta intenzione più consueta dei cristiani del primo secolo: “E’ meglio persuadersi della propria colpa che della propria innocenza, poiché non si conosce mai abbastanza la intenzione di un giudice tanto potente; eppur si deve temere che egli non speri di trovar soltanto uomini coscienti della loro colpa.

Nella sua grande potenza farà più facilmente grazia ad un peccatore, piuttosto che ammettere che qualcuno abbia ragione dinanzi a lui.

La povera gente della provincia sentiva allo stesso modo riguardo al pretore romano: “Egli è troppo superbo, perché ci sia lecito essere innocenti” – e come non dovrebbe essersi ripresentato questo modo di sentire nella rappresentazione cristiana del giudice supremo?

 

75.  Non europeo e non nobile.

C’è nel cristianesimo qualcosa di orientale e qualcosa di femmineo; si tradisce nel pensiero: “Dio castiga chi gli è caro”; infatti in Oriente le donne considerano castighi e rigorosa segregazione della loro persona dal mondo come segni d’ amore del loro uomo, e si dolgono se questi segni vengono a mancare.

 

76.  Pensare male significa rendere malvagio.

Le passioni diventano malvagie e maligne se vengono riguardate in modo malvagio e maligno.

Così il cristianesimo è riuscito a fare di Eros e Afrodite  - grandiose potenze ricche di forze ideali – coboldi infernali e spiriti fraudolenti, grazie ai tormenti che esso ha fatto nascere nella coscienza dei credenti ad ogni perturbamento sessuale.

Non è orribile trasformare sensazioni necessarie e normali in una fonte di intima miseria in ogni uomo?

Non ne resta che una miseria tenuta segreta e perciò stesso più profonda nelle sue radici, poiché non tutti hanno il coraggio di Shakespeare di confessare su questo punto il loro offuscamento cristiano, come ha fatto lui nei suoi sonetti.

Dovrà sempre essere chiamato malvagio ciò contro cui bisogna combattere, che occorre tenere nei suoi limiti, o in certe circostanze togliersi completamente dalla mente?

Non è tipico di anime volgari pensare che un nemico sia sempre malvagio?

E’ in sé comune alle sensazioni sessuali, come pure a quelle della compassione e dell’ adorazione, il fatto che un essere umano, attraverso il proprio piacere, determini un bene in un altro essere, - non troppo di frequente si incontrano in natura disposizioni benefiche di questa specie! Ed è proprio una di esse che si denigra e si guasta mediante la cattiva coscienza!

Stringere la procreazione degli uomini in fraterna unione con la cattiva coscienza!

Infine, questa diabolizzazione di Eros ha avuto un epilogo da commedia: il “diavolo” Eros è divenuto poco a poco più interessante per gli uomini di tutti gli angeli e i Santi, grazie al sommesso parlottare e all’ aria di mistero della Chiesa su tutti i fatti eroici; essa ha avuto come risultato che, fin nel bel mezzo della nostra epoca, la vicenda amorosa è divenuta l’ unico reale interesse comune a tutti gli ambienti, - in una esagerazione inconcepibile all’ antichità, esagerazione cui seguirà più tardi, quando che sia, anche con scoppio di ilarità.

Tutta la nostra opera di poesia e di pensiero, dalla più grande alla più insignificante, è caratterizzata e più che caratterizzata dall’ eccessiva importanza con cui la vicenda amorosa assume in essa il posto di vicenda principale: per questo il giudizio dei posteri troverà forse nell’ intero retaggio della cultura cristiana qualcosa di meschino e di scervellato.

 

77.  Delle torture dell’ anima.

Per qualsiasi tortura che qualcuno infligga ad un corpo altrui, ognuno oggi prorompe in alte grida: l’ indignazione contro chi è capace di ciò si scatena subito; sì, noi tremiamo già all’ idea di una tortura che possa essere inflitta a un uomo o a un animale, e soffriamo in un modo del tutto intollerabile a sentir raccontare un fatto sicuramente provato, di questo genere.

Ma si è ancora ben lontani dal sentire in maniera egualmente universale e determinata, riguardo alle torture dell’ anima e all’ orrore della loro effettuazione.

