NIETZSCHE:
Brani da “Umano, troppo umano”
e “Aurora”.
In questa sinossi presentiamo tre brani tratti da “Umano, troppo umano”
e “Aurora”, pubblicati fra il 1878 e il 1881, ovvero nel periodo intorno
al quale Nietzsche abbandonò, per motivi di salute, l’ università di
Basilea (1879), e in seguito al cui avvenimento, (e alla precedente
rinuncia alla cittadinanza prussiana), egli rimase in
Europa come apolide,
praticamente come scrittore intellettuale
e turista colto; di fatto senza fissa dimora,
trattenendosi di preferenza in
località italiane, svizzere, e francesi (Nizza).
Il particolare interesse delle citazioni che qui presentiamo proviene
dal fatto che esse, in seguito, non furono mai smentite da Nietzsche,
salvo essere ribadite, sebbene a volte con
l’ aggiunta di
contraddizioni.
La intuizione del genio, ad esempio, che in questo file appare
specialmente nella prima
raccolta sinottica di
aforismi, ed ancora da prima, non fu mai
espressa molto chiaramente nell’ opera di Nietzsche, in quanto
egli la intense sia con riferimento alla cultura in sé (Goethe), sia con
riferimento allo Stato, ed all’ “uomo di Stato”, al “costruttore dello
Stato” (da Licurgo sino alla “belva innocente”,
a Cesare Borgia).
Illuminanti, a questo proposito, sono, nei “Sintomi di cultura” gli
aforismi 231 e 235, ove Nietsche prevede perfettamente, con quarant’
anni di anticipo, lo effettivo carattere della futura “dittatura del
proletariato” (che egli definisce semplicemente “socialismo”), descritta
con intuizione profetica, nella visione di come
essa avrebbe portato alla irreggimentazione delle masse, alla
educazione forzata di poderosi
armenti umani che, secondo le aspettative culturali dell’ epoca
(comprese quelle di Marx, che però Nietzsche mostra di non nominare mai
direttamente), avrebbero dovuto vivere
pacifici e felici a rivoluzione compiuta.
Rivoluzione che avvenne però soltanto a causa della prima guerra
mondiale, per demerito delle classi egemoni russe.
E col nome di “socialismo” intese anche, senza rendersi conto del
carattere profetico della propria intuizione, fascismo e nazional
socialismo.
Tutti tre nati in realtà
nella temperie di un mondo razionalmente incomprensibile e assurdo, nati
da una identica madre ideologica, alla quale le religioni non sono
estranee.
Così fu anche per il mito dell’ uomo “libero” , come fu inteso nel
Ventesimo secolo.
L’ Ottocento fu un secolo positivo per la cultura filosofica e tecnico –
scientifica (per merito dello stesso Nietzsche … Comte, Darwin, Peirce
…) secolo che preparò però contemporaneamente, a causa della propria
cultura politica e dello Stato, la decadenza del Ventesimo.
Il Ventunesimo ha forse capito qualcosa, ma non ne è fuori.
Riassumendo: Nietzsche in sé fu un filosofo positivo che già da prima di
“Aurora” iniziò la sua
transvalutazione della
la morale corrente.
Gli aforismi che si riportano nella
terza delle nostre sinossi, riguardano la sua critica alla
religione cristiana, comprensiva della sua parte luterana.
Sebbene scrittore “di assoluta avanguardia” per il suo secolo, dovette
anch’ egli subire il capestro
dei costumi correnti e la incomprensione di molti.
Finiamo qui l’ esposizione delle sue interpretazioni della
morale, certamente disinteressate e sincere (Nietzsche fu anche
accusato. da Lukacs, di essere al soldo del grande capitale).
Gli scritti posteriori al suo volontario allontanamento da Basilea, (la
Gaia Scienza, Zarathustra,
Genealogia della morale e gli altri), sono molto noti al pubblico,
in quanto editori contemporanei ne propongono continuamente le opere. Le contraddizioni successive riguardano soprattutto: la sua concezione metafisica (il concetto dello “eterno ritorno”), la sua interpretazione del Superuomo; la sua concezione dello Stato. Nel nostro libro ne abbiamo aggiunto la nostra idea (con numerose citazioni) della sua “contraddizione dell’ ateismo” Enrico Orlandini, novembre 2012.
SINTOMI DI CULTURA SUPERIORE
E INFERIORE
da: Umano, Troppo Umano I.
vol. IV, 2 della collezione Adelphi
Traduzione di Sossio Giametta
225. Un concetto relativo: lo spirito libero.
Si chiama spirito libero colui che pensa diversamente da come, in base
alla sua origine, al suo ambiente, al suo stato o ufficio, o in base
alle opinioni dominanti del tempo, ci si aspetterebbe che egli pensasse.
Egli è l’ eccezione; gli spiriti vincolati sono la regola; questi ultimi
gli rimproverano che i suoi liberi principii trovino origine nella sua
smania di farsi notare, oppure addirittura che facciano pensare ad
azioni libere, cioè ad azioni che sono incompatibili con la morale
vincolata. Talvolta si dice anche che quei liberi principii sono da
attribuire a stramberia o esaltazione della mente; ma così parla solo
una malignità che – essa stessa – non crede a ciò che dice, ma vorrebbe
in tal modo nuocere; infatti la testimonianza della maggiore bontà e
acutezza del suo intelletto è di solito scritta in volto allo spirito
libero, e a così chiare lettere che gli spiriti vincolati la intendono
benissimo.
Ma gli altri due modi di spiegare l’ origine del libero pensiero sono
intesi onestamente; in effetti molti spiriti liberi si formano anche
nell’ uno o nell’ altro modo. Tuttavia le conclusioni a cui essi per
quelle vie sono giunti, potrebbero essere, proprio per questo, più vere
e attendibili di quelle degli spiriti vincolati.
Nella conoscenza della verità ciò che conta è che la si possieda, non
per quale impulso la si è cercata o per quale via la si è trovata.
E se gli spiriti liberi hanno ragione, allora gli spiriti vincolati
hanno torto, non importa se i primi sono giunti alla verità per
immoralità, e se i secondi si sono attenuti finora alla non verità per
moralità. D’ altronde non appartiene all’ essenza dello spirito
libero che egli abbia opinioni più giuste, ma piuttosto che egli si sia
staccato dalla tradizione, sia con fortuna, sia con insuccesso.
Di solito, comunque, egli avrà dalla sua parte la verità, o almeno lo
spirito di ricerca della verità; egli esige ragioni, gli altri fede.
226. Origine della fede.
Lo spirito vincolato accetta la sua posizione non per ragionamento,
bensì per abitudine;
è, per esempio, cristiano, non per aver esaminato le varie religioni e
per avere scelto fra esse; è inglese, non per essersi deciso per l’
Inghilterra; egli semplicemente si è trovato davanti il Cristianesimo e
la qualità di inglese, e ha accettato le due cose senza ragionarci
sopra, come uno che, nato in un paese vinicolo, diventa bevitore di
vino.
Più tardi, quando già era cristiano e inglese, sarà forse riuscito a
trovare alcune ragioni a favore della sua abitudine; ma per quanto si
demoliscano queste ragioni, non si demolirà nulla della sua posizione.
Si costringa ad esempio uno spirito vincolato ad esporre le sue ragioni
contro la bigamia, allora si vedrà se il suo santo zelo per la monogamia
è basato su ragionamenti oppure su abitudine. L’ abitudine a
principii intellettuali non ragionati si chiama fede.
227. Concludere dalle
conseguenze alla fondatezza e infondatezza.
Tutti gli Stati e gli ordinamenti della società:
i ceti, il matrimonio, l’ educazione, il diritto, tutte queste cose
hanno la loro forza e durata solo nella fede che ripongono in esse gli
spiriti vincolati – cioè nell’ assenza di ragioni, o per lo meno nel
rifiuto delle indagini sulle ragioni. Ciò gli spiriti vincolati non
ammettono volentieri e sentono bene che è un
pudendum. Il Cristianesimo,
che era molto innocente nelle sue ispirazioni intellettuali, non
notò nulla di questo pudendum,
esigé fede e nient’ altro che fede e
respinse con passione la richiesta di ragioni; esso indicò il
successo della fede: sentirete subito il vantaggio della fede, spiegava,
sarete per essa beati.
In realtà anche lo Stato procede così, e ogni padre educa in ugual
maniera il figlio: tieni per vero soltanto questo, dice, e sentirai come
questo fa bene.
Ma ciò significa che la verità di una opinione sarebbe dimostrata
dall’ utile personale che essa arreca, che l’ utilità di una
dottrina costituirebbe garanzia della loro sicurezza e fondatezza
intellettuale. E’ come se l’ accusato dicesse davanti al tribunale: il
mio difensore dice tutta la verità, perché guardate che cosa segue dal
suo discorso: io vengo assolto.
Gli spiriti vincolati, avendo dei princìpi a causa della loro utilità,
presumono anche dallo spirito libero, che egli con le sue vedute cerchi
ugualmente il proprio utile e tenga per vero solo ciò che precisamente
gli giova.
Ma, dato che sembra che a lui giovi il contrario di ciò che giova ai
suoi connazionali o a quelli di pari condizione, essi suppongono che i
suoi princìpi siano pericolosi per loro; essi dicono e sentono: non
può aver ragione perché per noi è nocivo.
228. Il carattere forte
e buono.
L’ esser vincolati dalle opinioni, divenute con l’ abitudine istinto,
conduce a ciò che si chiama la
forza di carattere. Quando qualcuno agisce in base a pochi motivi,
ma sempre in base agli stesi, le sue azioni acquistano una grande
energia; se queste azioni sono in armonia con i princìpi degli spiriti
vincolati, ottengono riconoscimento e generano fra l’ altro, in chi li
compie, il sentimento della buona coscienza.
Pochi motivi, energico agire e buona coscienza , costituiscono ciò che
si chiama forza di carattere.
A chi è forte di carattere manca la conoscenza delle molte possibilità e
direzioni dell’ agire;
il suo intelletto non è libero, è vincolato, perché in un dato caso egli
mostra forse solo due possibilità; fra queste due egli deve poi, secondo
tutta la sua natura, necessariamente scegliere, ed egli fa ciò con
facilità e rapidità, perché non deve scegliere fra cinquanta
possibilità.
L’ ambiente in cui si viene educati vuol rendere ogni uomo non libero,
ponendogli davanti agli occhi il minor numero di possibilità. L’
individuo viene trattato dai suoi educatori come se fosse , sì qualcosa
di nuovo, ma dovesse diventare una
ripetizione.
Se l’ uomo appare da principio come qualcosa di sconosciuto, ma mai
esistito, deve poi essere trasformato in qualcosa di conosciuto e di già
esistito.
Si dice buon carattere in un bambino il manifestarsi
del suo essere vincolato a ciò che è già esistito; mettendosi
dalla parte degli spiriti vincolati il bambino mostra per la prima volta
il senso comune che si sveglia in lui; sulla base di questo senso
comune, diventa più tardi utile al suo Stato e al suo ceto.
229. Misura delle cose
per gli spiriti vincolati.
Di quattro categorie di cose gli spiriti vincolati dicono che esse sono
giuste.
Primo: tutte le cose che hanno durata sono giuste.
Secondo: tutte le cose che non ci sono moleste sono giuste.
Terzo: tutte le cose che ci recano vantaggio sono giuste.
Quarto: tutte le cose che ci sono costate sacrifici sono giuste.
Quest’ ultima cosa spiega per esempio perché una guerra, che sia stata
iniziata contro la volontà del popolo, venga poi proseguita con
entusiasmo non appena abbia fatto delle vittime.
Gli spiriti liberi
che difendono la loro causa davanti al foro degli spiriti vincolati,
devono dimostrare che ci sono sempre stati spiriti liberi, cioè
che il libero pensiero ha durata; poi che essi non vogliono
essere molesti; e infine che essi recano in complesso
vantaggio agli spiriti vincolati; ma poiché di quest’ ultima cosa
non potranno convincere gli spiriti vincolati, non gli servirà a niente
neanche di aver dimostrato il primo e il secondo punto.
230. Esprit fort.
Paragonato a colui che ha la tradizione dalla sua parte e non ha bisogno
di ragioni per il suo agire, lo spirito libero è sempre debole,
specialmente nell’ agire; giacché egli conosce troppi motivi e
punti di vista, ed ha perciò una mano incerta, non esercitata.
Ma quali mezzi ci sono per renderlo
relativamente forte, sicché
si faccia almeno valere e non perisca senza lasciare traccia?
Come nasce lo spirito forte
(esprit fort)?
E’ questa, in un particolare caso, la questione circa il prodursi del
genio. Da dove viene l’ energia, la forza inflessibile, la
perseveranza con cui il singolo, contro la tradizione, procura di
acquistare una conoscenza affatto individuale del mondo?
231. La nascita del
genio.
La fantasia con la quale il prigioniero cerca mezzi per liberarsi, il
suo sangue freddo e la sua tenacia nell’ utilizzare ogni minimo
vantaggio, possono insegnare a quali mezzi ricorra a volte la natura
per produrre il genio (una parola che prego di intendere
senza nessun sapore mitologico o religioso); essa lo rinchiude in un
carcere ed eccita all’ estremo il suo desiderio di liberarsi.
O con un’ altra immagine:
qualcuno che, camminando per il bosco si sia completamente
smarrito, ma che con straordinaria energia tenda a uscire all’ aperto in
una qualunque direzione, scopre talvolta un nuovo sentiero, che
nessuno conosce: così nascono i geni, di cui si decanta l’
originalità.
