Sulla Compassione e lo Stato.

 

In questa serie di citazioni abbiamo cercato di esaminare quanto la filosofia di Nietzsche (pur nella sua non sistematicità) abbia potuto influire sulla morale del futuro Stato nazional socialista, venuto in auge, come ideologia politica, già a solo poco più di vent’ anni’ dalla sua prematura morte civile.

Qui Nietzsche è ancora catalogabile   nelle sue opere “giovanili” ed ha, il 17 maggio 1878, (data della pubblicazione del suo “Umano troppo umano 1, “Un libro per spiriti liberi”),  in questo momento, 34 anni e sta per lasciare la cattedra di insegnamento nell’ università di Basilea, esperienza che inciderà molto nella qualità della sua prossima vita e  che lo renderà, in conseguenza della sua rinuncia alla cittadinanza germanica,  “di fatto”, un apolide.

Nella prima breve citazione (“per la storia dei sentimenti morali” – aforismi 48, 49, 50) Nietzsche esamina un testo del La Rochefoucauld (“Réflexsions, sentences et maximes morales”),  l’ argomento del quale verte sul valore morale effettivo da attribuire ai termini: bontà, benevolenza e compassione.

Il testo esaminato appartiene al XVII secolo, e tratta, in apparenza, argomenti  banali; richiede pertanto un approfondimento personale  da parte di un qualsiasi lettore medio.

A parte bontà e benevolenza, che sono ritenuti valori positivi, la compassione dividerebbe l‘ umanità in due gruppi: coloro che giudicano secondo sentimento (i più, il popolo), coloro che giudicano secondo ragione (la classe superiore). Per “ragione” si intende soltanto la ragione politica.

 

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FEDERICO  NIETZSCHE

 

  Brani da: UMANO TROPPO UMANO I.

PER LA CRITICA DEI SENTIMENTI MORALI

Versione di Sossio  Giametta.

 

48.  Economia della bontà.

La bontà e l’ amore, come le erbe e le forze più salutari nel commercio degli uomini, sono tesori così preziosi, che si potrebbe ben desiderare si procedesse, nell’ impiego di questi mezzi balsamici, con la maggiore economia possibile: ciò è tuttavia impossibile. L’ economia della bontà è il sogno dei più temerari utopisti.

 

49.  Benevolenza.

Fra le cose piccole, ma infinitamente numerose e perciò molto efficaci, a cui la scienza deve badare più che alle cose grandi e rare, è da annoverare anche la benevolenza; voglio dire quelle espressioni di sentimenti gentili nei rapporti con gli altri, quel sorriso all’ occhio, quelle strette di mano, quella gradevolezza di cui quasi ogni umano fare è di solito rivestito.

Ogni insegnante, ogni funzionario aggiunge questo ingrediente a ciò che per lui è dovere; è una continua attivazione di umanità, sono per così dire le onde della sua luce, nelle quali tutto si sviluppa; specialmente nella cerchia più ristretta, in seno alla famiglia, la vita prospera e fiorisce solo in virtù di quella benevolenza.

La bonarietà, la cordialità, la cortesia del cuore sono correnti sgorganti in perpetuo dall’ istinto altruistico e hanno contribuito alla formazione della civiltà molto più potentemente di quelle molto più celebrate manifestazioni di esso che si chiamano compassione, misericordia e abnegazione. Ma si usa tenerle in poco conto, e in realtà in esse non c’è molto di altruistico.

La somma di queste piccole dosi è tuttavia imponente, la loro forza complessiva è una delle forze più grandi. Parimenti, nel mondo si trova più felicità che non ne vedano gli occhi intorbidati: se cioè si calcola bene e solo non si dimenticano tutti quei momenti piacevoli di cui ogni giorno è ricco, anche per la vita più tribolata.

 

50.  Voler suscitare compassione.

La Rochefoucauld colpisce certamente nel giusto quando, nel passo più notevole del suo autoritratto (stampato per la prima volta nel 1658) mette in guardia contro la compassione tutti coloro che dispongono di ragione, quando consiglia di lasciarla alle persone del popolo, le quali (poiché non sono determinate da ragione) hanno bisogno delle passioni per sentirsi spinte ad aiutare il sofferente e a intervenire attivamente in una sventura; mentre la compassione, a giudizio suo (e di Platone), debilita l’ anima.

Certo, egli dice, si deve attestare compassione, ma guardarsi dall’ averla poiché gli infelici sono così sciocchi, che l’ attestazione della compassione costituisce per loro il più gran bene del mondo.

Forse si può ammonire, contro questo aver compassione, ancor più fortemente se si concepisce quel bisogno degli infelici, non proprio come stupidità e carenza intellettuale, come una forma di turbamento intellettuale che l’ infelicità comporta (come in effetti sembra che La Rochefoucauld lo concepisca), ma lo si intende come qualcosa di totalmente diverso e più sospetto.

Si osservino piuttosto i bambini, che piangono e strillano allo scopo di essere compassionati, e che perciò aspettano il momento in cui il loro stato può essere notato; si viva a contatto con malati e persone spiritualmente oppresse – e ci si domandi se l’ eloquente lamentarsi e gemere, il mettere in mostra l’ infelicità non persegua in fondo lo scopo di far male ai presenti; la compassione che poi questi attestano, in tanto è una consolazione per i deboli e i sofferenti, in quanto questi riconoscono da essa di avere per lo meno ancora una forza, nonostante tutta la loro debolezza: la forza di far male.

L’ infelice ricava una specie di piacere da questo sentimento di superiorità che l’attestazione di compassione risveglia nella sua coscienza; la sua vanità si esalta, egli è ancora abbastanza importante per causare dolore al mondo. Pertanto la sete di compassione è una sete di godimento di sé, e, invero, a spese del prossimo; essa mostra l’ uomo in tutta la sua brutalità del suo caro sé stesso: ma non proprio nella sua “stupidità”, come ritiene La Rochefoucauld.

Nella conversazione in società i tre quarti delle domande vengono fatte, e i tre quarti delle risposte vengono date, per fare un pochino di male all’ interlocutore; perciò tanti uomini hanno così bisogno di società: essa dà loro il senso della propria forza.