Il cristianesimo le ha portate ad applicazione in una misura inaudita e predica ancora continuamente questo genere di tormento, anzi, con aria del tutto innocente, lamenta decadenza e intiepidimento se si imbatte in una condizione dove tali torture non esistono; tutto ciò ha come risultato che l’ umanità si comporta ancor oggi verso il rogo mortale dello spirito, verso le spirituali torture e strumenti di tortura, con la stessa pazienza e risolutezza con cui si comportava una volta verso la crudeltà usata sul corpo di uomini e di animali .

L’ inferno non è stato, in verità, una mera parola: e ai reali terrori infernali nuovamente creati, si è fatto anche corrispondere un nuovo genere di compassione, una orribile ed enormemente pesante commiserazione, ignota alle epoche precedenti, verso “chi è dannato irrevocabilmente all’ inferno”, come lo dimostra, per esempio, il convitato di pietra nei riguardi di Don Giovanni, quella commiserazione che nei secoli del cristianesimo ha fatto gemere più di una volta persino le pietre.

Plutarco offre una immagine cupa della condizione di un miscredente all’ interno del paganesimo: questa immagine diventa innocua se la si mette a raffronto con il cristiano del Medioevo, che presume di non volere più scampare allo “eterno tormento”.

Gli compaiono innanzi spaventosi messaggi: forse una cicogna che tiene nel becco un serpente, e ancora indugia a ingoiarlo. Oppure la natura si fa improvvisamente pallida, oppure trascorrono volando sul terreno colori infuocati.

Oppure si approssimano le figure di parenti defunti, portando nei visi le tracce di atroci sofferenze, o le oscure pareti della camera del dormiente si rischiarano e compaiono su di esse, nella gialla caligine, strumenti di tortura in uno sviluppo di serpi e di demoni.

Sì, quale luogo spaventevole ha saputo fare della terra il cristianesimo, già per il solo fatto di aver collocato ovunque il crocefisso, e per avere in tal modo designato la terra come il luogo in cui “il giusto viene martirizzato a morte” .

E quando la violenza dei grandi predicatori penitenziali costrinse il segreto dolore dei singoli, il martirio delle “quattro pareti” a manifestarsi pubblicamente, quando per esempio un Whitefield predicava “come un agonizzante rivolto ad agonizzanti”, ora effondendosi in lacrime, ora pestando i piedi forte e con veemenza, usando gli accenti più incisivi e repentini, e senza peritarsi di concentrare tutta la forza del suo attacco su una singola persona presente ed isolarla orribilmente dalla comunità, ecco che la terra sembrava ogni volta volersi realmente trasformare nel “prato della sventura”. Si videro allora affluire masse intere di uomini, come in preda all’ eccesso di una stessa follia; molti negli spasimi del terrore, altri giacevano in deliquio, inerti; alcuni tremavano violentemente, oppure fendevano l’ aria con grida acute, che duravano ore intere.

Ovunque un respirare forte, come di gente che, semisoffocata, cerca ansimando ossigeno. “E realmente, - dice un testimone oculare di una simile predica – quasi tutte le grida che giungevano agli orecchi erano quelle di uomini che muoiono in un acerbo tormento”.

Non dimentichiamo mai che fu soltanto il cristianesimo quello che ha fatto del letto di morte un letto di martirio, e che le scene che viste d’ allora in poi svolgersi su di esso, con gli spaventevoli accenti che qui per la prima volta apparvero possibili, sono stati avvelenati i sensi e il sangue di innumerevoli testimoni, per la vita loro e per quella dei loro discendenti! Si pensi ad un pacifico uomo, che non può cancellare dalla mente il ricordo d’ aver udito una volta queste parole: “O eterno! Oh se non avessi un’ anima! Oh se non fossi mai nato! Io sono dannato, dannato, perduto per sempre. Sei giorni fa avreste potuto aiutarmi. Ma è troppo tardi. Ora appartengo al diavolo, voglio andare all’ inferno con lui. Infrangetevi, infrangevi poveri cuori di pietra! Non volete infrangervi? Che cos’ altro di più può accadere a cuori di pietra? Io sono dannato,affinché voi possiate essere salvi! Eccolo! Sì, vieni! Diavolo! Diavolo buono! Vieni!”

 

78.  La giustizia che punisce.

Infelicità e colpa – queste due cose sono state messe dal cristiano su una stessa bilancia: cosicché, se è grande l’ infelicità che segue a una colpa, sempre la grandezza della colpa viene a sua volta involontariamente commisurata a quella dell’ infelicità.