E’ stato già detto che una mutilazione, una storpiatura, una grave
deficienza di un organo, fanno spesso sì che un altro organo si sviluppi
straordinariamente bene, dovendo adempiere la sua funzione, e ancora un’
altra. Con ciò si può spiegare l’ origine di parecchi splendidi ingegni.
Si applichino questi accenni generali sulla nascita del genio al caso
specifico della nascita del perfetto spirito libero.
232. Supposizione sull’
origine del libero pensiero.
Come i ghiacciai ingrossano quando nelle zone equatoriali il sole
dardeggia sui mari con più ardore di prima, così può ben darsi che anche
un assai forte e dilagante libero pensiero sia testimonianza del fatto
che in qualche punto l’ ardore del sentimento sia straordinariamente
cresciuto.
233. La voce della
storia.
In generale sembra che la storia dia, nel prodursi del genio, il
seguente insegnamento: “ Maltrattate e tormentate gli uomini”
così essa grida alle passioni dell’ invidia, dell’ odio e dell’
emulazione “spingeteli all’ estremo, l’ uno contro l’ altro, popolo
contro popolo, e ciò per secoli; allora fiammeggerà forse d’
un tratto, per così dire da una scintilla sprizzata via dalla terribile
energia in tal modo incendiata, la luce del genio; la volontà
resa selvaggia come un cavallo dallo sprone del cavaliere; eromperà e
salterà allora in un altro campo”.
Chi giungesse a comprendere come si produce il genio e volesse anche
mettere in pratica metodi che la natura di solito applica, dovrebbe
essere esattamente così cattivo e brutale come la natura.
Ma forse abbiamo udito male.
234. Valore del mezzo
del cammino.
La produzione del genio è forse riservata soltanto a un limitato periodo
dell’ umanità. Infatti, dal futuro dell’ umanità non ci si può
aspettare ancora tutto ciò che solo ben determinate condizioni di un
qualche passato poterono produrre; non per esempio i sorprendenti
effetti del sentimento religioso.
Persino quest’ ultimo ha fatto il suo tempo e molte cose assai buone non
potranno mai prodursi, perché poterono prodursi solo grazie a esso. Così
non ci sarà mai più un orizzonte della vita e della cultura circoscritto
dalla religione.
Forse lo stesso tipo del santo è possibile solo con una stessa
soggezione dell’ intelletto, che, a quanto pare, è finita per sempre.
E così il vertice dell’ intelligenza è stato forse riserbato solo a una
certa epoca dell’ umanità: esso si manifestò
- e si manifesta, giacché viviamo ancora in quest’ epoca – quando
una straordinaria energia della volontà, dopo essersi a lungo
accumulata, si riversò eccezionalmente, attraverso l’ ereditarietà, in
canali intellettuali.
Quel vertice sarà abbandonato , se questa furiosa energia non sarà più
coltivata.
Forse nel mezzo del cammino , nel tempo mediano della propria esistenza,
più che non al termine di essa, l’ umanità si avvicina alla sua vera
meta.
Forze da cui per esempio l’ arte è condizionata, potrebbero addirittura
spegnersi; il gusto
della menzogna, dell’ imprecisione, del simbolismo, dell’ ebbrezza e
dell’ estasi, potrebbe cadere in discredito. Anzi, non
appena la vita sarà ordinata nello Stato perfetto, non ci sarà più da
trarre dal presente alcun motivo di poesia; in questo caso sarebbero
solo gli individui arretrati a bramare poetiche irrealtà.
Questi allora guarderebbero certamente con nostalgia all’ indietro,
verso i tempi dello Stato imperfetto e della società semibarbara,
verso i nostri tempi.
235. La contraddizione
del genio e lo Stato ideale.
I socialisti desiderano produrre il benessere per il maggior numero
possibile. Se la patria durevole di questo benessere, lo Stato
perfetto, fosse veramente raggiunta, da questo benessere sarebbe
distrutto il terreno dal quale nasce il grande intelletto e in genere il
potente individuo: voglio dire la grande energia.
L’ umanità sarebbe divenuta troppo fiacca, se questo Stato fosse
realizzato, per potere ancora produrre il genio. Non si dovrebbe
pertanto desiderare che la vita conservi il suo carattere violento, e
che forze ed energie selvagge continuino ad essere suscitate?
Ora il cuore caldo e compassionevole vuole proprio la
eliminazione di quel
carattere violento e selvaggio, e il cuore più caldo che si possa
immaginare desidererebbe
nel modo più appassionato appunto ciò: mentre, tuttavia, proprio da quel
selvaggio e violento carattere della vita la sua passione ha preso il
suo fuoco, il suo calore e la sua stessa esistenza; il cuore più caldo
vuole cioè la eliminazione del suo fondamento, l’ annientamento di sé
stesso, il che significa però che vuole qualcosa di illogico, che non è
intelligente.
L’ intelligenza più alta e il cuore più caldo non possono stare insieme
in una stessa persona,
e il saggio che pronuncia il giudizio della vita si pone al di sopra
della sua bontà, considerando la bontà semplicemente come una delle cose
di cui si deve tener conto nel calcolo complessivo della vita.
Il saggio
deve opporsi a quegli stravaganti desideri della bontà intelligente,
perché il suo compito è quello di conservare il proprio tipo e di
favorire il sorgere finale del sommo intelletto: per lo meno egli non
favorirà la fondazione dello “Stato perfetto”, in quanto in esso trovano
posto solo individui infiacchiti.
Per contro Cristo, che per una volta vogliamo raffigurarci come il cuore
più caldo, promosse l’ istupidimento degli uomini, si pose dalla
parte dei doveri di spirito e fermò la produzione del sommo intelletto:
e ciò fu coerente.
Il suo opposto, il saggio perfetto – lo si può ben predire – sarà di
necessità un ostacolo altrettanto forte alla produzione di un Cristo.
Lo Stato è una saggia istituzione per la protezione degli individui gli
uni contro gli altri: se si esagera nel nobilitarlo, l’ individui
finisce con l’ esserne indebolito, anzi dissolto – l’ originario fine
dello Stato viene cioè vanificato nel modo più radicale.
236. Le zone della
cultura.
Si può dire a mo’ di paragone che le epoche della cultura
corrispondono alle diverse zone climatiche, solo che le prime
stanno l’ una dietro l’ altra, e non come le zone geografiche l’ una
accanto all’ altra.
In confronto con la zona temperata della cultura in cui è nostro compito
passare, quella trascorsa fa complessivamente l’ impressione di un clima
tropicale.
Violenti contrasti, brusco alternarsi di giorno e di notte, ardore e
sfolgorio di colori, la venerazione di tutto ciò che è improvviso,
misterioso, terribile, la rapidità degli irrompenti uragani, dappertutto
il prodigioso straripare delle cornucopie della natura; e per contro,
nella nostra cultura, un cielo chiaro e tuttavia non splendente, aria
pura, che rimane quasi uguale, asprezza, all’ occasione persino freddo:
così si diversificavano, l’ una rispetto all’ altra, tra le due zone .
Quando vediamo là come le più furiose passioni vagano con tremenda
forza, abbattute e spezzate da concezioni metafisiche, ci pare come se
davanti ai nostri occhi, nei tropici, selvagge tigri fossero stritolate
nelle spire di mostruosi serpenti; al nostro clima spirituale mancano
simili fatti, la nostra fantasia è moderata: neanche in sogno ci
sovviene ciò che i popoli precedenti vedevano nella veglia.
Ma non dovremmo poter essere felici di questo cambiamento, pur
ammettendo che gli artisti sono stati sostanzialmente danneggiati dallo
sparire della cultura tropicale, e che per loro noi non artisti siamo un
po’ troppo freddi?
In tal senso gli artisti hanno bene il diritto di negare il
progresso, poiché in realtà,
che gli ultimi tre anni mostrino uno svolgimento progressivo delle arti,
di ciò si può almeno dubitare; parimenti un filosofo metafisico come
Schopenhauer non avrà alcun motivo di riconoscere il progresso, se
considererà gli ultimi quattro millenni con riguardo alla filosofia
metafisica e alla religione. Ma per noi
l’ esistenza stessa della
zona temperata della cultura costituisce progresso.
237. Rinascimento e
Riforma.
Il Rinascimento italiano racchiuse in sé tutte le forze positive a cui
si deve la cultura moderna:
ossia liberazione del pensiero, disprezzo dell’ autorità, vittoria
dell’ istruzione contro l’ alterigia della schiatta, entusiasmo per
la scienza e per il passato scientifico degli uomini, affrancamento
dell’ individuo, amore ardente per la veracità e ostilità verso l’
apparenza e il mero effetto (un ardore che divampò in tutta una folla di
caratteri artistici, i quali nelle loro opere pretesero da sé, con somma
purezza morale, perfezione e null’ altro che perfezione); Sì, il
Rinascimento ebbe in sé quelle forze positive
che finora nella nostra cultura moderna non sono ancora
ridiventate così potenti.
Esso fu l’ età aurea di questo millennio, nonostante tutte le sue pecche
e i suoi vizi.
La Riforma tedesca appare invece come una energica protesta di spiriti
arretrati,
che non s’ erano ancora affatto saziati della visione medievale del
mondo, e che avvertirono i sintomi del suo dissolversi, la
straordinaria superficializzazione ed esteriorizzazione della vita
religiosa, con profondo abbattimento, invece che con giubilo, come
si sarebbe convenuto.
Con la loro nordica forza e caparbietà, essi respinsero gli
uomini indietro, provocarono la Controriforma, vale a dire un
Cristianesimo cattolico da legittima difesa, con le violenze di uno
stato d’ assedio, e ritardarono di due secoli il pieno risvegliarsi e
dominare delle scienze, così come resero forse impossibile per
sempre l’ armonioso concrescere a unità dello spirito antico e di quello
moderno.
Il grande compito del Rinascimento non poté essere portato a termine; lo
impedì la protesta della germanicità, rimasta frattanto indietro, che
nel Medioevo aveva almeno avuto il buon senso di attraversare ogni
momento le Alpi per la propria salute.
Dipese dal caso di una straordinaria costellazione della politica, che
allora Lutero si salvasse ed che quella protesta guadagnasse forza:
perché l’ imperatore lo protesse per servirsi della sua innovazione come
di uno strumento di pressione contro il papa; e del pari lo favorì in
segreto il papa, per servirsi dei principi protestanti come di un
contrappeso contro l’ imperatore.
Senza questa singolare coincidenza di intenzioni Lutero sarebbe stato
bruciato come Huss
– e l’ autorità dell’ illuminismo sarebbe forse sorta un po’ di tempo
prima e con una luce più bella di quel che oggi possiamo immaginarci.
238. Giustizia verso il
Dio che diviene.
Quando tutta la storia della cultura si apre davanti agli occhi come un
groviglio di idee cattive e nobili, vere e false, e alla vista di questi
flutti ondeggianti cui si sente quasi cogliere dal mal di mare, si
comprende quale consolazione risieda nell’ idea di un
Dio che diviene.
Egli si rivela sempre più nelle trasformazioni e nelle vicende dell’
umanità; così non è tutto cieco meccanismo, insensato e inutile urtarsi
di forze. La divinazione del divenire è una visione metafisica – come
da un faro sul mare della storia – in cui trovò consolazione una
generazione troppo storicizzata di dotti; di ciò non ci si deve
indignare, per quanto erronea quella idea possa essere.
Solo chi, come Shopenhauer, nega l’ evoluzione, non soffre neppure per
gli ondeggiamenti della storia e, nulla sapendo e nulla avvertendo di
quel Dio che diviene e nel bisogno di ammetterlo, può ragionevolmente
abbandonarsi alla irrisione.
239. I frutti secondo
stagione.
Ogni miglior futuro che si auguri all’ umanità è anche necessariamente,
per più rispetti, un futuro peggiore;
poiché è fanatismo credere che un superiore, nuovo grado di umanità,
riunirebbe in sé tutti i
pregi dei gradi precedenti, e dovrebbe anche, per esempio, produrre la
forma somma dell’ arte.
Piuttosto ogni stagione ha i suoi pregi e le sue attrattive, ed esclude
quelli delle altre.
Ciò che è cresciuto dalla religione e in sua vicinanza, non può più
crescere se quella è distrutta; tutt’ al più sperduti e tardivi virgulti
potranno indurre in inganno a tale riguardo, come appunto fa il ricordo
che temporaneamente prorompe dell’ arte antica: una condizione che
rivela sì il senso della perdita e della privazione, ma che non è una
prova della forza dalla quale potrebbe nascere una nuova arte.
240. Crescente severità
del mondo.
Quanto più in alto la cultura di un uomo sale, tanti più campi si
sottraggono allo scherzo e alla irrisione.
Voltaire era riconoscente di cuore al Cielo per la invenzione del
matrimonio e della Chiesa: che aveva in tal modo così ben provveduto al
nostro sollazzamento.
Ma egli e il suo tempo, e prima di lui il sedicesimo secolo, si sono
fatti di questi temi beffe a non finire; ogni scherzo che oggi ancora si
attenti in questo campo, giunge in ritardo ed è soprattutto troppo a
buon mercato per poter attirare i compratori.
Oggi si chiedono le ragioni;
questa è l’ epoca della serietà. In colui al quale importa ancora oggi
di vedere in luce scherzosa le differenze fra realtà e pretenziosa
apparenza, fra ciò che l’ uomo è e ciò che vuole rappresentare, il
senso di questi contrasti produce subito tutt’ altro effetto, quando si
ricerchino le ragioni.