In tali innumerevoli e piccolissime dosi, in cui la cattiveria si fa valere, essa è un potente stimolante di vita; esattamente come la benevolenza, diffusa in ugual forma in tutto il mondo umano, è il rimedio sempre pronto. Ma ci saranno molti onesti che ammetteranno che il far male fa piacere? Che non di rado ci si diverte – e ci si diverte bene – ad arrecare mortificazione, almeno nel pensiero, agli altri uomini e a sparar loro i pallini della piccola cattiveria?

I più sono troppo disonesti, e un paio di uomini sono troppo buoni per saper qualcosa di questo pudendum;  quindi costoro negheranno sempre che Prosper Mérimée abbia ragione quando dice: “Sachez aussi qu’il n’y a rien de plus commun que de faire le mal pour le plasir de le faire.

 

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A parte bontà e benevolenza, che sono ritenuti valori positivi, la compassione, come si è già scritto, dividerebbe l‘ umanità in due gruppi: coloro che giudicano secondo sentimento (i più, il popolo), coloro che giudicano secondo ragione (la classe superiore). Per “ragione” si intende soltanto la ragione politica, (o economica) anche intesa secondo canoni familiari (es: la ragione del padre della monaca di Monza).

Al tempo (e Nietzsche lo cita) molti dividevano la razza umana nelle due categorie descritte: una rappresentante la società civile, l’ altra lo Stato (o quella parte del popolo che si preoccupava di rappresentare lo Stato, dal Re al più umile fantaccino, o allo scriba). Per questi ultimi valeva la regola morale “al di là del bene e del male”, che li esortava alla benevolenza, ma che vietava loro la compassione. E ciò era accettato anche  dalle gerarchie religiose.

Dal punto di vista del più umile lettore, diciamo di me, inteso come persona malata, bisognevole di continua assistenza, potrei affermare che la generica benevolenza, anche attestata da sconosciuti, è la cosa dalla quale ho ricevuto sempre la maggiore consolazione.

Un certo grado di malattia però, può richiedere una presenza costante dell’ assistenza, e quindi un sacrificio esterno “compassionevole” che nel mondo d’ oggi è riservato al personale professionale (che deve essere remunerato), o garantito dall’ amore familiare, a volte, anche con sacrifici tremendi.

Non voglio ora soffermarmi sul “gusto” che un ammalato potrebbe provare a farsi assistere; si può, o meno, pretendere il sacrificio altrui (anche l’ auto sacrificio), ma ciò dipende dal carattere intimo delle persone.

Ma, consideriamo il sacrificio che un ammalato in coma irreversibile può ricevere, anche per vent’ anni, da un proprio parente caro. Si pone il dilemma dello “staccare la spina”.

Il valore cristiano della “abnegazione” si contraddice quando riguarda rappresentanti dello Stato, per i quali, e dai quali non può e non deve essere richiesta “compassione”. Un assalto alla baionetta, ad esempio.

In  tali casi la legge non dovrebbe aver diritto alcuno a formular regole, e soprattutto poi di spacciarle per “regole morali”.

Io personalmente – per me - sono per il distacco della spina, e così credo la pensino la maggior parte dei miei colleghi malati.

Molti familiari sostengono invece con sicurezza parere contrario, pensando però, e non so quanto sinceramente, soltanto a sé stessi.

Infine, se noi affermiamo di credere in Dio, perché temere la morte, la quale comunque partecipa della legge divina?

Se poi pensiamo alla compassione per i bambini malnati, non possiamo responsabilizzare Nietzsche con problemi di razza.

A parte la sua disapprovazione alla educazione spartana; possiamo ricordarci che anche i pitagorici (vedi in questa directory) sostenevano l’ attenzione alla qualità fisica della popolazione in genere, anche perché ciò costituiva allora la medicina del tempo.

Lo sterminio della razza ebraica non sarebbe stato certamente accettato da Nietzsche, e ciò si vedrà con certezza nella citazione del suo prossimo capitolo riguardante lo Stato; ciò senza contraddizioni postume.

Nietzsche qui non presenta uno Stato in particolare, ma la media dello Stato europeo del suo tempo. Illuminato, come nella Nuova Germania o nell’Austria; liberale repubblicano o monarchico, come in Francia, nel Regno Unito e in  Italia, ecc.  Tutti però con partiti politici attivi e grande libertà di informazione scientifica e giornalistica; giustizia formalmente indipendente e onorata; assenza di condanne per ragioni di pensiero,  tranne che nella Russia dello Czar; carcere comuque limitato a reati terroristici, o di sangue, effettivamente portati a termine.

Se mi si chiede a quale partito – di fatto  -  Nietsche appartenesse, io scriverei: allo Stato, con potere al 50%. 

Nell’ aforisma 473 Nietzsche immagina, con grande preveggenza, lo sviluppo di quello che poi diventerà lo  Stato socialista (lo Stato hegeliano antidemocratico, o pseudo democratico, sia nazi che comunista) con potere dello Stato al 100 %, e ne predice le conseguenze sulla libertà individuale dei cittadini, tema che, secondo me, lo accosterebbe a Stirner.

Da questo limite assoluto abbiamo tenuto fuori lo Stato fascista (escluso l’ intervallo dal 1938 al 1943) perché in esso il potere dello Stato non raggiunse mai il suo limite massimo, mitigato lo stesso dai poteri della monarchia e del clero cattolico.

Anche un valore inferiore al 50% sarebbe un valore cattivo: potrebbe voler dire che lo Stato è nelle mani di signorie private, politiche ed economiche. Sarebbe questo, forse il caso dell’ Italia, e in genere dell’ Europa dell’ oggi.

In breve, dalla citazione ora presentata, il lettore potrebbe farsi un’ idea sul valore  da attribuire alla storia del Ventesimo secolo, rapportata alle sue conseguenze sull’ oggi.

Ci si può chiedere: il mondo si è veramente evoluto dal XIX secolo, o nel XX ha attraversato una parentesi di regresso morale di cui ancora nel nostro tempo se ne risentono le conseguenze ?

Ma, rimettiamoci al testo di Nietzsche.    