Ma questo non è qualcosa di antico, e perciò la tragedia greca, in cui si fa questione così largamente, e tuttavia in un senso diverso, d’ infelicità e di colpa, appartiene alle grandi liberatrici dell’ anima, in una misura che nemmeno gli antichi poterono avvertire. Essi erano rimasti così ingenui da non stabilire una adeguata relazione tra colpa e infelicità.

La colpa dei loro eroi tragici è sì la piccola pietra sulla quale inciampano e si rompono un braccio o perdono un occhio; al qual proposito l’ antica sensibilità diceva: “Sì, egli avrebbe dovuto percorrere la sua strada con maggiore circospezione e minor tracotanza”.

Ma soltanto al cristiano era riservato di dire: “Ecco una grave disgrazia, e dietro di essa deve essere nascosta una grave egualmente grave colpa, sebbene non la vediamo chiaramente! Se tu sventurato non la senti, tu sei indurito, dovrai passarne ancora di peggio! “

Nell’ antichità, poi, esisteva realmente ancora infelicità; soltanto nel cristianesimo tutto diventa punizione, punizione ben meritata; esso fa ancor più soffrire l’ immaginazione del sofferente, cosicché ad ogni dolorosa vicissitudine egli si sente moralmente riprovevole e riprovato. Povera umanità!

I Greci hanno una loro parola per esprimere lo sdegno suscitato dall’ infelicità altrui: tra i popoli cristiani questo sentimento non ha potuto aver luogo e si è poco sviluppato, e così manca loro anche il nome di questo virile fratello della compassione.

 

79.  Una proposta.

Se il nostro io, secondo Pascal e il cristianesimo, è sempre odioso, come potremmo anche soltanto permettere e accettare che altri lo amino – siano essi Dio o gli uomini? Sarebbe contrario a tutte le buone convenienze farsi amare e sapere benissimo, al contempo, che si meriterebbe soltanto odio, per tacere di altri sentimenti di repulsione.

“Ma questo è, per l’ appunto, in regno della grazia”.

Così per voi, il vostro amore del prossimo è una grazia? Una grazia di vostra pietà? Ebbene, se questo vi riesce possibile, fate ancora un passo avanti: amate voi stessi per grazia, - allora non avrete più nessuna necessità del vostro Dio, e l’ intero dramma del peccato originale e della redenzione si consumerà in voi stessi sino alla fine!

 

80.  Il cristiano compassionevole.

L’ altra faccia della pietà cristiana per i dolori del prossimo è il profondo sospetto che ogni gioia del prossimo, per la sua gioia in tutto ciò che vuole e può.

 

81.  Umanità del santo.

Un santo era capitato in mezzo ai credenti, e non poteva più sopportare il loro continuo odio per il peccato. Così alla fine disse: “Dio ha creato tutte le cose, ad eccezione del peccato: c’è da stupirsi se non ha dell’ affetto per esso? Ma l’ uomo invece ha creato il peccato – e dovrebbe respingere questo suo unico figlio soltanto perché dispiace a Dio, il nonno del peccato? E’ tutto questo umano?

A chi deve rendersi onore, onor si renda! Ma cuore e dovere dovrebbero in primo luogo parlare a favore del figlio – e solo in un secondo tempo in onore del nonno.

 

82.  L’ aggressione ecclesiastica.

“Devi giungere ad una decisione con te stesso, poiché ne va della tua vita!”

Con questo appello ci balza addosso Lutero, e secondo lui ci si dovrebbe sentire il coltello alla gola. Ma noi lo respingiamo con le parole di qualcuno che sta più in alto ed è più accorto: “Noi siamo liberi di non formarci alcuna opinione su una cosa o su un’ altra, e di risparmiare così l’ inquietudine della nostra anima. Poiché le cose stesse, secondo la loro natura, non possono costringerci ad alcun giudizio”.

 

83.  Povera umanità!

Una goccia di sangue di troppo o di meno nel cervello può rendere la nostra vita indicibilmente miserabile e dura, così come noi abbiamo a soffrire di questa goccia più che Prometeo del suo avvoltoio.

Ma il peggio viene soltanto quando non si sa nemmeno che quella goccia è la causa. Bensì “il diavolo”!  Oppure “il peccato”!