Quanto più profondamente uno intende la vita, tanto meno irride; solo
che finisce magari per irridere ancora alla
profondità del suo intendere.
241. Genio della civiltà.
Se qualcuno volesse immaginare un genio della civiltà, come sarebbe
questo fatto?
Egli adopera sicuramente la menzogna, la violenza e il più brutale
egoismo come suoi strumenti, che solo il nome di maligno essere
demoniaco gli converrebbe. Ma i suoi fini, che qua e là tralucono,
sono grandi e buoni.
E’ un centauro, mezzo animale e mezzo umano, e in più ha ancora ali d’
angelo sul capo.
242. Educazione –
miracolo.
L’ interesse per l’ educazione acquisterà grande forza solo dal momento
in cui smetterà di credere in un Dio e nella sua provvidenza: così come
l’ arte medica poté fiorire solo quando cessò la fede in cure
miracolose.
Ma per ora tutto il mondo crede ancora nell’ educazione – miracolo: dal
più grande disordine, dalla confusione dei fini, dallo sfavore delle
circostanze si videro infatti sorgere gli uomini più fecondi, più
possenti: come poteva ciò accadere a cose normali? Oggi anche in
questi casi si comincerà ben presto a vedere chiaro e sottoporli a un
esame più accurato; ma miracoli non se ne scopriranno mai. In
uguali circostanze numerosi individui continueranno a perire; in
compenso il singolo individuo salvato è divenuto di solito più forte,
perché ha sopportato queste cattive circostanze di virtù di una
indistruttibile forza innata e ha ancora esercitato e accresciuto questa
forza: così si spiega il miracolo.
Una educazione che non creda più al miracolo dovrà badare a tre cose:
primo, quanta energia è stata ereditata?
Secondo, con che si può incendiare ancora nuova energia?
Terzo, come si può adattare l’ individuo a quelle esigenze così
straordinariamente molteplici della civiltà, senza che esse lo
inquietino e disgreghino la
sua singolarità – insomma, come si può inquadrare l’ individuo nel
contrappunto della vita pubblica e privata, come può esso in pari tempo
fare la melodia e, come melodia, accompagnare?
243. Il futuro del
medico.
Non esiste oggi una professione che sia suscettibile di un così altro
incremento come quella del medico; specialmente dacché i medici
spirituali, i cosiddetti curatori di anime, non possono più esercitare
con pubblico consenso le loro arti di esorcismo, e l’ uomo colto li
scansa.
Oggi la più alta formazione spirituale di un medico non è raggiunta
quando egli conosca i metodi migliori e più recenti, si sia in essi
esercitato e sia capace di trarre quelle rapide conclusioni dagli
effetti alle cause, per cui vanno famosi i diagnostici; egli deve
inoltre possedere una eloquenza che si adatti a ogni individuo e gli
strappi il cuore dal petto; una virilità la cui sola vista basti a
fugare la pusillanimità (il tarlo che rode tutti gli ammalati) ; una
versatilità da diplomatico nel destreggiarsi fra quelli che hanno
bisogno di gioia per la loro guarigione e quelli che devono (e sanno)
dispensare gioia per ragioni di salute; la sottigliezza di un poliziotto
e di un avvocato nell’ intendere i segreti di un’ anima senza tradirli –
insomma, un buon medico ha bisogno oggi degli artifici e delle
prerogative di mestiere di tutte le altre classi di professionisti: così
equipaggiato egli è ancora in grado di diventare un benefattore per
tutta la società, accrescendo le buone opere, la gioia e la produttività
intellettuale, prevenendo i cattivi pensieri e propositi e le
mascalzonate (di cui il basso ventre è così spesso la fonte ripugnante),
stabilendo un’ aristocrazia intellettuale – fisica (come fondatore e
combinatore di matrimoni), troncando tutte le cosiddette pene d’ anima e
rimorsi: solo così diventerà, da “stregone”, salvatore, senza peraltro
aver bisogno di fare miracoli, e senza aver neanche bisogno di farsi
crocifiggere.
244.
In vicinanza della follia.
La somma dei sentimenti, delle conoscenze. Delle esperienze, cioè il
peso totale della civiltà, è diventato così grande, che una
sollecitazione delle forze nervose e di pensiero è oggi il pericolo
generale; anzi, le classi colte del paesi europei sono diventate
completamente nevrotiche e quasi ciascuna delle loro famiglie più grandi
si è avvicinata, in qualche modo, alla pazzia.
Ora, è vero che oggi si cerca in ogni modo la salute; ma principalmente
rimane necessario diminuire la tensione del sentimento e il peso
schiacciante della civiltà;
anche se ciò dovesse costare gravi perdite, ci darebbe tuttavia modo di
sperare fortemente in un Nuovo
Rinascimento.
Al Cristianesimo, ai filosofi, ai poeti e ai musicisti si deve una
sovrabbondanza di sentimenti profondamente eccitati: perché questi non
ci soffochino, dobbiamo evocare lo spirito della scienza, che rende in
complesso alquanto più freddi e scettici, e in particolare raffredda
l’ ardente fiume delle fedi in verità ultime e definitive; esso è
diventato così impetuoso, principalmente a causa del Cristianesimo.
245. Fusione di campana
della civiltà.
La civiltà è nata come una campana, dentro una camicia di materiale più
grezzo e comune: falsità, violenza, illimitata estensione di tutti i
singoli io, di tutti i singoli popoli, furono questa camicia.
E’ ora tempo di estrarla?
Sì è il liquido solidificato, sono i buoni utili impulsi, le abitudini
del cuore nobile diventati così sicuri e generali, che non ci sia più
bisogno di appoggiarsi alla metafisica degli errori delle religioni, di
durezze e violenze, come dei mezzi più potenti onde unire gli individui
e i popoli tra loro?
Per rispondere a questa domanda non ci aiuta più il cenno di un Dio: qui
è il nostro giudizio che deve decidere. Il governo terreno dell’ uomo
nel suo complesso deve prendere in mano l’ uomo stesso, la sua
“onniscienza” deve vegliare con occhio attento sull’ ulteriore destino
della civiltà.
246. I ciclopi della
civiltà.
Chi guarda quelle conche frastagliate in cui si sono formati i
ghiacciai, ritiene appena possibile che sia per venire un giorno in cui,
nello stesso posto, si stenderà una valle di prati e dei boschi
attraversata da ruscelli.
Così è anche nella storia dell’ umanità; le forze più selvagge aprono la
strada, dapprima distruggendo; la loro attività è tuttavia necessaria,
perché più tardi dei costumi più miti stabiliscano qui la loro sede.
Le terribili energie – ciò che si dice
il male – sono i ciclopici
architetti e pionieri dell’ umanità.
247. Circolo dell’
umanità.
Forse tutta l’ umanità è soltanto una fase evolutiva di una determinata
specie animale
di durata limitata: sicché l’ uomo è divenuto dalla scimmia e in scimmia
ancora si trasformerà, mentre non c’è nessuno che prenda qualche
interesse a questo bizzarro scioglimento di commedia.
Come, con la decadenza della civiltà romana e con la sua principale
causa, la diffusione del Cristianesimo, si propagò all’ interno dell’
impero romano un generale imbruttimento dell’ uomo, così anche da una
eventuale decadenza della civiltà su tutta la terra potrebbe essere
prodotto un imbruttimento di gran lunga più forte e alla fine un
imbruttimento dell’ uomo, fino allo scimmiesco.
Proprio perché possiamo renderci conto di questa prospettiva, siamo
forse in grado di prevenire una tal fine dell’ avvenire.
248. Parole di conforto
di un progresso disperato.
Il nostro tempo fa l’ impressione di una situazione provvisoria; le
vecchie concezioni del mondo, le vecchie culture sono ancora in parte
esistenti, le nuove non ancora sicure e abituali, e quindi senza
compattezza e coerenza.
Sembra che tutto diventi caotico, che il vecchio vada perduto e che il
nuovo non abbia alcun valore e diventi sempre più debole. Ma così va al
soldato che impara a marciare: per un certo tempo egli è più incerto e
goffo che mai, perché i muscoli vengono mossi ora secondo il vecchio
sistema, ora secondo il nuovo, e ancora nessuno di essi ha decisamente
riportato vittoria.
Noi barcolliamo, ma è necessario non spaventarsene e non abbandonare
magari le nuove conquiste. Inoltre non possiamo più tornare al
vecchio, abbiamo bruciato le navi; non resta che essere valorosi,
quale che sia l’ esito. Solo,
moviamoci, solo, usciamo dall’ immobilità!
Forse un giorno il nostro comportamento apparirà come
progresso; altrimenti, sia
detta anche a nostra consolazione, la frase di Federico il Grande:
Ah, mon cher Sulzer, vous ne
connaisez pas cette race maudit à laquelle nous appartenons.
249. Soffrire del
passato della civiltà.
Chi si è chiarito il problema della civiltà, soffre poi di un sentimento
simile a quello di chi abbia ereditato una ricchezza acquisita con mezzi
illeciti, o del principe che governi grazie alla violenza dei suoi
predecessori.
Egli pensa con afflizione alla sua origine, e talora se ne vergogna,
talora se ne irrita. L’ intera somma di forza, vitalità e gioia che egli
devolve ai suoi averi, si bilancia spesso con una profonda stanchezza:
egli non sa dimenticare la propria origine. Guarda al futuro con
tristezza; i suoi discendenti, lo sa già, soffriranno come lui del
passato.
UNO SGUARDO ALLO STATO
da: Umano, Troppo Umano I.
vol. IV, 2 della collezione Adelphi
Traduzione di Sossio Giametta
Traduzione di Sossio Giametta
443. Speranza e
presunzione.
Il nostro ordinamento sociale andrà lentamente liquefacendosi,
come fecero tutti gli ordinamenti precedenti non appena i soli di nuove
opinioni splendettero sugli uomini con novello ardore.
Si può desiderare questa
dissoluzione solo in quanto si speri: e sperare si può ragionevolmente
solo quando in sé e nei propri simili si suppone più forza di mente e di
cuore che nei rappresentanti dell’ ordine vigente.
Di solito, cioè, questa speranza sarà una
presunzione, una
sopravvalutazione.
444. La guerra.
A sfavore della guerra si può dire: essa rende stupido il vincitore e
cattivo il vinto.
A favore della guerra:
essa imbarbarisce con entrambi i suddetti effetti, rendendoli così più
naturali; essa rappresenta per la civiltà il letargo o l’ inverno, l’
uomo ne nasce più forte, per il bene e per il male.
[Ma se il nuovo barbaro
(vincitore) diventerà stupido, combinerà più danno e non potrà favorire
l’ avanzamento della civiltà.
Converrà quindi perdere e diventare più cattivi, ovvero più forti, ma
per soltanto a fine di
male.
Assieme alla contraddizione del “genio”, ove Nietzsche spazia da Goethe
a Valentino Borgia, questa è la sua seconda contraddizione. Non ve ne
sono altre, importanti, a parte la contraddizione dell’ ateismo, intorno
alla quale ho scritto nel mio libretto “Friedrich Nietzsche,
contraddizioni e valori”.
Nietzsche cioè intende il mito della guerra come “purificazione”, valore
sostenuto da quasi tutti (liberali, comunisti, fascisti) nel trapasso
fra l’ ‘ Otto e il ‘ Novecento. Valore oggi scomparso, almeno fra
filosofi ed uomini di governo dotati di un minimo
saggezza.
Ma, si dirà, “la guerra contro i
talebani”?
I talebani intendono alla lettera i valori biblici del Pentateuco. Ad
esempio, i valori che giustificano la distruzione dei monumenti degli
idoli antichi. Valore che i
cristiani, verso la fine del quarto secolo dopo Cristo, hanno applicato,
anche con grande solerzia.
Quindi noi occidentali, noi cristiani, noi biblici, non siamo
incomunicabili ai talebani. Potremmo discutere e, col tempo, calmare le
acque e risolvere. Avremmo anche le persone giuste allo scopo. Non lo
facciamo per non mostrare d’ esser noi stessi ancora pregni di cultura
talebana.
Tolte le tre contraddizioni: sulla guerra, sul genio educatore e su Dio
(per quest’ ultima vedi il mio libro “Friedrich Nietzsche,
contraddizioni e valori, preambolo), al di là di questi temi Nietzsche
non si contraddirà mai: ad esempio sugli ebrei, sulla politica sociale
ed altro. Per cui tutta la sua produzione successiva diventerà
comprensibile].
445. Al servizio del
principe.
Un uomo di Stato farà meglio, per poter agire completamente libero da
ogni riguardo, ad attuare la propria opera, non per sé, bensì per un
principe.
L’ occhio dello spettatore rimane abbagliato dallo splendore di questo
continuo disinteresse, sicché non vede le perfidie e durezze che l’
opera dello statista comporta.
446. Una questione di
forza, non di diritto.
Per gli uomini che in ogni cosa tengono presente la superiore utilità,
non vi è nel socialismo, sempreché esso sia veramente
l’ insorgere di coloro che furono per millenni soggiogati e
oppressi contro i loro oppressori, un problema di diritto (con la
ridicola, molle domanda: “Fino a che punto si deve cedere alle sue
pretese?”), ma solo un problema di
potenza, cioè come per un
forza naturale, ad esempio il vapore che, o viene costretto dall’ uomo,
come dio delle macchine, a servirlo, oppure, se ci sono errori nella
macchina, cioè errori di calcolo umano nella costruzione della medesima,
frantuma insieme la macchina e l’ uomo.