 

 

 

FEDERICO  NIETZSCHE

 

  Brani da: UMANO TROPPO UMANO I.

UNO SGUARDO ALLO STATO

Capitolo completo.

Versione di Sossio  Giametta.

 

438.  Chiedere la parola.

Il carattere demagogico e l’ intenzione di influire sulle masse sono attualmente comuni a tutti i partiti politici: essi tutti sono costretti, per la detta intenzione, a trasformare in grandi stupidaggini  - affresco i loro princìpi e a dipingerli così sulla parete.

A questo non c’è rimedio, anzi è superfluo anche solo alzarvi un dito contro; giacché in questo campo vale ciò che dice Voltaire: quand la populace se méle de raisonner, tout est perdu.

Dal momento che ciò è accaduto, bisogna adattarsi alle nuove condizioni, come ci si adatta quando un terremoto ha sconvolto gli antichi confini e contorni della configurazione del suolo e ha cambiato il valore della proprietà. E inoltre: se ormai ogni politica ha per scopo di rendere la vita tollerabile al maggior numero di uomini possibile, bisogna lasciare che essi determinino anche che cosa intendano per vita tollerabile; e se si attribuiscono l’ intelligenza necessaria per trovare anche i mezzi adatti a questo scopo, a che gioverebbe dubitarne?

Essi vogliono una buona volta essere gli artefici della propria felicità e infelicità; e se questo sentimento dell’ autodeterminazione, l’ orgoglio per le cinque o sei idee che il loro cervello cova e porta alla luce, rende a essi effettivamente così piacevole la vita, da far loro sopportare di buon grado le fatali conseguenze della loro limitatezza: c’ è poco da obiettare, a patto che questa limitatezza non giunga fino a pretendere che tutto debba in questo senso trasformarsi in politica, che ognuno debba vivere e operare in base a tale criterio.

Innanzitutto, cioè, deve essere più che mai permesso ad alcuni di astenersi dalla politica e di farsi un po’ in disparte; a ciò anch’ essi sono spinti dal piacere dell’ autodeterminazione; e un po’ di orgoglio può anche andar congiunto al fatto di tacere, quando troppi, o in genere molti, parlano. Poi bisogna perdonare a questi pochi di non dare troppa importanza alla felicità dei molti, s’ intendano con ciò popoli o strati di popolazione, e di permettersi qua e là un’ espressione ironica; poiché la loro serietà risiede in altro, la loro felicità è un altro concetto, il loro fine non può essere abbracciato da ogni goffa mano che abbia appunto solo cinque dita. Verrà infine – cosa che certo loro sarà difficilissimamente concessa, ma che comunque dovrà essere concessa – di tempo in tempo un momento in cui essi usciranno dal loro taciturno isolamento e riproveranno la forza dei loro polmoni: allora si chiameranno l’ un l’ altro come degli sperduti in un bosco, per farsi conoscere e incoraggiarsi reciprocamente; nella quale occasione in verità si udranno molte cose che soneranno male alle orecchie a cui non sono destinate.

Ma subito dopo il bosco ridiventerà silenzioso, così silenzioso che si percepirà di nuovo distintamente il silenzio, il brusio e lo svolazzare degli innumerevoli insetti che vivono dentro, sopra e sotto di esso.

 

439.  Civiltà e casta.

Una civiltà superiore può sorgere solo là dove ci sono due distinte caste della società: quella di coloro che lavorano e quella di coloro che oziano, capaci del vero ozio; o con espressione più forte: la casta del lavoro forzato e la casta del lavoro libero.

Il punto di vista della ripartizione della felicità non è essenziale, quando si tratta di produrre una civiltà superiore; in ogni caso la casta degli oziosi è la più capace di soffrire, la più sofferente, il suo piacere di esistere è minore, il suo compito è il più grande.

Se poi avrà luogo uno scambio fra le due caste, in modo che le famiglie e gli individui più ottusi e meno intelligenti vengano abbassati dalla prima alla seconda casta, e d’ altra parte gli uomini più liberi di quest’ ultima ottengano accesso a quella superiore: allora si sarà raggiunto uno stato oltre il quale si vedrà ancora solo l’ aperto mare dei desideri indeterminati.

Così ci parla la voce morente dei tempi antichi; ma dove ci sono ancora orecchie per sentirla?

 

440.  Di sangue.

Ciò che gli uomini e donne di sangue hanno in più rispetto agli altri, e che conferisce loro indubitabile diritto a una valutazione superiore, sono due arti sempre più accresciute dall’ eredità: l’ arte di saper comandare e l’ arte della fiera obbedienza.

Ora, dappertutto, dove il comandare è cosa di ogni giorno (come nel gran mondo del commercio), si forma qualcosa di simile a quelle stirpi “di sangue”, ma a questi manca il nobile sostegno dell’ obbedienza, che in quelli è un retaggio di condizioni feudali e che nel clima della nostra civiltà non crescerà più.

 

441.  Subordinazione.

La subordinazione, che è tanto apprezzata dallo Stato militarista e burocratico, ci diverrà tosto così incredibile, come già lo è diventata la tattica compatta dei gesuiti; e quando questa subordinazione non sarà più possibile, una quantità dei più stupefacenti effetti non potrà più essere raggiunta, e il mondo sarà più povero.

Essa è destinata a sparire, perché sparisce il suo fondamento: la fede nell’ autorità assoluta e nella verità definitiva; persino negli Stati militaristi, non la costrizione fisica è sufficiente a produrla, bensì l’ ereditaria adorazione davanti a ciò che è sovrano, come davanti a qualcosa di sovrumano.

In condizioni più libere ci si subordinerà solo a condizione, in seguito a contratto reciproco, cioè con tutte le riserve del proprio interesse.

 

442.  Eserciti nazionali.

Il più grande svantaggio degli eserciti nazionali, oggi tanto esaltati, è costituito dallo sciupio di uomini della più alta civiltà. Essi esistono, in generale, solo col favore di tutte le circostanze -  con quanta parsimonia e scrupolosità se ne dovrebbe fare uso, dato che occorrono grandi spazi di tempo per creare le favorite condizioni favorevoli alla nascita di cervelli così delicatamente organizzati !