 

84.  La filologia del cristianesimo.

Quanto poco il cristianesimo educhi il senso dell’ onestà e della giustizia, lo si può valutare abbastanza bene dal carattere degli scritti dei suoi dotti: essi espongono con tale sicumera le loro congetture, come fossero dogmi, e di rado si trovano in un onesto imbarazzo riguardo alla interpretazione di un passo biblico.

Si torna sempre a dire: “io ho ragione, perché così sta scritto”. Ed ecco che fa seguito una spudorata licenza di interpretazione, sicché un filologo, a serntir ciò, si ferma a metà strada fra collera e riso, e si domanda sempre di nuovo: “E possibile? E onesto tutto questo? E’ anche perlomeno decoroso?”

Ciò che in questo senso si continua a perpetrare dall’ alto dei pulpiti protestanti; la rozzezza con cui il predicatore profitta di non poter essere interrotto; come la Bibbia venga là sopra tartassata e mal ridotta e in ogni forma sia somministrata al popolo l’ arte di leggere male: tutto questo lo sottovaluta soltanto colui che non va mai in chiesa, o ci va sempre. Ma in definitiva, che cosa ci si deve aspettare dai postumi effetti di una religione che nei secoli della sua fondazione ha rappresentato quella inaudita farsa filologica intorno al Vecchio Testamento: voglio dire, il tentativo di svellere il Vecchio Testamento dalle midolla degli ebrei, con l’ affermazione che esso non conterrebbe nient’ altro che gli insegnamenti cristiani, e che apparterrebbe ai cristiani come al vero popolo d’ Israele, mentre gli ebrei lo avrebbero soltanto arrogato a sé stessi.

E ci si lasciò prendere da allora dal furore dell’ interpretare  e dell’ interpolare, furore che non può essere connesso con la buona coscienza; per quanto i dotti ebrei elevassero alte proteste, ovunque, nel Vecchio Testamento, il discorso doveva vertere su Cristo e soltanto su Cristo, ovunque, particolarmente  culla sua croce, e bastava che in qualche luogo si facesse menzione di un legno, di una verga, di una scala, di un ramo, di un albero, di un salice, di un bastone, perché quivi questo venisse a significare una profezia del legno della croce; perfino il sollevarsi dell’ Unicorno e del bronzeo serpente, perfino Mosé quando allarga le braccia in preghiera, anzi perfino gli spiedi su cui è arrostito l’ agnello pasquale, tutte queste cose non sono che allusioni, e quasi preludi della croce!

Ha mai qualcuno che abbia affermato questo, creduto in ciò?

Si consideri che la Chiesa non si peritò di arricchire il testo dei Settanta (per esempio nel Salmo 96 vol. 10), Per utilizzare in seguito, nel senso della profezia cristiana, il passo in tal modo contrabbandato.

Ma si era, appunto, in battaglia e si pensava agli avversari, e non all’ onestà.

 

85.  Sottigliezza nel difetto.

Non burlatevi della mitologia dei Greci, specialmente perché così poco assomiglia alla vostra profonda metafisica!

Dovreste ammirare un popolo che proprio qui ha imposto un freno al suo acuto intendimento e per lungo tempo ha avuto abbastanza tatto da evitare il pericolo della scolastica e della sofistica superstizione.

 

86.  I cristiani interpreti del corpo.

Qualunque cosa provenga dallo stomaco, dagli intestini, dal battito cardiaco, dai nervi, dalla bile, dallo sperma – tutti quei disturbi, quelle debilitazioni, quelle sovraeccitazioni, l’ intera casualità della macchina a noi tanto ignota – tutto questo un cristiano come Pascal deve prenderlo come un fenomeno morale – religioso, sollevando il problema se qui dentro ci sia Dio o il diavolo, il bene o il male, la salvezza o la dannazione.

Ahimé, sventurato interprete! Come deve torcere e torturare il suo sistema! Come deve contorcersi e torturarsi per aver ragione!

 

87.  Il miracolo etico.

Il cristianesimo, nell’ etica, conosce soltanto il miracolo: la repentina trasmutazione di tutti i giudizi di valore, il repentino abbandono di tutte le consuetudini, la repentina inarrestabile tendenza verso nuovi oggetti e persone. Esso concepisce questo fenomeno come l’ influsso della divinità, e chiama questo l’ atto della nuova nascita, conferisce ad esso un valore unico, incomparabile; tutto questo vuole avere il nome di eticità, e non ha alcuna connessione con quel miracolo; diventa pertanto indifferente per il cristiano, anzi, forse in quanto senso di benessere, sentimento d’ orgoglio, diventa persino un oggetto di timore.