Per risolvere questo problema di potenza, bisogna sapere che la forza
del socialismo abbia, in quale combinazione esso possa ancora essere
utilizzato come una potente leva nell’ attuale giuoco delle forze
politiche; in determinate circostanze bisognerebbe persino fare di tutto
per rafforzarlo.
Di fronte a ogni grande forza – e foss’ anche la più pericolosa – l’
umanità deve pensare a fare di essa uno strumento dei propri disegni. Un
diritto il socialismo lo acquisterà solo quando fra le due potenze, i
rappresentanti del vecchio e del nuovo, sembrerà che si sia giunti alla
guerra, e quando poi l’ intelligente calcolo della maggiore
conservazione e utilità possibile farà nascere da tutt’ e due le parti,
il desiderio di un contratto. Senza contratto nessun diritto.
Ma finora nel menzionato campo non esistono ne’ guerra ne’ contratto,
dunque neanche diritti, neanche un
dovere.
447. Utilizzazione della
disonestà minima.
Il potere della stampa consiste nel fatto che ogni individuo che la
serve si sente solo pochissimo obbligato e vincolato. Egli dice di
solito la sua opinione, ma per una volta anche non la dice, per giovare
al suo partito o alla politica del suo paese, o infine a sé stesso.
Tali piccoli delitti di disonestà, o forse solo di disonesto silenzio,
non sono difficili da sopportare per l’ individuo, tuttavia le
conseguenze sono straordinarie, perché questi piccoli delitti vengono
commessi da molti nello stesso tempo. Ognuno di costoro si dice: “Per
servigi così piccoli, vivo meglio, posso procurarmi di che vivere;
mancando di questi piccoli riguardi, mi rendo impossibile.
Siccome sembra quasi moralmente indifferente scrivere o non scrivere una
riga in più, fra l’ altro magari senza neanche la firma, uno che abbia
denaro e influenza può fare di ogni opinione l’ opinione pubblica.
Chi in questo campo sa che la maggior parte degli uomini sono deboli
nelle piccolezze e vuol raggiungere per mezzo loro i suoi fini, è sempre
un uomo pericoloso.
448. Tono troppo alto
nelle lamentele.
Per il fatto che una situazione di emergenza (per esempio le
manchevolezze di una amministrazione, la corruzione e il favoritismo in
corporazioni politiche e scientifiche) venga presentata in modo
fortemente esagerato, la presentazione perde sì il suo effetto fra gli
intelligenti, ma agisce tanto più fortemente sui non intelligenti (che a
una esposizione accurata e moderata sarebbero rimasti indifferenti).
Ma dato che questi ultimi, in grande maggioranza
albergano in sé più potenti
energie e volontà, e più impetuoso piacere di agire, quell’ esagerazione
diviene causa di inchieste, punizioni, promesse, riorganizzazioni. In
tal senso è utile presentare in modo esagerato situazioni di emergenza.
449. Quelli che in
apparenza fanno il tempo in politica.
Come il popolo, di fronte a chi s’ intende del tempo e lo predice con un
giorno di anticipo, ammette tacitamente che egli faccia il tempo, così
anche persone colte e dotte, con uno sperpero di fede superstiziosa,
attribuiscono ai grandi statisti, come opera loro, tutti gli altri
importanti mutamenti e congiunture che si produssero durante il loro
governo, se appena appena è chiaro che essi ne seppero qualcosa prima
degli altri e in base a ciò
fecero i loro calcoli; anch’ essi cioè vengono presi per uomini che
fanno il tempo – e questa credenza non è il minore strumento della loro
potenza.
450. Nuovo e vecchio
concetto di governo.
Il distinguere fra governo e popolo,
come se qui si trattassero e si accordassero due separate sfere di
potenza, una più forte e alta con una più debole e bassa, è un
frammento di sentimento politico ereditato, che corrisponde ancora
oggi esattamente, nella maggior parte degli Stati, alla configurazione
storica dei rapporti di potenza.
Quando, per esempio, Bismarck definisce la forma costituzionale come un
compromesso fra governo e popolo, egli parla secondo un principio che
trova la sua ragione nella storia (benché in essa trovi anche il grano
di ragionevolezza, senza il quale niente di umano può esistere).
Invece bisogna oggi imparare – secondo un principio che è scaturito
dalla sola mente e che deve ancora
far storia – che il governo
non è altro che un organo del popolo, non il provvido e venerabile
“sopra” in rapporto a un “sotto” avvezzo alla modestia.
Prima di accogliere questa formulazione del concetto di governo, finora
antistorica e arbitraria, seppure più logica, se ne vogliano considerare
le conseguenze: perché il rapporto fra governo e popolo è il più forte
rapporto esemplare, in base al cui modello si foggiano involontariamente
i rapporti fra insegnante e allievo, padrone di casa e servitù, padre e
famiglia, condottiero e soldato, maestro e discepolo. Tutti questi
rapporti oggi, sotto l’ influsso della forma costituzionale di governo
dominante, si trasformano alquanto; essi divengono
compromessi.
Ma come dovranno rovesciarsi e spostarsi, cambiare nome e natura, quando
quel novissimo concetto si sarà dappertutto impadronito delle menti!
Per la qual cosa, comunque, potrebbe ben occorrere ancora un secolo.
A questo riguardo nulla di più augurabile che prudenza e lenta
evoluzione.
451. La giustizia come
richiamo di partito.
E’ certo possibile che nobili (benché non proprio molto avveduti)
rappresentanti della classe
dominante promettano a sé stessi: vogliano trattare gli uomini da
uguali, accordare loro pari diritti. In tal senso un modo di pensare
socialista che si fondi sulla
giustizia è possibile; ma come si è detto, solo entro la
classe dominante,
che esercita in questo caso la giustizia con sacrifici e rinunzie.
Per contro il chiedere parità
di diritti, come fanno i socialisti della casta assoggettata, non è mai
il prodotto della giustizia, bensì dell’ avidità.
Quando alla belva si mettono e poi si tolgono continuamente da sotto il
naso pezzi di carne sanguinolenta, finché da ultimo essa ruggisce:
credete voi che questo ruggito significhi giustizia?
452. Proprietà e
giustizia.
Quando i socialisti dimostrano che la ripartizione della proprietà nell’
umanità presente è la conseguenza di innumerevoli ingiustizie e violenze
e in summa negano l’
esistenza di doveri verso qualcosa di così ingiustamente fondato, essi
vedono solo alcunché di isolato.
Tutto il passato della vecchia civiltà è costruito sulla violenza, sulla
schiavitù, sull’ inganno e sull’ errore;
ma noi non possiamo abolire noi stessi, gli eredi di tutte queste
situazioni, anzi le concrescenze di tutto quel passato, e non dobbiamo
volerne isolare una parte singola.
I sentimenti ingiusti si annidano anche nelle anime dei
non possidenti,
i quali non sono migliori dei possidenti e non godono di alcuna
prerogativa morale, perché in una qualche epoca i loro antenati sono
stati possidenti.
Non nuove violenze e ripartizioni, bensì graduale trasformazione delle
idee occorrono; la giustizia deve diventare
in tutti più grande, l’ istinto
di violenza più debole.
453. Il timoniere delle
passioni.
L’ uomo di Stato produce passioni pubbliche per trarre profitto dalla
passione contraria in tal modo suscitata. Per fare un esempio: uno
statista sa bene che la Chiesa Cattolica non avrà mai piani in comune
con la Russia, che essa anzi preferirebbe di gran lunga allearsi coi
Turchi che con quella; egli sa del pari che la Germania avrebbe tutto da
temere da un’ alleanza con la Francia e con la Russia.
Se ora egli potrà giungere a fare della Francia l’ asilo e la rocca
della Chiesa Cattolica, avrà eliminato per lungo tempo quel pericolo.
Avrà quindi interesse a mostrare odio ai cattolici e a trasformare, con
ostilità di ogni sorta i sostenitori dell’ autorità papale in un’
appassionata forza politica, che sarà ostile alla politica tedesca e
dovrà naturalmente fondersi con la Francia come con l’ avversaria della
Germania: il suo fine sarà la cattolicizzazione della Francia, con la
stessa necessità con cui Mirabeau vedeva nella politicizzazione la
salvezza della sua patria.
Uno Stato vuole cioè l’ offuscamento di milioni di cervelli in un altro
Stato, per trarre da questo offuscamento il proprio vantaggio.
Sono questi gli stessi principii per i quali si favorisce la forma
repubblicana di governo nello Stato vicino,
le désordre organisé, come
dice Mérimé – per la sola
ragione che la si suppone
idonea a rendere il popolo più debole, diviso e inadatto alla guerra.
454. I pericolosi fra
gli spiriti sovversivi.
Si dividano coloro che si propongono un sovvertimento della società, in
quelli che vogliono raggiungere qualcosa per sé stessi, e in quelli che
vogliono raggiungere qualcosa per i loro figli e nipoti. Questi ultimi
sono i più pericolosi; giacché hanno la fede e la buona coscienza del
disinteresse.
Gli altri si possono tacitare con poco: la società dominante è sempre
ancora ricca e intelligente abbastanza per farlo.
Il pericolo comincia non appena gli scopo divengono impersonali; i
rivoluzionari mossi da interesse impersonale possono considerare tutti i
difensori dell’ ordine costituito come personalmente interessati a
sentirsi per ciò ad essi superiori.
455. Valore politico
della paternità.
Se l’ uomo non ha figli, non ha pieno diritto di interloquire sui
bisogni di un singolo Stato. Bisogna aver rischiato personalmente con
gli altri, nei figli, ciò che si ha di più caro: solo ciò lega
saldamente lo Stato; bisogna tener presente la felicità dei propri
discendenti, e quindi innanzitutto avere dei discendenti, per prendere
giusta, natural parte a tutte le istituzioni e alle loro trasformazioni.
Lo sviluppo di una moralità più alta dipende dal fatto che uno abbia
figli; ciò lo dispone altruisticamente, o più esattamente: allarga il
suo egoismo nel senso della durata e gli fa perseguire con serietà scopi
che vanno oltre la sua vita individuale.
456. Fierezza per gli
avi.
Si può essere fieri con ragione di una serie ininterrotta di antenati
buoni fino al padre – ma non
della serie; poiché questa l’ ha ognuno.
L’ origine da antenati buoni costituisce la vera nobiltà di nascita; una
unica interruzione di quella catena, cioè un antenato cattivo, sopprime
la nobiltà di nascita.
Bisogna chiedere a chiunque parli della propria nobiltà: non hai nessun
uomo violento, avaro, dissoluto, malvagio o crudele fra i tuoi antenati?
Se egli in buona scienza e coscienza può rispondere di no, se ne
ricerchi l ‘ amicizia.
457. Schiavi e operai.
Che noi riponiamo maggior valore nel soddisfacimento della vanità che in
ogni altro bene (sicurezza, sistemazione, piaceri di ogni specie), lo
rivela in un grado ridicolo il fatto che ognuno desidera (prescindendo
da ragioni politiche) l’ abolizione della schiavitù, e aborre nel modo
più assoluto dal ridurre gli uomini in questa condizione : mentre ognuno
deve dirsi che sotto tutti i rispetti gli schiavi vivono più sicuri e
felici del moderno operaio, e che il lavoro dello schiavo è molto poco
lavoro in confronto a quello del “lavoratore”.
Si protesta in nome della “dignità umana”; questa è però, detto più
schiettamente, quella cara vanità che sente il non essere parificati, l’
essere pubblicamente stimati inferiori, come la sorte più dura.
Il cinico la pensa in proposito diversamente, perché disprezza gli
onori: e così Diogene fu per un certo tempo schiavo e precettore.
458. Menti direttive e
loro strumenti.
Noi vediamo che i grandi statisti, e in genere tutti coloro che per l’
attuazione dei loro disegni devono servirsi di molti uomini, si
comportano ora in una maniera ora in un’ altra: essi, o scelgono molto
finemente e accuratamente gli uomini adatti ai loro progetti, e lasciano
poi loro una libertà relativamente grande, perché sanno che la natura di
quegli uomini scelti li conduce appunto dove essi stessi vogliono
averli; oppure scelgono male, anzi prendono ciò che vien loro sotto
mano, foggiano però da ogni argilla qualcosa di utile ai loro fini.
Quest’ ultima specie è la più violenta, essa desidera anche strumenti
più sottomessi; la sua conoscenza degli uomini è di solito molto minore,
il suo disprezzo degli uomini maggiore che negli spiriti prima
menzionati, ma la macchina che essi costruiscono lavora generalmente
meglio della macchina che vien fuori dall’ officina degli altri.
450. Necessario il
diritto arbitrario.
I giuristi disputano se in un popolo debba vincere il diritto più
completamente elaborato o quello più facile a capirsi.
Il primo, di cui il modello più alto è quello romano, appare al profano
incomprensibile, e perciò non come espressione del suo sentimento del
diritto.
I diritti nazionali, come ad esempio quelli germanici, erano rozzi,
superstiziosi, illogici, in parte sciocchi, ma corrispondevano a costumi
e sentimenti nazionali ereditari affatto determinati. Ma dove il diritto
non è più, come da noi, tradizione, esso può essere solo
imposto, solo costrizione;
noi tutti abbiamo più un senso tradizionale del diritto, perciò dobbiamo
accontentarci di diritti arbitrari, che sono espressione della necessità
che esista un diritto.
Ciò che è più logico, e comunque allora ciò che è più accettabile,
perché è ciò che è più
imparziale; anche concedendo che in ogni caso l’ unità di misura
minima nel rapporto fra reato e pena è fissata arbitrariamente.
460. Il grand’ uomo
della massa.
La ricetta per ciò che la massa chiama un grand’ uomo, è presto data.