Ma come i Greci infierirono sul sangue greco, così oggi gli Europei infierirono sul sangue europeo, e invero vengono per lo più sacrificati sempre quelli che sono relativamente meglio formati, quelli che garantiscono una discendenza abbondante e buona: uomini siffatti nel combattimento stanno in prima fila, come comandanti, e si espongono inoltre, per la loro più alta ambizione, massimamente nei pericoli. Il rozzo patriottismo dei Romani è, oggi che si pongono compiti affatto diversi e superiori alla patria e all’ honor, o qualcosa di disonesto o un segno di arretratezza.

 

443.  Speranza e presunzione.

Il nostro ordinamento sociale andrà lentamente liquefacendosi , come fecero tutti gli ordinamenti precedenti non appena i soli di nuove opinioni splendettero sugli uomini di novello ardore.

Si può desiderare questa dissoluzione solo in quanto si speri: e sperare si può ragionevolmente solo quando in sé e nei propri simili si suppone più forza di mente e di cuore che nei rappresentanti dell’ ordine vigente.

Di solito, cioè, questa speranza sarà una presunzione, una sopravalutazione.

 

444.  La guerra.

A sfavore della guerra si può dire: essa rende stupido il vincitore e cattivo il vinto.

A favore del,la guerra: essa imbarbarisce con entrambi suddetti effetti, rendendo così più naturali; essa rappresenta per la civiltà il letargo o l’ inverno, l’ uomo ne esce più forte per il bene e per il male.

 

445.  Al servizio del principe.

Un uomo di Stato farà meglio, per poter agire completamente libero da ogni riguardo, ad attuare la propria opera, non per sé, bensì per un principe.

L’ occhio dello spettatore rimane abbagliato dallo splendore di questo continuo disinteresse, sicché non vede le perfidie e durezze che l’ opera dello statista comporta.

 

446.  Una questione di forza, non di diritto.

Per gli uomini che in ogni cosa tengono presente la superiore utilità,  non vi è nel socialismo, sempreché esso sia veramente l’ insorgere di coloro che furono per millenni soggiogati e oppressi contro i loro oppressori, un problema di diritto (con la ridicola, molle domanda: “Fino a che punto si deve credere alle sue pretese?”), ma solo un problema di potenza  (“fino a che punto si possono utilizzare le sue pretese?”); cioè come per una forza naturale, ad esempio il vapore, che o viene costretto dall’ uomo, come dio delle macchine, a servirlo, oppure, se ci sono errori nella macchina, cioè errori di calcolo umano nella costruzione della medesima, frantuma insieme la macchina e l’ uomo.

Per risolvere questo problema di potenza bisogna sapere che forza il socialismo abbia, in quale combinazione esso possa ancora essere utilizzato come una potente leva nell’è attuale giuoco delle forze politiche; in determinate circostanze bisognerebbe persino fare di tutto per rafforzarlo.

Di fronte a ogni grande forza – e fosse anche la più pericolosa – l’ umanità deve pensare a fare di essa uno strumento dei propri disegni.

Un diritto il socialismo lo acquisterà solo quando fra le due potenze, i rappresentanti del vecchio e del nuovo, sembrerà che si sia giunti alla guerra, e quando però poi l’ intelligente calcolo della maggiore conservazione e utilità possibile farà nascere da tutt’ e due le parti il desiderio di un contratto.

Senza contratto, nessun diritto.

Ma finora nel menzionato campo non esistono ne’ guerra ne’ contratto, dunque neanche diritti, neanche un “dovere”.

 

447.  Utilizzazione della disonestà minima.

Il potere della stampa consiste nel fatto che ogni individuo che la serve si sente solo pochissimo obbligato e vincolato. Egli dice di solito la sua opinione, ma per una volta anche non la dice, per giovare al suo partito, o alla politica del suo paese, o infine a sé stesso.

Tali piccoli delitti di disonestà, o forse solo di disonesto silenzio, non sono difficili da sopportare per l’ individuo, tuttavia le conseguenze sono straordinarie, perché questi piccoli delitti vengono commessi da molti nello stesso tempo.

Ognuno di costoro si dice: “Per servigi così piccoli, vivo meglio, posso procurarmi di che vivere; mancando di questi piccoli riguardi, mi rendo impossibile”.

Siccome sembra quasi moralmente indifferente scrivere o non scrivere una riga in più, fra l’ altro magari senza neanche la firma, uno che abbia denaro e influenza può fare di ogni opinione l’ opinione pubblica.

Chi in questo campo sa che la maggior parte degli uomini sono deboli nelle piccolezze e vuol raggiungere per mezzo loro i suoi fini, è sempre un uomo pericoloso.

 

448.  Tono troppo alto nelle lamentele.

Per il fatto che una situazione di emergenza (per esempio le manchevolezze di un’ amministrazione, la corruzione e il favoritismo in corporazioni politiche e scientifiche) venga presentata in modo fortemente esagerato, la presentazione perde sì il suo effetto fra gli intelligenti, ma agisce tanto più fortemente fra i non intelligenti (che a una esposizione accurata e moderata sarebbero rimasti indifferenti).

Ma dato che questi ultimi sono in grande maggioranza e albergano in sé più potenti energie di volontà e più impetuoso piacere di agire, quell’ esagerazione diviene causa di inchieste, punizioni, promesse, riorganizzazioni.

In tal senso è utile presentare in modo esagerato situazioni di emergenza.

 

449.  Quelli che in apparenza fanno il tempo in politica.

Come il popolo, di fronte a chi s’ intende di tempo e lo predice con un giorno di anticipo, ammette tacitamente che egli faccia il tempo, così anche persone colte e dotte, con ogni sperpero di fede superstiziosa, attribuiscono ai grandi statisti, come opera loro, tutti gli importanti mutamenti e congiunture che si produssero durante il loro governo, se appena appena è chiaro che essi ne seppero qualcosa prima degli altri e che in base a ciò fecero i loro calcoli: anch’ essi cioè vengono presi per uomini che fanno il tempo – e questa credenza non è il minore strumento della loro potenza.