Nel Nuovo Testamento è stabilito il canone della virtù, dell’ adempimento della legge, ma in guisa tale che esso è il canone della virtù impossibile: gli uomini che hanno ancora aspirazioni etiche devono imparare a sentirsi, al cospetto di un tale canone, sempre più lontani dalla loro meta, devono disperare della virtù ed infine gettarsi nel cuore del Misericordioso – soltanto con questa conclusione il travaglio etico in un cristiano poteva ancora essere considerato come avente un suo valore, nel presupposto, dunque, che esso restasse sempre un travaglio senza successo, senza soddisfazione, malinconico; così poteva ancora servire a determinare quell’ attimo estatico in cui l’ homo vive interiormente “l’ irruzione della Grazia” e il miracolo etico.

Ma necessaria questa lotta per l’ eticità non lo è; quel miracolo, infatti, aggredisce non di rado proprio il peccatore quand’ egli, per cos’ dire, fiorisce della lebbra del peccato; anzi pare proprio che il salto dalla più profonda e radicale peccaminosità sino al suo contrario sia qualcosa di assai facile e, come palpabile dimostrazione del miracolo, anche qualcosa di più desiderabile.

Che cosa del resto debba fisiologicamente significare un tale improvviso rovesciamento irrazionale e irresistibile, un tale avvicendarsi della più profonda miseria e del più profondo benessere (forse una epilessia mascherata?), sta agli psichiatri prenderlo in esame, essi che proprio di tali “miracoli” (per esempio mania omicida, mania di suicidio) hanno abbondante materia d’osservazione.

Il relativamente più gradevole esito del caso del cristiano, non apporta alcuna differenza essenziale.

 

88.  Lutero, il grande benefattore.

Quel che costituisce il più considerevole risultato dell’ azione di Lutero sta nella diffidenza destata da lui nei riguardi dei santi e dell’ intera vita contemplativa cristiana: soltanto da allora è divenuto di nuovo sensibile in Europa il cammino verso una vita contemplativa non cristiana, ed è stata posta una meta al disprezzo dell’ attività mondana e dei laici.

Lutero, che restava pur sempre il figlio gagliardo di un minatore, allorché fu rinchiuso nel convento, e qui, in mancanza di altre profondità e “cavità”, cominciò a salire dentro sé stesso e a trivellare orribili ed oscuri cunicoli, finì per notare che una santa vita contemplativa gli sarebbe stata impossibile, e che la sua innata “attività” nell’ anima e nella carne lo avrebbe trascinato alla perdizione. Troppo a lungo tentò di trovare, a furia di macerazione, la via della santità, ma finalmente prese la sua decisione e si disse:

“Non esiste alcuna reale vita contemplativa! Ci siamo fatti abbindolare! I santi non hanno avuto più valore di noi tutti”.

Indubbiamente era questo un modo d’ aver ragione proprio da contadino – ma per i tedeschi di quel tempo era l’ unico modo, e quello giusto; li edificava assai leggere ora nel loro catechismo luterano: “Fuori dei dieci comandamenti non c’ è opera alcuna che potrebbe piacere a Dio – le magnificate opere religiose dei santi sono loro invenzione”.

 

89.  Dubbio come peccato.

Il cristianesimo ha fatto di tutto per chiudere il circolo, e ha dichiarato che già il dubbio è peccato. Si deve senza ragione, attraverso un miracolo, essere gettati entro la fede e nuotare allora in essa come nell’ elemento più chiaro e più inequivocabile: già guardare verso una qualche terraferma, già il pensiero che non si esista soltanto per nuotare, già il moto leggero della nostra natura anfibia – è peccato!

Si noti però che in tal modo la motivazione della fede ed ogni riflessione sopra la sua origine sono egualmente escluse già in quanto peccaminose. Si vuole cecità e vertigine, nonché un eterno cantare sulle onde in cui è annegata la ragione.

 

90.  Egoismo contro egoismo.

Quanti sono coloro che ancor sempre concludono: “La vita non sarebbe sopportabile se non esistesse un Dio” (oppure, come si dice nei circoli degli idealisti: “la vita non sarebbe sopportabile se mancasse la significatività etica del suo fondamento”)!