In tutte le circostanze le si procuri qualcosa che le sia molto gradito,
o le si metta prima in testa che questo o quello le sarebbe molto
gradito, e poi glielo si dia.
Ma per nessuna ragione subito: lo si procuri invece con grande sforzo, o
si faccia mostra di procurarlo con sforzo. La massa deve avere l’
impressione che ci sia una forza di volontà possente, anzi invincibile,
per lo meno deve sembrare che ci sia.
Tutti ammiriamo la volontà forte, perché nessuno ce l’ ha e ognuno si
dice che, se ce l’ avesse, per lui e per il suo egoismo non ci sarebbe
più limite. Se poi vedono che una tale volontà forte attua qualcosa di
molto gradito alla massa, invece di ascoltare i desideri del proprio
egoismo, ammirano ancora una volta, e se ne ripromettono ogni bene. Nel
resto bisogna avere tutte le qualità della massa: quanto meno essa si
vergognerà di fronte a lui, tanto più il grand’ uomo sarà popolare.
Dunque: sia violento, invidioso, sfruttatore, intrigante, adulatore,
strisciante, tronfio e, a seconda dei casi, tutto.
461. Principe e Dio.
Per più versi gli uomini si comportano coi loro principi in maniera
simile a come si comportano col loro Dio, come appunto anche il principe
fu per più versi il rappresentante di Dio, o per lo meno il suo sommo
sacerdote.
Questa quasi sinistra disposizione spirituale alla venerazione, alla
paura, alla soggezione è divenuta ed è molto più debole, ma talvolta
divampa e si attacca a persone potenti in genere.
Il culto del genio è un eco di questa venerazione dei principi – dèi.
Dovunque ci si sforzi di elevare singoli individui a una sfera
sovrumana, sorge anche la tendenza a raffigurarsi interi strati di
popolo più rozzi e bassi di quanto realmente non siano.
462. La mia utopia.
In un migliore ordinamento della società il lavoro e le necessità
pesanti della vita saranno affidati a chi ne soffre di meno, cioè al più
insensibile, e così gradualmente su su , fino a colui che è sensibile al
massimo alle specie più alte e sublimate di sofferenza, e che perciò
continua a soffrire anche quando la vita gli viene alleviata al massimo.
463. Una illusione nella
teoria della rivoluzione.
Ci sono esaltati politici e sociali che con fuoco ed eloquenza incitano
a un rovesciamento di tutte le istituzioni, nella fede che subito,
allora, sorgerebbe quasi
spontaneamente il più superbo esempio di bella umanità.
In questi pericolosi sogni echeggia ancora la superstizione di Rousseau,
che credeva in una miracolosa bontà originaria per così dire
seppellita dalla natura
umana, e attribuiva la colpa di quel seppellimento alle istituzioni
della civiltà, nella società, nello Stato e nella educazione.
Purtroppo si sa, da esperienze storiche, che ogni rivolgimento del
genere fa risorgere le energie più selvagge, gli orrori e gli eccessi
delle più lontane età da lungo sepolti: che cioè un rivolgimento può ben
essere una fonte di forza in una umanità diventata fiacca, ma non mai un
ordinatore, un architetto, un artista, un perfezionatore della natura
umana.
Non la natura moderata di Voltaire, con la sua tendenza a ordinare,
purificare e ricostruire, bensì le appassionate follie e le mezze verità
di Rousseau hanno evocato lo spirito ottimistico della rivoluzione,
contro il quale il grido: “Ecrasez
l’ infàme!”.
Da esso è stato per gran tempo discacciato
lo spirito dell’ illuminismo e
dello sviluppo progressivo: vediamo – ognuno per conto proprio – se
è possibile richiamarlo in vita.
AURORA
Da: Pensieri sui pregiudizi morali
Vol. V, 1 della collezione Adelphi.
Versione di Ferruccio Masini.
LIBRO PRIMO.
62. Dell’ origine delle
religioni.
Come può essere sentita, quale
rivelazione, la propria opinione sulle cose? E’ questo il problema
dell’ origine delle religioni: c’è stato ogni volta un uomo in cui quel
processo fu possibile.
Il presupposto è che già precedentemente egli credesse alle
rivelazioni.
Ed ecco che un bel giorno, all’ improvviso, egli conquista il suo nuovo
pensiero, e quel che v’ è di beatificante in una grande ipotesi
personale, comprensiva del mondo e dell’ esistenza, entra così
violentemente nella sua coscienza, che egli non osa sentirsi creatore di
una tale beatitudine ed attribuisce al suo Dio la causa di questa, ed
ancora la causa della causa di quel nuovo pensiero, inteso come
rivelazione di Dio stesso.
Come potrebbe un uomo essere l’ autore di una così grande felicità? –
suona il suo pessimistico dubbio.
A realizzare tuto ciò agiscono occultamente altre leve: per esempio, si
rafforza innanzi a sé un’ opinione; sentendola come
rivelazione, se ne cancella
il carattere ipotetico, la si sottrae alla critica, anzi al dubbio, la
si consacra.
In tal modo, in realtà, si degrada sé stessi, ma è pur sempre il nostro
pensiero a vincere, in quanto pensiero di Dio; il senso di restare
pertanto noi i vincitori, alla fine prende il sopravvento su quell’
altro senso di umiliazione.
C’è anche un altro sentimento che giuoca sullo sfondo: se si innalza
sopra sé stessi la propria
creazione e apparentemente
si prescinde dal proprio valore, esiste pur sempre un’ esultanza di amor
paterno e fierezza paterna che compensa tutto e costituisce più di un
compenso.
63. Odio del prossimo.
Posto che noi sentiamo l’ altro così come egli sente sé stesso – cosa
questa che Schopenhauer chiama compassione, e che più giustamente si
dovrebbe chiamare uni passione,
dolore all’ unisono – noi dovremmo odiarlo se lui, come Pascal,
trova sé stesso odioso.
E fu ben questo, in complesso, il sentimento di Pascal verso gli uomini,
e similmente quello dell’ antico cristianesimo che, come riporta Tacito,
veniva “convinto” sotto Nerone, di
odium generis humani.
64. I disperanti.
Il cristianesimo ha l’ istinto del cacciatore verso tutti coloro che
possono essere in un modo o nell’ altro ridotti alla disperazione: solo
una parte eletta dell’ umanità ne è capace. Il cristianesimo se ne sta
sempre alle loro spalle, è sempre lì a spiarli.
Pascal fece il tentativo, se non fosse possibile ridurre ognuno alla
disperazione con l’ aiuto della conoscenza più tagliente: il tentativo
fallì, causando una seconda disperazione.
65. Brahmanesino e
Cristianesimo.
Esistono ricette in ordine al senso della potenza, in primo luogo per
quei tali che possono dominare sé stessi, e per cui già attraverso di
ciò il senso della potenza è divenuto cosa familiare; in secondo luogo
per quegli altri a cui è precisamente questo che manca.
Il brahmanesimo si è preso cura degli uomini della prima specie, il
cristianesimo degli uomini della seconda.
66. Facoltà di visione.
Per tutto il Medioevo la facoltà visionaria – cioé la capacità di subire
un profondo turbamento spirituale – fu considerata un segno
caratteristico e decisivo della più elevata umanità, e in fondo le
medievali prescrizioni di vita per le nature superiori (i religiosi)
miravano a rendere l’ uomo capace di visioni.
Non c’è da meravigliarsi se anche nel nostro tempo è straripata una
sopravvalutazione di persone semisconvolte, vaneggianti, fanatiche, le
cosiddette persone geniali: “esse
hanno veduto cose che gli altri non vedono” – sicuro, questo
dovrebbe renderci cauti verso di esse, e non già creduli.!
67. Prezzo dei credenti
Chi annette al fatto di essere creduto, una tale importanza da garantire
il Cielo a compenso di questa fede e da garantirlo a chiunque , fosse
pure un ladrone crocifisso – costui deve avere sofferto un dubbio
orrendo e avere conosciuto ogni specie di crocifissione: altrimenti non
comprerebbe a sì caro prezzo i suoi credenti.
68. Il primo cristiano.
Continuano sempre tutti a credere al mestiere di “scrittore dello
Spirito Santo”, oppure subiscono l’ influsso di questa credenza: se si
apre la Bibbia è per “edificarsi”, per trovare indicato un conforto
nella propria personale grande o piccola tribolazione, - insomma, è sé
stessi che si legge lì dentro, e tra le righe.
Che in essa sia descritta anche la storia di una delle anime più
ambiziose e più moleste e di un cervello tanto superstizioso quanto
accorto, la storia dell’ apostolo Paolo, - chi mai lo sa ad eccezione di
qualche dotto?
Tuttavia, senza questa storia singolare, senza i perturbamenti e le
burrasche di un tale cervello, di una tale anima, non esisterebbe una
cristianità;
avremmo avuto appena notizia di una piccola setta giudea, il maestro
della quale morì sulla croce.
Non c’è dubbio: se si avesse appunto compreso questa storia a tempo
giusto, se si avesse letto, letto
realmente - da mille e
cinquecento anni non vi fu un tale lettore
– gli scritti di Paolo, non come rivelazioni dello “Spirito Santo”,
bensì con rettitudine e libertà di spirito, e senza accompagnare la
lettura con il pensiero della nostra personale tribolazione, anche il
cristianesimo sarebbe passato da un pezzo: queste pagine del Pascal
giudeo rendono manifesta l’ origine del cristianesimo, nella stessa
misura in cui le pagine del Pascal francese mettono a nudo il suo
destino e ciò che lo farà perire.
Che la navicella del cristianesimo abbia gettato fuori bordo una buona
parte della zavorra giudaica, che sia andata fra i pagani, e abbia
voluto andarci, tutto ciò
dipende dalla storia di quest’ ultimo uomo, un uomo molto tormentato,
degno di molta commiserazione, molto importuno e importuno a sé
medesimo. Soffriva di una idea fissa, o per esprimerci più chiaramente,
di un problema fisso
costantemente presente, mai giunto a pacificarsi: come sta la questione
della legge giudaica? E per
l’ appunto quella dell’ adempimento di tale
legge?
Nella sua gioventù aveva voluto soddisfarla lui stesso, affamato di
questo segno distintivo, il più elevato che potessero concepire gli
Ebrei – questo popolo che ha spinto la fantasia della sublimità etica
più in alto di qualsiasi altro popolo e a cui soltanto è riuscita la
creazione di un Dio santo accanto al pensiero del peccato, inteso come
una mancanza verso questa santità.
Paolo era divenuto il fanatico difensore e l’ onorario custode di questo
Dio e della sua legge, e a un tempo era continuamente in lotta e in
agguato contro i trasgressori e i dubbiosi, duro e malvagio contro di
essi e incline al massimo della pena.
E fu allora che sperimentò in sé stesso di non poterla adempiere –
impetuoso, sensuale, malinconico, maligno nell’ odio com’ era – la legge
medesima, ed anzi, cosa questa che gli pareva assai strana, sentì che la
sua sfrenata avidità di dominio era continuamente stimolata e
trasgredita e che lui era
costretto ad assecondare questo pungolo.
E’ davvero la “concupiscenza” che fa di lui
sempre nuovamente un trasgressore ?
E dietro la concupiscenza
non è invece, come egli sospettò più tardi, la legge stessa, la legge
che deve continuamente
dimostrarsi inosservabile e allettare con irresistibile magia alla
trasgressione?
Ma allora questa via d’ uscita non esisteva ancora per lui. Ogni genere
di peccati gli pesavano sulla coscienza – egli accenna a inimicizia,
omicidio, stregoneria, idolatria, scostumatezza, ebrietà e il piacere di
sfrenate gozzoviglie – e per quanto cercasse di dare nuovo sfogo anche a
questa coscienza, e ancor più alla sua avidità di dominio, attraverso l’
estremo fanatismo della venerazione e della difesa della legge, venivano
sempre momenti in cui egli si diceva: “E’ tutto inutile!” Il martirio
dell’ inadempimento della legge non può essere superato”.
Allo stesso modo deve aver sentito Lutero, allorché voleva divenire, nel
suo convento, l’ uomo perfetto dell’ ideale sacerdotale: e come accadde
a Lutero, che un bel giorno cominciò a odiare d’ un vero odio mortale,
tanto maggiore quanto meno poteva confessarlo a sé stesso, l’ ideale
sacerdotale e il papa e i
santi e l’ intero clero – così fu per Paolo.
La legge era la croce
a cui di sentiva confitto: quanto la odiava! Quanto era il suo rancore
verso di essa! Come andava cercando in ogni luogo un mezzo per
annientarla – non più per adempierla nella sua persona!
E infine gli arrise il pensiero della salvezza insieme ad una
visione, come non poteva non succedere in questo epilettico; a lui,
il furibondo zelatore della legge, che di esse era enormemente stanco
dentro di sé, apparve su una strada solitaria quel Cristo nel cui
volto raggiava la luce di Dio, e Paolo udì queste parole: “Perché mi
perseguiti”?
Ma l’ essenziale di ciò che avvenne fu questo: in quell’ attimo il suo
spirito si fece chiaro; “è
irrazionale” si era detto, “perseguitare questo Cristo,
sì, è qui la via d’ uscita, sì, è qui la compiuta vendetta, sì è qui e
in nessun altro luogo che io ho e tengo il
distruttore della legge!”.
Colui che era malato della più tormentosa superbia si sentì nello stesso
istante ristabilito, la disperazione morale era come soffiata via,
poiché era la morale ad esser volata via, ad esser distrutta, - vale a
dire adempiuta là sulla croce!