 

450.  Nuovo e vecchio concetto di governo.

Il distinguere fra governo e popolo come se qui trattassero e si accordassero due separate sfere di potenza, una più forte e alta con una più debole e bassa, è un frammento di sentimento politico ereditato, che corrisponde ancora oggi esattamente nella maggior parte degli Stati alla configurazione storica dei rapporti di potenza.

Quando per esempio Bismarck definisce la forma costituzionale come un compromesso fra governo e popolo, egli parla secondo un principio che trova la sua ragione nella storia (benché in essa trovi anche il grano di irragionevolezza, senza il quale niente di umano può esistere).

Invece bisogna oggi imparare - secondo un principio che è scaturito dalla sola mente e che deve ancora fare storia -  che il governo non è altro che un organo del popolo, non il provvido e vulnerabile “sopra” in rapporto a un “sotto” avvezzo alla modestia.

Prima di accogliere questa formulazione del concetto di governo, finora antistorica e arbitraria, seppure più logica, se ne vogliano considerare le conseguenze: perché il rapporto fra governo e popolo è il più forte rapporto esemplare, in base al cui modello si foggiano involontariamente i rapporti fra insegnante e allievo, padrone di casa e servitù, padre e famiglia, condottiero e soldato, maestro e discepolo.

Tutti questi rapporti oggi, sotto l’ influsso della forma costituzionale di governo dominante, si trasformano alquanto: essi divengono compromessi. 

Ma come dovranno rovesciarsi e spostarsi, cambiare nome e natura, quando quel novissimo concetto si sarà dappertutto impadronito delle menti!

Per la qual cosa  comunque potrebbe ben occorrere anche un secolo. A questo riguardo nulla è più augurabile che prudenza e lenta evoluzione.

 

451.  La giustizia come richiamo di partito.

E’ certo possibile che nobili (benché non proprio molto avveduti) rappresentanti della classe dominante promettano a sé stessi: vogliamo trattare gli uomini da uguali, accordare loro pari diritti.

In tal senso un modo di pensare socialista che si fondi sulla giustizia è possibile; ma come si è detto, solo entro la classe dominante, che esercita in questo caso la giustizia con sacrifici e rinunce.

Per contro il chiedere parità di diritti, come fanno i socialisti della casta assoggettata, non è mai il prodotto della giustizia, bensì dell’ avidità. Quando alla belva si mettono e poi si tolgono continuamente da sotto il naso pezzi di carne sanguinolenta, finché da ultimo esse ruggisce; credete voi che questo ruggito significhi giustizia?

 

452.  Proprietà e giustizia.

Quando i socialisti dimostrano che la ripartizione della proprietà nell’ umanità presente è la conseguenza di innumerevoli ingiustizie e violenze, e in summa negano l’ esistenza di doveri verso qualcosa di così ingiustamente fondato, essi vedono solo alcunché di  isolato.

Tutto il passato della vecchia civiltà è costruito sulla violenza, sulla schiavitù, sull’ inganno e sull’ errore; ma noi non possiamo abolire noi stessi, gli eredi di tutte queste situazioni, anzi le concrescenze di tutto quel passato, e non dobbiamo volerne isolare una parte singola. I sentimenti ingiusti si annidano anche nelle anime dei non possidenti, i quali non sono migliori dei possidenti e non godono di alcuna prerogativa morale, perché in una qualche epoca i loro antenati sono stati possidenti.

Non nuove, violente ripartizioni, bensì graduale trasformazione delle idee, occorrono, la giustizia deve diventare in tutti più grande, l’ istinto di violenza più debole.

 

453.  Il timoniere delle passioni.

L’ uomo di Stato produce passioni pubbliche per trarre profitto dalla passione contraria in tal modo suscitata.

Per fare un esempio: uno statista sa bene che la Chiesa cattolica non avrà mai piani in comune con la Russia, che essa anzi preferirebbe di gran lunga allearsi coi Turchi che con quella; egli sa al pari che la Germania avrebbe tutto da temere da un’ alleanza della Francia con la Russia. Se ora egli potrà giungere a fare della Francia l’ asilo e la rocca della Chiesa cattolica, avrà eliminato per lungo tempo quel pericolo. Avrà quinti interesse a mostrare odio ai cattolici e a trasformare con ostilità di ogni sorta i sostenitori dell’ autorità papale in un’ appassionata forza politica che sarà ostile alla politica tedesca e dovrà naturalmente fondersi con la Francia come con l’ avversaria della Germania; il suo fine sarà la cattolicizzazione della Francia con la stessa necessità con cui Mirabeau vedeva nella cattolicizzazione la salvezza della sua patria.

Uno Stato vuole cioè l’ offuscamento di milioni di cervelli in un altro Stato, per trarre da questo offuscamento il proprio vantaggio.

Sono questi gli stessi princìpi per cui si favorisce la forza repubblicana al governo dello Stato vicino, le désordre organisé, come dice Mériméè – per la sola ragione che si suppone idonea a rendere il popolo più debole, diviso e inadatto alla guerra.

 

454.  I pericolosi fra gli spiriti sovversivi.

Si dividano coloro che si propongono un sovvertimento della società, in quelli che vogliono raggiungere qualcosa per sé stessi, e in quelli che vogliono raggiungere qualcosa per i loro figli e nipoti.

Questi ultimi sono i più pericolosi; giacché hanno la fede e la buona coscienza del disinteresse. Gli altri si possono tacitare con poco: la società dominante è sempre ancora ricca e intelligente abbastanza per farlo.

Il pericolo comincia non appena gli scopi divengono impersonali; i rivoluzionari mossi da un interesse impersonale possono considerare tutti i difensori dell’ ordine costituito come personalmente interessati a sentirsi perciò ad essi superiori.

 

455.  Valore politico della paternità.

Se l’ uomo non ha figli non ha pieno diritto di interloquire sui bisogni di un singolo Stato.

Bisogna aver rischiato personalmente con gli altri, nei figli, ciò che si ha di più caro: solo ciò lega saldamente allo Stato; bisogna tener presente la felicità dei propri discendenti, e quindi innanzitutto avere dei discendenti, per prendere giusta, natural parte a tutte le istituzioni e alle loro trasformazioni.