Di conseguenza dovrebbe esistere un Dio (oppure una significatività etica dell’ esistenza).

In verità c’ è solo il fatto che chi si è abituato a queste rappresentazioni non desidera una vita priva di esse: e dunque è vero che per lui e per la sua conservazione non  possono esserci rappresentazioni necessarie – ma quale arroganza decretare che tutto quanto è necessario per la mia conservazione debba anche esistere in realtà! Come se la mia conservazione fosse qualcosa di necessario!

E che accadrebbe se altri sentissero in maniera opposta? Se proprio sotto le condizioni di quei due articoli di fede non volessero vivere e se in questo caso non trovassero la vita degna di esser vissuta?

Ed oggi le cose stanno così.

 

91.  La rettitudine di Dio.

Un Dio che è onnisciente  e onnipotente, e che non provvede neppure a che la sua intenzione venga compresa dalle sue creature, dovrebbe essere un Dio di bontà? Un Dio che lascia persistere innumerevoli dubbi e scrupoli per interi millenni, come se essi non fossero pericolosi per la salvezza dell’ umanità, e che tuttavia mette ancora in evidenza le spaventose conseguenze di non cadere in errore riguardo alla verità? Non sarebbe un Dio crudele se possedesse la verità e potesse osservare come l’ umanità si tormenta disperatamente per essa?

Ma forse è pur sempre un Dio di bontà, - e tutto sta nel fatto che non poteva esprimersi più chiaramente! Gli mancava forse l’ intelligenza per questo? Oppure l’ eloquenza?

Tanto peggio! Se così fosse avrebbe errato forse anche in ciò che si chiama la sua verità e non sarebbe lui stesso tanto lontano dal “povero diavolo truffato”. Non dovrebbe allora sopportare quasi infernali torture nel vedere che, per amore della conoscenza di lui, le sue creature soffrono così, e continuano a soffrire ancora di più per tutta l’ eternità, e del non poter dare un consiglio e un aiuto, se non come un sordomuto che fa ogni sorta di segni ambigui quando alle spalle del suo bambino o del suo cane sta il pericolo più terribile?

In verità sarebbe perdonabile, per un credente che giungesse a tali conclusioni e ne fosse penosamente oppresso, se gli fosse più vicina la pietà per il Dio sofferente che la pietà “per il prossimo”, perché non esiste più il suo prossimo, quando c’ è colui che è più solitario, che di tutti i più sofferenti è assolutamente primigenio, colui che più di tutti ha bisogno di conforto. – Tutte le religioni traggono il loro segno distintivo del fatto che debbono la loro originalità ad una precoce, immatura intellettualità del genere umano, - con una sorprendente leggerezza, essa tutte si assumono l’ onere di dire la verità: non sanno ancora un bel nulla riguardo a un dovere di Dio di essere verace nei riguardi dell’ umanità, e chiaro nel comunicare con essa.

Intorno al “nascosto Iddio” e alle ragioni di tenersi nascosto e di rivelarsi sempre soltanto a metà con la parola, nessuno è stato più eloquente di Pascal, segno questo che egli non se n’è mai potuto dar pace: ma la sua voce risuona con tale sicurezza, come se si fosse messo a sedere una volta dietro il sipario. Egli aveva subodorato una immoralità nel “Deus absconditus” e nutriva la più grande vergogna e timore di confessarlo: e così, come uno che ha paura, parlava più forte che poteva.

 

92.  A letto di morte del cristianesimo.

Gli uomini realmente attivi oggi sono interiormente senza cristianesimo, e gli uomini più moderati e ponderati del medio ceto intellettuale possiedono ancora soltanto un cristianesimo raccomodato, vale a dire prodigiosamente semplificato.

Un Dio che nel suo amore predispone tutto nel modo che sarà in definitiva il migliore per noi, un Dio che ci dà e ci toglie tanto la nostra virtù come la nostra felicità, di guisa che tutto in complesso va nel migliore dei modi e non c’è più nessuna ragione di prendere la vita in maniera difficile e addirittura di lamentarsi , insomma, la rassegnazione e la modestia erette a divinità – questo è quanto di meglio e di più vitale sia restato ancora nel cristianesimo.