Fino a quel momento quella morte ignominiosa era stata argomento
principale contro la messianità
di cui parlavano i seguaci della nuova dottrina: ma che dire,
invece, se essa fosse stata necessaria per sopprimere la legge?
Le enormi conseguenze di questa ispirazione, di questo scioglimento
dell’ enigma, turbinano davanti al suo sguardo, egli diventa d’ un
subito il più felice degli uomini, - il destino degli Ebrei, anzi di
tutti gli uomini, gli appare legato a questa ispirazione, a questo
attimo della sua improvvisa folgorazione; egli possiede il pensiero dei
pensieri, la chiave delle chiavi, la luce delle luci: in quel momento
è intorno a lui stesso che si svolge la storia.
Perché a partire da allora è lui il maestro della
distruzione della legge!
Morire al male – cioè morire anche alla legge; essere nella carne – cioè
essere anche nella legge; divenire una sola cosa con Cristo – cioè
essere divenuti, con lui, anche distruttori della legge; essere morti
con lui – cioè essere morti anche alla legge!
Anche se fosse ancora possibile peccare, non sarebbe più possibile
peccare contro la legge. “Io sono al di fuori di essa”.
“Se io ora volessi nuovamente accettare la legge e sottomettermi ad
essa, farei di Cristo il complice del peccato”;
la legge infatti c’ era perché si commettesse peccati, essa generava
sempre i peccati come umori acri generano la malattia; Dio non avrebbe
mai potuto decretare la morte di Cristo se senza questa morte fosse
stato in generale possibile
un adempimento della legge; ora non soltanto è tolta ogni colpa, bensì è
annientata la colpa stessa in sé; ora è morta la legge, ora è morta la
carnalità in cui la legge abita – o almeno sta continuamente morendo,
per così dire è in via di decomposizione.
Per breve tempo ancora in mezzo a questa decomposizione : è questa la
sorte del cristiano prima che egli, divenuto una cosa sola con Cristo,
risorga con Cristo, sia partecipe, con Cristo, della divina maestà e
diventi, come Cristo “figlio di Dio”.
Così l’ ebbrezza di Paolo è al suo culmine, come pure lo è l’
improntitudine della sua anima; con il pensiero dell’ unificarsi, essa
ha perduto ogni vergogna, ogni subordinazione, ogni limite, e l’
indomabile volontà della bramosia di dominio si manifesta come un
anticipato godimento delle divine
beatitudini.
E’ questo il primo cristiano,
l’ inventore della cristianità! Prima di lui non c’ erano che alcuni
ebrei settari!
69. Inevitabile.
Esiste tra invidia e amicizia, tra dispregio di sé e fierezza, una
tensione di enorme portata: nella prima viveva il greco, nella seconda
il cristiano.
70. A che cosa è utile
un intelletto grossolano.
La Chiesa cristiana è una enciclopedia di preistorici culti e intuizioni
dall’ origine più disparata, e perciò è così capace di diffusione
missionaria: essa giungeva un tempo, essa può giungere oggi ovunque
voglia, essa si trovava e si trova dinanzi a qualcosa di somigliante, al
quale può accordarsi e a cui può gradatamente sostituire il suo
significato.
Non l’ elemento cristiano che è in essa , bensì quello universale e
pagano delle sue consuetudini
è la base del diffondersi di questa religione mondiale;
le sue concezioni, che hanno radice in un terreno ebraico ed ellenico ad
un tempo, hanno saputo fin da principio elevarsi al di sopra delle
particolarità e delle sottili stonature nazionali e di razza, come pure
al di sopra dei pregiudizi.
Si ammiri pure questa forza
di far concrescere l’ una nell’ altra le realtà così diverse; ma non si
dimentichi peraltro la caratteristica spregevole di questa forza; la
sbalorditiva grossolanità e facilità d’ appagamento del suo intelletto,
all’ epoca della fondazione della Chiesa, che le permettono così di
accontentarsi di ogni cibo e
di digerire opposizioni come ciottoli.
71. La vendetta
cristiana su Roma.
Forse non c’ è nulla che stanchi tanto, quanto lo spettacolo di un
continuo vincitore, - per duecento anni si era visto Roma assoggettare a
sé un popolo dopo l’ altro, il circolo era compiuto, tutto l’ avvenire
sembrava alla fine, tutte le cose erano organizzate per una eterna
condizione.
Sì, se l’ impero edificava,
edificava con l’ intenzione dell’
aere perennius; e noi, noi che conosciamo soltanto la “malinconia
delle rovine” possiamo a stento comprendere quella
malinconia di tutt’ altra
specie, delle costruzioni eterne,
dalla quale bisognava cercare di salvarsi come si poteva: per
esempio, con la frivolezza di Orazio.
Altri cercavano differenti mezzi di conforto contro la stanchezza
confinante con la disperazione, contro la coscienza mortifera che ormai
tutti i movimenti del pensiero e del cuore fossero senza speranza, che
in ogni luogo si fosse piantato il grande ragno, che esso avesse
implacabilmente bevuto tutto il sangue, dovunque ancora scaturisse.
Questo odio vecchio di secoli, senza parole, nutrito dagli stanchi
spettatori verso Roma, almeno per tutto il tempo in cui durò il
suo dominio, si sgravò, alla fine, nel
cristianesimo,
coinvolgendo in un solo sentimento Roma, “il mondo” e il “peccato”;
ci si vendicò di Roma ritenendo prossima l’ improvvisa fine del mondo;
ci si vendicò di Roma ponendo di nuovo dinanzi a sé
un avvenire – Roma aveva saputo trasformare tutto nella sua
preistoria e nel suo presente – e un avvenire in confronto al quale Roma
non appariva più come il fatto più importante; ci si vendicava di
essa sognando il giudizio
ultimo – e l’ ebreo crocifisso, come simbolo di salvezza, costituiva
l’ estrema irrisione verso gli splendidi pretori della provincia;
infatti essi ora apparivano come i simboli della sventura e del “mondo”
maturo per la fine.
72. Il “dopo la morte”.
Il cristianesimo si ritrovò dinanzi alla rappresentazione di castighi
infernali in tutto l’ impero romano:
su di essa numerosi culti misterici hanno covato, con una compiacenza
tutta particolare, come sull’ uovo più fecondo della loro potenza.
Epicuro aveva creduto di non poter fare per i suoi simili niente di
più grande che strappare le radici di
questa credenza: il suo
trionfo, che ha una bellissima risonanza nella voce del più fosco –
eppur salito a chiarità – seguace della sua dottrina, il romano
Lucrezio, venne troppo presto; il cristianesimo prese sotto la
sua particolare protezione la credenza, già in via di sfiorire, nei
terrori dell’ oltretomba, e in questo agì saggiamente.
Come avrebbe potuto, senza questo ardito aggancio col pieno paganesimo,
riportar la vittoria sulla popolarità dei culti di Mitra e di Iside?
Così portò dalla sua parte i pavidi – i più forti proseliti di una nuova
fede!
Gli Ebrei, essendo un popolo che amava ed ama la vita, come i Greci e
più del Greci, avevano coltivato poco quelle concezioni: la morte
definitiva, come castigo del peccatore, e l’ impossibilità di una nuova
resurrezione come minaccia estrema, tutto questo esercitava una
efficacia sufficientemente forte su questi uomini singolari che non
volevano sbarazzarsi del loro corpo, ma speravano di salvarlo, nel loro
raffinato egizianismo, per
tutta l’ eternità (un martire ebreo, di cui si può leggere nel secondo
libro dei Maccabei, non pensa di rinunciare ai visceri che gli hanno
strappato: vuole averli quando risorgerà – tanto è questo un sentire
ebraico!).
I primi cristiani erano assai lontani dal pensiero dei tormenti eterni;
essi pensavano di essere liberati
dalla morte e si aspettavano di giorno in giorno una trasmutazione,
e non più una morte.
(Che curioso effetto deve avere avuto, tra questi uomini in attesa, il
primo caso di decesso! Come dovevano essere mescolati, a questo punto,
stupore, giubilo, dubbio, vergogna, acceso fervore – un vero soggetto
per grandi artisti!).
Del suo redentore, Paolo non seppe dire altro di meglio se non che egli
avrebbe aperto ad ognuno l’
accesso all’ immortalità; Paolo non crede ancora alla resurrezione dei
non redenti, bensì in seguito alla sua dottrina dell’ impossibile
adempimento della legge e della morte come corollario del peccato, ha il
sospetto che in fondo nessuno, fino a quel momento (o ben pochi, eppoi
per grazia e senza alcun merito) sia divenuto immortale; soltanto ora l’
immortalità convincerebbe a
dischiudere le sue porte, - ed infine anche per essa pochi sarebbero
eletti; come la superbia dell’ eletto non può fare a meno di aggiungere.
Altrove, dove l’ istinto della vita non era così grande come tra gli
ebrei e i cristiani ebrei, e la prospettive dell’ immortalità non
appariva senz’ altro più pregna di valore della prospettiva di una morte
definitiva, quella interpolazione pagana, ma neppure del tutto non
ebraica, riguardo all’ inferno, diveniva uno strumento propizio nelle
mani dei missionari: nacque la nuova dottrina che anche il peccatore e
il non redento sarebbero immortali, la dottrina del dannato in eterno,
ed essa fu più potente del pensiero, ormai del tutti illanguidito, della
morte definitiva.
Soltanto la scienza ha dovuto riconquistarselo ancora una volta, e
proprio respingendo nello stesso tempo ogni altra rappresentazione della
morte e ogni vita ultraterrena.
Di un solo interesse noi
siamo divenuti più poveri: il “dopo la morte”
non ci interessa più un bel niente! Un indicibile beneficio questo, che
è soltanto ancor troppo giovane per essere sentito in tutta la sua
estensione come tale. Ed ecco che di nuovo trionfa Epicuro!
73. Per la “verità”.
“Depone a favore della verità del cristianesimo la condotta virtuosa dei
cristiani, la loro fermezza nel dolore, la salda fede e soprattutto la
loro espansione e il loro sviluppo, nonostante tutte le afflizioni”;
così voi continuate a parlare ancor oggi.
E’ veramente pietoso! Sappiate dunque che tutto questo non depone ne’ a
favore, ne’ contro la verità, che la verità ha una dimostrazione diversa
da quella della veridicità, e che quest’ ultima non costituisce affatto
un argomento a sostegno della prima.
74. Riposta intenzione
dei cristiani.
Sarà forse stata questa la riposta intenzione più consueta dei
cristiani del primo secolo: “E’ meglio
persuadersi della propria
colpa che della propria innocenza, poiché non si conosce mai
abbastanza la intenzione di un giudice tanto
potente; eppur si deve temere
che egli non speri di trovar soltanto uomini coscienti della loro colpa.
Nella sua grande potenza farà più facilmente grazia ad un peccatore,
piuttosto che ammettere che qualcuno abbia ragione dinanzi a lui.
La povera gente della provincia sentiva allo stesso modo riguardo al
pretore romano: “Egli è troppo superbo, perché ci sia lecito essere
innocenti” – e come non dovrebbe essersi ripresentato questo modo di
sentire nella rappresentazione cristiana del giudice supremo?
75. Non europeo e non
nobile.
C’è nel cristianesimo qualcosa di orientale e qualcosa di femmineo; si
tradisce nel pensiero: “Dio
castiga chi gli è caro”; infatti in Oriente le donne considerano
castighi e rigorosa segregazione della loro persona dal mondo come segni
d’ amore del loro uomo, e si dolgono se questi segni vengono a mancare.
76. Pensare male
significa rendere malvagio.
Le passioni diventano malvagie e maligne se vengono riguardate in modo
malvagio e maligno.
Così il cristianesimo è riuscito a fare di Eros e Afrodite
- grandiose potenze ricche di forze ideali – coboldi
infernali e spiriti fraudolenti, grazie ai tormenti che esso ha
fatto nascere nella coscienza dei credenti ad ogni perturbamento
sessuale.
Non è orribile trasformare sensazioni necessarie e normali in una fonte
di intima miseria in ogni uomo?
Non ne resta che una miseria tenuta segreta e perciò stesso più profonda
nelle sue radici, poiché non tutti hanno il coraggio di Shakespeare di
confessare su questo punto il loro offuscamento cristiano, come ha fatto
lui nei suoi sonetti.
Dovrà sempre essere chiamato
malvagio ciò contro cui bisogna combattere, che occorre tenere nei
suoi limiti, o in certe circostanze togliersi completamente dalla mente?
Non è tipico di anime volgari pensare che un
nemico sia sempre
malvagio?
E’ in sé comune alle sensazioni sessuali, come pure a quelle della
compassione e dell’ adorazione, il fatto che un essere umano, attraverso
il proprio piacere, determini un bene in un altro essere, - non troppo
di frequente si incontrano in natura disposizioni benefiche di questa
specie! Ed è proprio una di esse che si denigra e si guasta mediante la
cattiva coscienza!
Stringere la procreazione degli uomini in fraterna unione con la cattiva
coscienza!
Infine, questa diabolizzazione di Eros ha avuto un epilogo da commedia:
il “diavolo” Eros è divenuto poco a poco più interessante per gli uomini
di tutti gli angeli e i Santi, grazie al sommesso parlottare e all’ aria
di mistero della Chiesa su tutti i fatti eroici; essa ha avuto come
risultato che, fin nel bel mezzo della nostra epoca, la
vicenda amorosa è divenuta l’
unico reale interesse comune a tutti gli ambienti, - in una esagerazione
inconcepibile all’ antichità, esagerazione cui seguirà più tardi, quando
che sia, anche con scoppio di ilarità.