Lo sviluppo di una moralità più alta dipende dal fatto che uno abbia figli; ciò lo dispone altruisticamente, o più esattamente: allarga il suo egoismo nel senso della durata e gli fa perseguire con serietà scopi che vanno oltre la sua vita individuale.

 

456.  Fierezza per gli avi.

Si può essere fieri con ragione di una serie ininterrotta di antenati buoni fino al padre – ma non della serie; poiché questa l’ ha ognuno.

L’ origine da antenati buoni costituisce la vera nobiltà di nascita; un’ unica interruzione di quella catena, cioè un antenato cattivo, sopprime la nobiltà di nascita. Bisogna chiedere a chiunque parli della propria nobiltà: non hai nessun uomo violento, avaro, dissoluto, malvagio o crudele fra i tuoi antenati?

Se egli in buona scienza e coscienza può rispondere di no, se ne ricerchi l’ amicizia.

 

457.  Schiavi e operai.

Che noi riponiamo maggior valore nel soddisfacimento della vanità che in ogni altro bene (sicurezza, sistemazione, piaceri di ogni specie), lo rivela in un grado ridicolo il fatto che ognuno desidera (prescindendo da ragioni politiche) l’ abolizione della schiavitù, e aborre nel modo più assoluto dal ridurre gli uomini in questa condizione: mentre ognuno deve dirsi che sotto tutti i rispetti gli schiavi vivono più sicuri e felici del moderno operaio, e che il lavoro dello schiavo è molto poco lavoro in confronto a quello del “lavoratore”.

Si protesta in nome della “dignità umana”: questa è però, detto più schiettamente, quella poca vanità che sente il non essere parificati, l’ essere pubblicamente stimati inferiori, come la sorte più dura.

Il cinico la pensa in proposito diversamente, perché disprezza gli onori; e così  Diogene fu per un certo tempo schiavo e precettore.

 

458.  Menti direttive e loro strumenti.

Noi vediamo che i grandi statisti, e in genere tutti coloro che per l’ attuazione dei loro disegni devono servirsi di molti uomini, si comportano ora in una maniera, ora in un’ atra: essi o scelgono molto finemente e accuratamente gli uomini adatti ai loro progetti, e lasciano poi loro una libertà relativamente grande, perché sanno che la natura di quegli uomini scelti li conduce appunto là dove essi stessi vogliono averli; oppure scelgono male, anzi prendono ciò che vien loro sotto mano, foggiando però da ogni argilla qualcosa di utile ai loro fini.

Quest’ ultima specie è la più violenta, essa desidera anche strumenti più sottomessi; la sua conoscenza degli uomini è di solito molto minore, il suo disprezzo degli uomini maggiore che negli spiriti prima menzionati, ma la macchina che essi costruiscono lavora generalmente meglio della macchina che vien fuori dall’ officina degli altri.

 

459.  Necessario il diritto arbitrario.

I giuristi disputano se in un popolo debba vincere il diritto più completamente elaborato o quello più facile a capirsi.

Il primo, di cui il modello più alto è quello romano, appare al profano incomprensibile e perciò non come espressione del suo sentimento del diritto. I diritti nazionali, come ad esempio quelli germanici, erano rozzi, superstiziosi, illogici, in parte sciocchi, ma corrispondevano a costumi e sentimenti nazionali ereditari affatto determinati.

Ma dove il diritto non è più, come da noi, tradizione, esso può essere solo imposto, solo costrizione; noi tutti non abbiamo più un senso tradizionale del diritto, perciò dobbiamo accontentarci di diritti arbitrari, che sono espressione della necessità che esista un diritto.

Ciò che è più logico è, comunque allora, ciò che è più accettabile, perché è ciò che è più imparziale; anche concedendo che in ogni caso l’ unità di misura minima nel rapporto fra reato e pena è usata arbitrariamente.

 

460.  Il grand’ uomo della massa.

La ricetta per ciò che la massa chiama un grand’ uomo è presto data.

In tutte le circostanze le si procuri qualcosa che le sia molto gradito o le si metta prima in testa che questo o quello le sarebbe molto gradito, e poi glie lo si dia. Ma per nessuna ragione subito: lo si procuri invece con grande sforzo, o si faccia mostra di procurarlo con sforzo.

La massa deve avere l’ impressione che ci sia una forza di volontà possente, anzi invincibile, per lo meno deve sembrare che ci sia.

Tutti ammirano la volontà forte, perché nessuno ce l’ ha, e ognuno si dice che, se ce l’ avesse, per lui e per il suo egoismo non ci sarebbe più limite.

Se poi vedono che una tale volontà forte attua qualcosa di molto gradito alla massa, invece di ascoltare i desideri del proprio egoismo, ammirano ancora una volta e se ne ripromettono ogni bene.

Nel resto bisogna avere tutte le qualità della massa: quanto meno essa si vergognerà di fronte a lui, tanto più il grand’ uomo sarà popolare.

Dunque: sia violento, invidioso, sfruttatore, intrigante, adulatore, strisciante, tronfio e, a seconda dei casi, tutto.

 

461.  Principe e Dio.

Per più versi gli uomini si comportano coi loro prìncipi in maniera simile a come si comportano col loro Dio, come appunto anche il principe fu per più versi il rappresentante di Dio, o per lo meno il suo sommo sacerdote.

Questa quasi sinistra disposizione spirituale alla venerazione, alla paura, alla soggezione, è divenuta ed è molto più debole, ma talvolta divampa e si attacca a persone potenti in genere.

Il culto del genio è un’ eco di questa venerazione dei prìncipi – dèi.

Dovunque ci si sforzi di elevare singoli individui a una sfera sovrumana, sorge anche la tendenza a raffigurarsi interi strati di popolo più rozzi e bassi di quanto realmente essi siano.

 

462.  La mia utopia.

In un migliore ordinamento della società il lavoro e le necessità pesanti della vita saranno affidati a chi ne soffre di meno, cioè al più insensibile, e così gradualmente su su, fino a colui che è  sensibile al massimo alle specie più alte e sublimate di sofferenza, e che per ciò continua a soffrire anche quando la vita gli viene alleviata al massimo.