Ma si dovrebbe altresì notare che con ciò il cristianesimo si è convertito in un blando moralismo: non è tanto “Dio, libertà e immoralità” quel che ci resta, quanta benevolenza e un decoroso sentire, nonché la fede che anche  nell’ intera totalità domineranno benevolenza e decoroso sentire: è l’ eutanasia del cristianesimo.

 

93.  Che cos’ è la verità?

Chi vorrà ribellarsi alla deduzione cui amano giungere i credenti: “La scienza non può essere vera perché nega Dio. Di conseguenza essa non deriva da Dio; di conseguenza non è vera, poiché Dio è la verità”?

Non nell’ inferenza, bensì nel presupposto sta l’ errore: e se Dio appunto non fosse la verità, e questo appunto fosse provato?

Se egli fosse la vanità, la bramosia del potere, l’ impazienza, il terrore, l’ estasiato e inorridito delirio degli uomini?

 

94.  Terapia degli scontenti.

Già Paolo riteneva che fosse necessario un sacrificio perché venisse tolto il profondo scontento di Dio riguardo al peccato, e da allora i cristiani non hanno cessato di dar sfogo, su una vittima, al malumore che provavano verso sé stessi – sia questa il “mondo”, o la “storia”, o la “ragione”, o la gioia, oppure la pacifica quiete di altri esseri umani. Una qualche cosa buona deve morire (anche se soltanto in effigie) per il loro peccato!

 

95.  La confutazione storica come definitiva.

Un tempo si cercava di dimostrare che Dio non esiste – oggi si mostra come ha potuto avere origine la fede nell’ esistenza di un Dio, e per quale tramite questa fede ha avuto il suo peso e la sua importanza: in tal modo una controdimostrazione della non esistenza di Dio diventa superflua.

Quando una volta si erano confutate le prove addotte “per dimostrare l’ esistenza di Dio” restava sempre il dubbio che si potessero trovare ancora prove migliori di quelle già confutate: a quel tempo gli atei non erano capaci di far tavola rasa.

 

96.  In hoc signo vinces.

Per quanto possa essere progredita, l’ Europa non ha ancora raggiunto, nelle questioni religiose, la liberale ingenuità degli antichi brahmani, segno questo che in India, quattro millenni or sono, si pensava di più e si soleva tramandare il piacere del pensiero più di quanto non accada oggi in mezzo a noi.

Quei brahmani credevano infatti per prima cosa che i sacerdoti fossero più potenti degli dèi e, secondariamente, che le consuetudini fossero ciò in cui si sostanzia la potenza dei sacerdoti: per la qual cosa i loro poeti non si stancavano di esaltare le consuetudini (preghiere, cerimonie, sacrifici, canti, ritmi) come le vere elargitrici di ogni bene.

Per quanto potessero ancor sempre infiltrarsi in tutto questo molte finzioni poetiche e molta superstizione, i princìpi erano veri!

Un passo avanti: e gli dèi furono gettati da parte – e questo che  anche l’ Europa dovrà pur fare una buona volta! Un altro passo avanti: e anche i preti e i mediatori non furono più necessari, e comparve Buddha a insegnare la religione dell’ autoredenzione – quanto è ancor lontana l’ Europa da questo grado di civiltà! 

Quando, infine, saranno annientate anche tutte le consuetudini e i costumi sui quali si sostiene la potenza degli dèi, dei sacerdoti, dei redentori, quando dunque sarà morta la morale nel suo più antico significato, verrà allora … sì, che cosa verrà allora?

Non cerchiamo di indovinare, ma cerchiamo piuttosto, per prima cosa, di fare in modo che l’ Europa ripeta ciò che in India, tra il popolo dei pensatori, già alcuni millenni or sono fu realizzato come imperativo del pensiero.

Ci sono forse oggi dai dieci a venti milioni di uomini, tra i diversi popoli europei, che non “credono” più “in Dio” – è troppo esigere  che si facciano segno l’ un l’ altro?

Appena si riconosceranno tali, si faranno anche riconoscere, - diventeranno subito una potenza in Europa e, fortunatamente, una potenza fra i popoli! Tra le classi! Tra poveri e ricchi! Tra chi comanda e chi soggiace! Tra gli uomini più inquieti e quelli più quieti, più acquietanti!

 

FINE DELLE SINOSSI.

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 Enrico Orlandini,   Osimo  8 novembre 2012.

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