Tutta la nostra opera di poesia e di pensiero, dalla più grande alla più
insignificante, è caratterizzata e più che caratterizzata dall’
eccessiva importanza con cui la vicenda amorosa assume in essa il posto
di vicenda principale: per questo il giudizio dei posteri troverà forse
nell’ intero retaggio della cultura cristiana qualcosa di meschino e di
scervellato.
77. Delle torture dell’
anima.
Per qualsiasi tortura che qualcuno infligga ad un corpo altrui, ognuno
oggi prorompe in alte grida: l’ indignazione contro chi è capace di ciò
si scatena subito; sì, noi tremiamo già all’ idea di una tortura che
possa essere inflitta a un uomo o a un animale, e soffriamo in un
modo del tutto intollerabile a sentir raccontare un fatto sicuramente
provato, di questo genere.
Ma si è ancora ben lontani dal sentire in maniera egualmente universale
e determinata, riguardo alle torture dell’ anima e all’ orrore della
loro effettuazione.
Il cristianesimo le ha portate ad applicazione in una misura inaudita e
predica ancora continuamente questo genere di tormento, anzi, con aria
del tutto innocente, lamenta decadenza e intiepidimento se si imbatte in
una condizione dove tali torture non esistono; tutto ciò ha come
risultato che l’ umanità si comporta ancor oggi verso il rogo mortale
dello spirito, verso le spirituali torture e strumenti di tortura, con
la stessa pazienza e risolutezza con cui si comportava una volta verso
la crudeltà usata sul corpo di uomini e di animali .
L’ inferno non è stato, in verità, una mera parola: e ai reali terrori
infernali nuovamente creati, si è fatto anche corrispondere un nuovo
genere di compassione, una orribile ed enormemente pesante
commiserazione, ignota alle epoche precedenti, verso “chi
è dannato irrevocabilmente all’ inferno”,
come lo dimostra, per esempio, il convitato di pietra nei riguardi
di Don Giovanni, quella commiserazione che nei secoli del cristianesimo
ha fatto gemere più di una volta persino le pietre.
Plutarco offre una immagine cupa della condizione di un miscredente all’
interno del paganesimo: questa immagine diventa innocua se la si mette a
raffronto con il cristiano del Medioevo, che
presume di non volere più
scampare allo “eterno tormento”.
Gli compaiono innanzi spaventosi messaggi: forse una cicogna che tiene
nel becco un serpente, e ancora indugia a ingoiarlo. Oppure la natura si
fa improvvisamente pallida, oppure trascorrono volando sul terreno
colori infuocati.
Oppure si approssimano le figure di parenti defunti, portando nei visi
le tracce di atroci sofferenze, o le oscure pareti della camera del
dormiente si rischiarano e compaiono su di esse, nella gialla caligine,
strumenti di tortura in uno sviluppo di serpi e di demoni.
Sì, quale luogo spaventevole ha saputo fare della terra il cristianesimo,
già per il solo fatto di aver collocato ovunque il crocefisso, e per
avere in tal modo designato la terra come il luogo in cui
“il giusto viene martirizzato
a morte” .
E quando la violenza dei grandi predicatori penitenziali costrinse il
segreto dolore dei singoli, il martirio delle “quattro pareti” a
manifestarsi pubblicamente, quando per esempio un Whitefield predicava
“come un agonizzante rivolto ad agonizzanti”, ora effondendosi in
lacrime, ora pestando i piedi forte e con veemenza, usando gli accenti
più incisivi e repentini, e senza peritarsi di concentrare tutta la
forza del suo attacco su una singola persona presente ed isolarla
orribilmente dalla comunità, ecco che la terra sembrava ogni volta
volersi realmente trasformare nel “prato della sventura”. Si videro
allora affluire masse intere di uomini, come in preda all’ eccesso di
una stessa follia; molti negli spasimi del terrore, altri giacevano in
deliquio, inerti; alcuni tremavano violentemente, oppure fendevano l’
aria con grida acute, che duravano ore intere.
Ovunque un respirare forte, come di gente che, semisoffocata, cerca
ansimando ossigeno. “E realmente, - dice un testimone oculare di una
simile predica – quasi tutte le grida che giungevano agli orecchi erano
quelle di uomini che muoiono in un acerbo tormento”.
Non dimentichiamo mai che fu soltanto il cristianesimo quello che ha
fatto del letto di morte un
letto di martirio,
e che le scene che viste d’ allora in poi svolgersi su di esso, con gli
spaventevoli accenti che qui per la prima volta apparvero possibili,
sono stati avvelenati i sensi e il sangue di innumerevoli testimoni, per
la vita loro e per quella dei loro discendenti! Si pensi ad un pacifico
uomo, che non può cancellare dalla mente il ricordo d’ aver udito una
volta queste parole: “O eterno! Oh se non avessi un’ anima! Oh se non
fossi mai nato! Io sono dannato, dannato, perduto per sempre. Sei giorni
fa avreste potuto aiutarmi. Ma è troppo tardi. Ora appartengo al
diavolo, voglio andare all’ inferno con lui. Infrangetevi, infrangevi
poveri cuori di pietra! Non volete infrangervi? Che cos’ altro di più
può accadere a cuori di pietra? Io sono dannato,affinché voi possiate
essere salvi! Eccolo! Sì, vieni! Diavolo! Diavolo buono! Vieni!”
78. La giustizia che
punisce.
Infelicità e colpa – queste due cose sono state messe dal
cristiano su una stessa bilancia: cosicché, se è grande l’ infelicità
che segue a una colpa, sempre la grandezza della colpa viene a sua volta
involontariamente commisurata a quella dell’ infelicità.
Ma questo non è qualcosa di
antico, e perciò la tragedia greca, in cui si fa questione così
largamente, e tuttavia in un senso diverso, d’ infelicità e di colpa,
appartiene alle grandi liberatrici dell’ anima, in una misura che
nemmeno gli antichi poterono avvertire. Essi erano rimasti così ingenui
da non stabilire una adeguata relazione tra colpa e infelicità.
La colpa dei loro eroi tragici è sì la piccola pietra sulla quale
inciampano e si rompono un braccio o perdono un occhio; al qual
proposito l’ antica sensibilità diceva: “Sì, egli avrebbe dovuto
percorrere la sua strada con maggiore circospezione e minor tracotanza”.
Ma soltanto al cristiano era riservato di dire: “Ecco una grave
disgrazia, e dietro di essa deve essere nascosta una grave
egualmente grave colpa,
sebbene non la vediamo chiaramente! Se tu sventurato non la senti, tu
sei indurito, dovrai passarne
ancora di peggio! “
Nell’ antichità, poi, esisteva realmente ancora infelicità; soltanto nel
cristianesimo tutto diventa punizione,
punizione ben meritata; esso fa ancor più soffrire l’ immaginazione del
sofferente, cosicché ad ogni dolorosa vicissitudine egli si sente
moralmente riprovevole e riprovato. Povera umanità!
I Greci hanno una loro parola per esprimere lo sdegno suscitato dall’
infelicità altrui: tra i popoli cristiani questo sentimento non ha
potuto aver luogo e si è poco sviluppato, e così manca loro anche il
nome di questo virile
fratello della compassione.
79. Una proposta.
Se il nostro io, secondo Pascal e il cristianesimo, è sempre
odioso, come potremmo anche
soltanto permettere e accettare che altri lo amino – siano essi Dio o
gli uomini? Sarebbe contrario a tutte le buone convenienze farsi amare e
sapere benissimo, al contempo, che si meriterebbe soltanto odio, per
tacere di altri sentimenti di repulsione.
“Ma questo è, per l’ appunto, in regno della grazia”.
Così per voi, il vostro amore del prossimo è una grazia? Una grazia di
vostra pietà? Ebbene, se questo vi riesce possibile, fate ancora un
passo avanti: amate voi stessi per grazia, - allora non avrete più
nessuna necessità del vostro Dio, e l’ intero dramma del peccato
originale e della redenzione si consumerà in voi stessi sino alla fine!
80. Il cristiano
compassionevole.
L’ altra faccia della pietà cristiana per i dolori del prossimo è il
profondo sospetto che ogni gioia del prossimo, per la sua gioia in tutto
ciò che vuole e può.
81. Umanità del santo.
Un santo era capitato in mezzo ai credenti, e non poteva più sopportare
il loro continuo odio per il peccato. Così alla fine disse: “Dio ha
creato tutte le cose, ad eccezione del peccato: c’è da stupirsi se non
ha dell’ affetto per esso? Ma l’ uomo invece ha creato il peccato – e
dovrebbe respingere questo suo unico figlio soltanto perché dispiace a
Dio, il nonno del peccato? E’ tutto questo umano?
A chi deve rendersi onore, onor si renda! Ma cuore e dovere dovrebbero
in primo luogo parlare a favore del figlio – e solo in un secondo tempo
in onore del nonno.
82. L’ aggressione
ecclesiastica.
“Devi giungere ad una decisione con te stesso, poiché ne va della tua
vita!”
Con questo appello ci balza addosso Lutero, e secondo lui ci si dovrebbe
sentire il coltello alla gola. Ma noi lo respingiamo con le parole di
qualcuno che sta più in alto ed è più accorto: “Noi siamo liberi di non
formarci alcuna opinione su una cosa o su un’ altra, e di risparmiare
così l’ inquietudine della nostra anima. Poiché le cose stesse,
secondo la loro natura, non possono
costringerci ad alcun
giudizio”.
83. Povera umanità!
Una goccia di sangue di troppo o di meno nel cervello può rendere la
nostra vita indicibilmente miserabile e dura, così come noi abbiamo a
soffrire di questa goccia più che Prometeo del suo avvoltoio.
Ma il peggio viene soltanto quando non si sa nemmeno che quella goccia è
la causa. Bensì “il diavolo”!
Oppure “il peccato”!
84. La filologia del
cristianesimo.
Quanto poco il cristianesimo educhi il senso dell’ onestà e della
giustizia, lo si può valutare abbastanza bene dal carattere degli
scritti dei suoi dotti: essi espongono con tale sicumera le loro
congetture, come fossero dogmi, e di rado si trovano in un onesto
imbarazzo riguardo alla interpretazione di un passo biblico.
Si torna sempre a dire: “io ho ragione, perché così sta scritto”. Ed
ecco che fa seguito una spudorata licenza di interpretazione, sicché un
filologo, a serntir ciò, si ferma a metà strada fra collera e riso, e si
domanda sempre di nuovo: “E possibile? E onesto tutto questo? E’ anche
perlomeno decoroso?”
Ciò che in questo senso si continua a perpetrare dall’ alto dei pulpiti
protestanti; la rozzezza con cui il predicatore profitta di non poter
essere interrotto; come la Bibbia venga là sopra tartassata e mal
ridotta e in ogni forma sia somministrata al popolo
l’ arte di leggere male:
tutto questo lo sottovaluta soltanto colui che non va mai in chiesa, o
ci va sempre. Ma in definitiva, che cosa ci si deve aspettare dai
postumi effetti di una religione che nei secoli della sua fondazione ha
rappresentato quella inaudita farsa filologica intorno al Vecchio
Testamento: voglio dire, il tentativo di svellere il Vecchio Testamento
dalle midolla degli ebrei, con l’ affermazione che esso non conterrebbe
nient’ altro che gli insegnamenti cristiani, e che
apparterrebbe ai cristiani
come al vero popolo d’
Israele, mentre gli ebrei lo avrebbero soltanto
arrogato a sé stessi.
E ci si lasciò prendere da allora dal furore dell’ interpretare
e dell’ interpolare, furore che non può essere connesso con la
buona coscienza; per quanto i dotti ebrei elevassero alte proteste,
ovunque, nel Vecchio Testamento, il discorso doveva vertere su Cristo e
soltanto su Cristo, ovunque, particolarmente
culla sua croce, e bastava che in qualche luogo si facesse
menzione di un legno, di una verga, di una scala, di un ramo, di un
albero, di un salice, di un bastone, perché quivi questo venisse a
significare una profezia del legno della croce; perfino il sollevarsi
dell’ Unicorno e del bronzeo serpente, perfino Mosé quando allarga le
braccia in preghiera, anzi perfino gli spiedi su cui è arrostito l’
agnello pasquale, tutte queste cose non sono che allusioni, e quasi
preludi della croce!
Ha mai qualcuno che abbia affermato questo, creduto in ciò?
Si consideri che la Chiesa non si peritò di arricchire il testo dei
Settanta (per esempio nel Salmo 96 vol. 10), Per utilizzare in seguito,
nel senso della profezia cristiana, il passo in tal modo contrabbandato.
Ma si era, appunto, in battaglia
e si pensava agli avversari, e non all’ onestà.
85. Sottigliezza nel
difetto.
Non burlatevi della mitologia dei Greci, specialmente perché così poco
assomiglia alla vostra profonda metafisica!
Dovreste ammirare un popolo che proprio qui ha imposto un freno al suo
acuto intendimento e per lungo tempo ha avuto abbastanza tatto da
evitare il pericolo della scolastica e della sofistica superstizione.
86. I cristiani
interpreti del corpo.
Qualunque cosa provenga dallo stomaco, dagli intestini, dal battito
cardiaco, dai nervi, dalla bile, dallo sperma – tutti quei disturbi,
quelle debilitazioni, quelle sovraeccitazioni, l’ intera casualità della
macchina a noi tanto ignota – tutto questo un cristiano come Pascal deve
prenderlo come un fenomeno morale – religioso, sollevando il problema se
qui dentro ci sia Dio o il diavolo, il bene o il male, la salvezza o la
dannazione.