 

463.  Una illusione nella teoria della rivoluzione.

Ci sono esaltati politici e sociali che con fuoco ed eloquenza incitano a un rovesciamento di tutte le istituzioni, nella fede che subito, allora, sorgerebbe quasi spontaneamente il più superbo tempio di bella umanità.

In questi pericolosi sogni echeggia ancora la superstizione di Rousseau, che credeva a una miracolosa bontà originaria per così dire seppellita dalla natura umana, e attribuiva la colpa di quel seppellimento alle istituzioni della civiltà nella società, nello Stato e nell’ educazione..

Purtroppo si sa da esperienze storiche, che ogni rivolgimento del genere fa risorgere le energie più selvagge, gli orrori e gli eccessi delle più lontane età da lungo sepolti: che cioè un rivolgimento può ben essere una fonte di forza in una umanità diventata fiacca, ma non mai un ordinatore, un architetto, un artista, un perfezionatore della natura umana.

Non la natura moderata di Voltaire con la sua tendenza a ordinare, purificare e ricostruire, bensì la appassionate follie e le mezze verità di Rousseau hanno evocato lo spirito ottimistico della rivoluzione, contro il quale io grido: “Ėcrasez l’ infàme!”.

Da esso è stato per gran tempo discacciato lo spirito dell’ illuminismo e dello sviluppo progressivo: vediamo – ognuno per conto proprio – se è possibile richiamarlo in vita!

 

464.  Misura.

La piena risolutezza del pensare e del ricercare, ossia il libero pensiero divenuto proprietà del carattere, rende moderati nell’ agire: giacché indebolisce la cupidigia, trae a sé molta dell’ energia disponibile a vantaggio di scopi spirituali e mostra la quasi inutilità o l’ inutilità e pericolosità di tutti i mutamenti repentini.

 

465.  Risorgimento dello spirito.

Quando un popolo è politicamente malato, di solito ringiovanisce sé stesso e rinnova il suo spirito, che aveva a poco a poco perduto per cercare e conservare la potenza.

La civiltà deve le sue più alte acquisizioni alle epoche di debolezza politica.

 

466.  Opinioni nuove nella casa vecchia.

Alla caduta delle opinioni non tiene dietro immediatamente la caduta delle istituzioni, piuttosto le nuove opinioni abitano lungo tempo nella casa, divenuta deserta e inaccogliente, delle loro precorritrici e anche la conservano per scarsità di abitazioni.

 

467.  Pubblica istruzione.

Nei grandi Stati la pubblica istruzione sarà sempre tutt’ al più mediocre, per la stessa ragione per cui nelle cucine grandi si cucina nel miglior caso mediocremente.

 

468.  Corruzione incolpevole.

In tutti gli istituti in cui non soffia l’ aria pungente della pubblica critica, cresce come un fungo una corruzione incolpevole (per esempio nelle corporazioni e nei senati dei dotti).

 

469.  Dotti come politici.

Ai dotti che diventano politicanti viene di solito assegnato il comico ruolo di essere la buona coscienza di una politica.

 

470.  Il lupo nascosto dietro la pecora.

A quasi ogni politico capita talvolta, in certe circostanze, di avere così bisogno di un uomo onesto, da irrompere nell’ ovile simile a un lupo affamato: ma non per divorare poi il montone rubato, bensì per nascondersi dietro il suo dorso lanoso.

 

471.  I tempi della felicità.

Un’ età felice non è affatto possibile per la ragione che gli uomini vogliono sì desiderarla, ma non averla, e ogni individuo, quando gli giungono giorni buoni, impara addirittura a implorare affanno e miseria.

La sorte degli uomini è ordinata per momenti difficili – ogni vita ne ha – non per tempi felici.

E tuttavia questi ultimi continueranno ad esistere nella fantasia dell’ uomo come “l’ al di là dei monti” come una eredità dei tempi remoti; giacché l’ idea dell’ età felice la si è ben presa, da tempi antichissimi, da quello stato in cui l’ uomo, dopo le violente fatiche della caccia e della guerra, si abbandonava al riposo, stendeva le membra e sentiva frusciare intorno a sé le ali del sonno.

L’ uomo fa un ragionamento sbagliato quando, in conformità a quella antica abitudine, si figura di poter anche partecipare, dopo interi periodi di afflizione e di stento, a quello stato di felicità con corrispondente intensità e durata.

 

472.  Religione e governo.

Finché lo Stato, o più chiaramente il governo, si saprà costituito tutore a favore di una massa incapace e, in vista di essa, considererà la questione, se la religione sia da conservare o da eliminare: si deciderà con ogni probabilità sempre per la conservazione della religione.

Giacché la religione appaga l’ animo dell’ individuo in tempi di perdita, di privazione, di paura e di sfiducia, ossia quando il governo si sente impotente a fare direttamente qualcosa per alleviare le sofferenze spirituali del privato: anzi, persino nei mali generali, inevitabili e per il momento ineluttabili (carestie, crisi finanziarie, guerre), la religione procura un atteggiamento pacato, di attesa e di fiducia, nella moltitudine.

Dappertutto, dove le necessarie o casuali manchevolezze del governo statale, o le pericolose conseguenze di interessi dinastici si fanno palesi all’ uomo intelligente, provocando in lui ribellione, gli in-intelligenti crederanno di vedere il dito di Dio e si sottometteranno con pazienza alle disposizioni provenienti dall’ alto (nel quale concetto si fondono di solito forma divina e umana di governo); così vengono preservate la pace civile all’ interno e la continuità di sviluppo.

La potenza, che risiede nell’ unità del sentimento popolare e in opinioni e scopi uguali per tutti, viene dalla religione diretta e suggellata, eccettuati quei rari casi in cui un clero non riesce ad accordarsi sul prezzo col potere statale e scende in lotta.

Di solito lo Stato saprà guadagnarsi i preti, perché ha bisogno della loro privatissima, nascosta educazione delle anime, e perché sa apprezzare dei servitori che rappresentano in apparenza ed esteriormente un interesse tutto diverso.

Senza l’ appoggio dei preti, ancor oggi, nessuna potenza può diventare “legittima”: come Napoleone comprese. E così governo assoluto e di tutela e accurata conservazione della religione vanno necessariamente insieme.