Ahimé, sventurato interprete! Come deve torcere e torturare il suo
sistema! Come deve contorcersi e torturarsi per aver ragione!
87. Il miracolo etico.
Il cristianesimo, nell’ etica, conosce soltanto il miracolo:
la repentina trasmutazione di tutti i giudizi di valore, il repentino
abbandono di tutte le consuetudini, la repentina inarrestabile tendenza
verso nuovi oggetti e persone. Esso concepisce questo fenomeno come l’
influsso della divinità, e chiama questo l’ atto della nuova nascita,
conferisce ad esso un valore unico, incomparabile; tutto questo vuole
avere il nome di eticità, e
non ha alcuna connessione con quel miracolo; diventa pertanto
indifferente per il cristiano, anzi, forse in quanto senso di benessere,
sentimento d’ orgoglio, diventa persino un oggetto di timore.
Nel Nuovo Testamento è stabilito il canone della virtù, dell’
adempimento della legge, ma in guisa tale che esso è il canone della
virtù impossibile: gli uomini
che hanno ancora aspirazioni etiche devono imparare a sentirsi, al
cospetto di un tale canone, sempre
più lontani dalla loro meta,
devono disperare della virtù
ed infine gettarsi nel cuore
del Misericordioso – soltanto con questa conclusione il travaglio etico
in un cristiano poteva ancora essere considerato come avente un suo
valore, nel presupposto, dunque, che esso restasse sempre un
travaglio senza successo,
senza soddisfazione, malinconico; così poteva ancora servire a
determinare quell’ attimo estatico in cui l’ homo vive interiormente “l’
irruzione della Grazia” e il miracolo etico.
Ma necessaria questa lotta
per l’ eticità non lo è; quel miracolo, infatti, aggredisce non di rado
proprio il peccatore quand’ egli, per cos’ dire, fiorisce della lebbra
del peccato; anzi pare proprio che il salto dalla più profonda e
radicale peccaminosità sino al suo contrario sia qualcosa di assai
facile e, come palpabile
dimostrazione del miracolo, anche qualcosa di
più desiderabile.
Che cosa del resto debba fisiologicamente significare un tale improvviso
rovesciamento irrazionale e irresistibile, un tale avvicendarsi della
più profonda miseria e del più profondo benessere (forse una epilessia
mascherata?), sta agli psichiatri prenderlo in esame, essi che proprio
di tali “miracoli” (per esempio mania omicida, mania di suicidio) hanno
abbondante materia d’osservazione.
Il relativamente più gradevole
esito del caso del cristiano, non apporta alcuna differenza
essenziale.
88. Lutero, il grande
benefattore.
Quel che costituisce il più considerevole risultato dell’ azione di
Lutero sta nella diffidenza destata da lui nei riguardi dei santi e
dell’ intera vita contemplativa cristiana: soltanto da allora è divenuto
di nuovo sensibile in Europa il cammino verso una
vita contemplativa non
cristiana, ed è stata posta una meta al disprezzo dell’ attività mondana
e dei laici.
Lutero, che restava pur sempre il figlio gagliardo di un minatore,
allorché fu rinchiuso nel convento, e qui, in mancanza di altre
profondità e “cavità”, cominciò a salire dentro sé stesso e a trivellare
orribili ed oscuri cunicoli, finì per notare che una santa vita
contemplativa gli sarebbe stata impossibile, e che la sua innata
“attività” nell’ anima e nella carne lo avrebbe trascinato alla
perdizione. Troppo a lungo tentò di trovare, a furia di macerazione, la
via della santità, ma finalmente prese la sua decisione e si disse:
“Non esiste alcuna reale vita
contemplativa! Ci siamo fatti abbindolare! I santi non hanno avuto
più valore di noi tutti”.
Indubbiamente era questo un modo d’ aver ragione proprio da contadino –
ma per i tedeschi di quel tempo era l’ unico modo, e quello giusto; li
edificava assai leggere ora nel loro catechismo luterano: “Fuori dei
dieci comandamenti non c’ è opera
alcuna che potrebbe piacere a Dio – le
magnificate opere religiose
dei santi sono loro invenzione”.
89. Dubbio come peccato.
Il cristianesimo ha fatto di tutto per chiudere il circolo, e ha
dichiarato che già il dubbio è peccato. Si deve senza ragione,
attraverso un miracolo, essere gettati entro la fede e nuotare allora in
essa come nell’ elemento più chiaro e più inequivocabile: già guardare
verso una qualche terraferma, già il pensiero che non si esista soltanto
per nuotare, già il moto leggero della nostra natura anfibia – è
peccato!
Si noti però che in tal modo la motivazione della fede ed ogni
riflessione sopra la sua origine sono egualmente escluse già in quanto
peccaminose. Si vuole cecità e vertigine, nonché un eterno cantare sulle
onde in cui è annegata la ragione.
90. Egoismo contro
egoismo.
Quanti sono coloro che ancor sempre concludono: “La vita non sarebbe
sopportabile se non esistesse un Dio” (oppure, come si dice nei circoli
degli idealisti: “la vita non sarebbe sopportabile se mancasse la
significatività etica del suo fondamento”)!
Di conseguenza dovrebbe
esistere un Dio (oppure una significatività etica dell’ esistenza).
In verità c’ è solo il fatto che chi si è abituato a queste
rappresentazioni non desidera una vita priva di esse: e dunque è vero
che per lui e per la sua conservazione non
possono esserci rappresentazioni necessarie – ma quale arroganza
decretare che tutto quanto è necessario per la mia conservazione debba
anche esistere in realtà! Come se la mia conservazione fosse qualcosa di
necessario!
E che accadrebbe se altri sentissero in maniera opposta? Se proprio
sotto le condizioni di quei due articoli di fede non volessero vivere e
se in questo caso non trovassero la vita degna di esser vissuta?
Ed oggi le cose stanno così.
91. La rettitudine di
Dio.
Un Dio che è onnisciente e
onnipotente, e che non provvede neppure a che la sua intenzione venga
compresa dalle sue creature, dovrebbe essere un Dio di bontà? Un Dio che
lascia persistere innumerevoli dubbi e scrupoli per interi millenni,
come se essi non fossero pericolosi per la salvezza dell’ umanità, e che
tuttavia mette ancora in evidenza le spaventose conseguenze di non
cadere in errore riguardo alla verità? Non sarebbe un Dio crudele se
possedesse la verità e potesse osservare come l’ umanità si tormenta
disperatamente per essa?
Ma forse è pur sempre un Dio di bontà, - e tutto sta nel fatto che non
poteva esprimersi più
chiaramente! Gli mancava forse l’ intelligenza per questo? Oppure l’
eloquenza?
Tanto peggio! Se così fosse avrebbe errato forse anche in ciò che si
chiama la sua verità e non sarebbe lui stesso tanto lontano dal “povero
diavolo truffato”. Non dovrebbe allora sopportare quasi infernali
torture nel vedere che, per amore della conoscenza di lui, le sue
creature soffrono così, e continuano a soffrire ancora di più per tutta
l’ eternità, e del non poter dare un consiglio e un aiuto, se non come
un sordomuto che fa ogni sorta di segni ambigui quando alle spalle del
suo bambino o del suo cane sta il pericolo più terribile?
In verità sarebbe perdonabile, per un credente che giungesse a tali
conclusioni e ne fosse penosamente oppresso, se gli fosse più vicina la
pietà per il Dio sofferente che la pietà “per il prossimo”, perché non
esiste più il suo prossimo, quando c’ è colui che è più solitario, che
di tutti i più sofferenti è assolutamente primigenio, colui che più di
tutti ha bisogno di conforto. – Tutte le religioni traggono il loro
segno distintivo del fatto che debbono la loro originalità ad una
precoce, immatura intellettualità del genere umano, - con una
sorprendente leggerezza, essa
tutte si assumono l’ onere di dire la verità: non sanno ancora un bel
nulla riguardo a un dovere di
Dio di essere verace nei riguardi dell’ umanità, e chiaro nel comunicare
con essa.
Intorno al “nascosto Iddio” e alle ragioni di tenersi nascosto e di
rivelarsi sempre soltanto a metà con la parola, nessuno è stato più
eloquente di Pascal, segno questo che egli non se n’è mai potuto dar
pace: ma la sua voce risuona con tale sicurezza, come se si fosse messo
a sedere una volta dietro il sipario. Egli aveva subodorato una
immoralità nel “Deus absconditus”
e nutriva la più grande vergogna e timore di confessarlo: e così,
come uno che ha paura, parlava più forte che poteva.
92. A letto di morte del
cristianesimo.
Gli uomini realmente attivi oggi sono interiormente senza cristianesimo,
e gli uomini più moderati e ponderati del medio ceto intellettuale
possiedono ancora soltanto un cristianesimo raccomodato, vale a dire
prodigiosamente semplificato.
Un Dio che nel suo amore predispone tutto nel modo che sarà in
definitiva il migliore per noi, un Dio che ci dà e ci toglie tanto la
nostra virtù come la nostra felicità, di guisa che tutto in complesso va
nel migliore dei modi e non c’è più nessuna ragione di prendere la vita
in maniera difficile e addirittura di lamentarsi , insomma, la
rassegnazione e la modestia erette a divinità – questo è quanto di
meglio e di più vitale sia restato ancora nel cristianesimo.
Ma si dovrebbe altresì notare che con ciò il cristianesimo si è
convertito in un blando moralismo: non è tanto “Dio, libertà e
immoralità” quel che ci resta, quanta benevolenza e un decoroso sentire,
nonché la fede che anche
nell’ intera totalità domineranno benevolenza e decoroso sentire: è l’
eutanasia del cristianesimo.
93. Che cos’ è la
verità?
Chi vorrà ribellarsi alla deduzione cui amano giungere i credenti: “La
scienza non può essere vera perché nega Dio. Di conseguenza essa non
deriva da Dio; di conseguenza non è vera, poiché Dio è la verità”?
Non nell’ inferenza, bensì nel presupposto sta l’ errore: e se Dio
appunto non fosse la verità, e questo appunto fosse provato?
Se egli fosse la vanità, la bramosia del potere, l’ impazienza, il
terrore, l’ estasiato e inorridito delirio degli uomini?
94. Terapia degli
scontenti.
Già Paolo riteneva che fosse necessario un sacrificio perché venisse
tolto il profondo scontento di Dio riguardo al peccato, e da allora i
cristiani non hanno cessato di dar sfogo, su una vittima, al malumore
che provavano verso sé stessi – sia questa il “mondo”, o la “storia”, o
la “ragione”, o la gioia, oppure la pacifica quiete di altri esseri
umani. Una qualche cosa buona deve morire (anche se soltanto in effigie)
per il loro peccato!
95. La confutazione
storica come definitiva.
Un tempo si cercava di dimostrare che Dio non esiste – oggi si mostra
come ha potuto avere origine la fede nell’ esistenza di un Dio, e per
quale tramite questa fede ha avuto il suo peso e la sua importanza: in
tal modo una controdimostrazione della non esistenza di Dio diventa
superflua.
Quando una volta si erano confutate le prove addotte “per dimostrare l’
esistenza di Dio” restava sempre il dubbio che si potessero trovare
ancora prove migliori di quelle già confutate: a quel tempo gli atei non
erano capaci di far tavola rasa.
96.
In hoc signo vinces.
Per quanto possa essere progredita, l’ Europa non ha ancora raggiunto,
nelle questioni religiose, la liberale ingenuità degli antichi brahmani,
segno questo che in India, quattro millenni or sono, si pensava di più e
si soleva tramandare il piacere del pensiero più di quanto non accada
oggi in mezzo a noi.
Quei brahmani credevano infatti per prima cosa che i sacerdoti fossero
più potenti degli dèi e, secondariamente, che le consuetudini fossero
ciò in cui si sostanzia la potenza dei sacerdoti: per la qual cosa i
loro poeti non si stancavano di esaltare le consuetudini (preghiere,
cerimonie, sacrifici, canti, ritmi) come le vere elargitrici di ogni
bene.
Per quanto potessero ancor sempre infiltrarsi in tutto questo molte
finzioni poetiche e molta superstizione, i princìpi erano veri!
Un passo avanti: e gli dèi furono gettati da parte – e questo che
anche l’ Europa dovrà pur fare una buona volta! Un altro passo
avanti: e anche i preti e i mediatori non furono più necessari, e
comparve Buddha a insegnare la
religione dell’ autoredenzione – quanto è ancor lontana l’ Europa da
questo grado di civiltà!
Quando, infine, saranno annientate anche tutte le consuetudini e i
costumi sui quali si sostiene la potenza degli dèi, dei sacerdoti, dei
redentori, quando dunque sarà morta la morale nel suo più antico
significato, verrà allora … sì, che cosa verrà allora?
Non cerchiamo di indovinare, ma cerchiamo piuttosto, per prima cosa, di
fare in modo che l’ Europa ripeta ciò che in India, tra il popolo dei
pensatori, già alcuni millenni or sono fu realizzato come imperativo del
pensiero.
Ci sono forse oggi dai dieci a venti milioni di uomini, tra i diversi
popoli europei, che non “credono” più “in Dio” – è troppo esigere
che si facciano segno l’ un l’ altro?
Appena si riconosceranno tali, si faranno anche riconoscere, -
diventeranno subito una potenza in Europa e, fortunatamente, una potenza
fra i popoli! Tra le classi! Tra poveri e ricchi! Tra chi comanda e chi
soggiace! Tra gli uomini più inquieti e quelli più quieti, più
acquietanti!
FINE DELLE SINOSSI.
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