Inoltre, è da supporre che le persone e le classi che governano si rendano conto dell’ utilità che la religione produce loro, e si sentano pertanto fino a un certo punto superiori ad essa, in quanto la usano come mezzo; per cui prende qui origine il libero pensiero.

Ma che avverrà quando comincerà a farsi strada quella concezione tutta diversa dell’ idea di governo che viene insegnata negli Stati democratici?

Quando in esso non si vedrà altro che lo strumento della volontà popolare, non un sopra in paragone a un sotto, ma soltanto una funzione dell’ unico sovrano, il popolo?

Qui anche il governo non può assumere se non la stessa posizione che il popolo assume verso la religione. Ogni propagazione di lumi dovrà ripercuotersi fin nei suoi rappresentanti, una utilizzazione e uno sfruttamento degli impulsi e dei conforti della religione ai fini statali non saranno tanto facilmente possibili (a meno che potenti capipartito non esercitino temporaneamente un influsso che appaia simile del dispotismo illuminato.

Ma quando lo Stato non potrà più trarre esso stesso un utile dalla religione, o il popolo penserà sulle cose religiose in maniera troppo varia per poter consentire al governo un procedimento coerente e unitario in fatto di provvedimenti religiosi – la soluzione apparirà necessariamente quella di trattare la religione come una cosa privata e di rimetterla alla coscienza e alla consuetudine di ogni cittadino.

La conseguenza sarà a tutta prima questa: il sentimento religioso apparirà rafforzato, in quanto i moti nascosti o repressi di esso, a cui lo Stato, involontariamente o di proposito non accordava aria vitale, ora proromperanno e si dilateranno fino all’ estremo; più tardi si vedrà che la religione pupullerà di sette e che, nel momento in cui si fece della religione una cosa privata, fu seminata una quantità di denti di drago.

Lo spettacolo della lotta, l’ ostile denudamento di tutte le debolezze delle confessioni religiose, non lasceranno alla fine altra soluzione, se non che tutti gli uomini migliori e più dotati facciano della irreligiosità la loro causa privata: modo di pensare che prenderà poi il sopravvento anche nello spirito dei governanti e che, quasi contro la loro volontà, conferirà ai loro provvedimenti carattere ostile alla religione.

Non appena ciò accadrà, la disposizione degli uomini ancora mossi da sentimenti religiosi, che prima adoravano lo Stato come qualcosa per metà, o del tutto sacro, si trasformerà in una disposizione decisamente ostile allo Stato: essi prenderanno di mira i provvedimenti del governo, cercheranno di ostacolarli, di bloccarli, di sconvolgerli quanto essi potranno, e getteranno con ciò il partito contrario, quello irreligioso, con l’ ardore della sua opposizione, in un entusiasmo quasi fanatico per lo Stato; cosa alla quale contribuirà segretamente anche il fatto che in questi circoli, dopo il distacco della religione, gli animi avvertiranno un vuoto e cercheranno di crearsi provvisoriamente, con la devozione allo Stato, un sostitutivo, una specie di riempitivo.

Dopo queste lotte di transizione, che forse dureranno a lungo, si deciderà infine se i partiti saranno ancora forti abbastanza per ristabilire la vecchia situazione e girare indietro la ruota, nel qual caso inevitabilmente il dispotismo illuminato (forse meno illuminato e più pauroso di prima) prenderà in mano lo Stato, o se invece saranno i partiti antireligiosi ad affermarsi; questi ostacoleranno, durante alcune generazioni, per esempio servendosi della scuola e dell’ educazione, la riproduzione dei loro avversari, fino a renderla impossibile.

Ora però anche in loro verrà meno quell’ entusiasmo per lo Stato: risulterà sempre più chiaro che con quell’ adorazione religiosa, per la quale lo Stato è un mistero, una istituzione soprannaturale, è stato scosso anche il rapporto di venerazione e di pietà verso lo Stato.

Per l’ avvenire i singoli vedranno di esso sempre e solo il lato dal quale può loro derivare utilità o danno, e cercheranno con tutti i mezzi di acquistare influsso sullo Stato.

Ma questa concorrenza diverrà tosto troppo grande, gli uomini e i partiti cambieranno troppo rapidamente, si scaglieranno di nuovo a vicenda con troppo furore giù dalla montagna appena giuntivi sopra.

A tutti i provvedimenti che Saranno fatti valere da un governo mancherà la garanzia della durata; si rifuggirà da imprese che richiedano uno sviluppo tranquillo di decenni o di secoli per produrre frutti maturi.

Nessuno sentirà verso una legge altro obbligo che quello di inchinarsi per il momento al potere che avrà introdotto la legge: per poi subito rivolgersi a minarla con un nuovo potere, con una maggioranza di nuova formazione.

Da ultimo – lo si può dire con sicurezza – la sfiducia verso qualunque governante, la comprensione dell’ inutilità e della gravosità di queste lotte di corto respiro, è destinata a spingere gli uomini a una decisione completamente nuova: all’ abolizione del concetto di Stato, alla soppressione della contrapposizione “privato e pubblico”.

Passo dopo passo le società private incorporeranno gli affari dello Stato: persino al residuo più tenace, che resterà del vecchio lavoro del governare (quell’ attività, per esempio, destinata ad assicurare i privati contro i privati), si finirà un giorno per provvedere da imprenditori privati.

Il disprezzo,la decadenza, la morte dello Stato, la liberazione della persona privata (mi guardo dal dire: dell’ individuo) saranno la conseguenza dell’ idea democratica dello Stato; in ciò consiste la sua missione.

Se essa avrà adempiuto il suo compito -  che come ogni cosa umana reca in seno molto più di ragionevole e di irragionevole – se tutte le ricadute della vecchia malattia saranno state superate, nel libro delle favole dell’ umanità si volterà una nuova pagina, nella quale si leggeranno strane storie di ogni genere, e forse anche qualcosa di buono.

Per riassumere brevemente quanto si è detto: l’ interesse del governo tutore e l’ interesse della religione vanno di pari passo, sicché quando quest’ ultima comincia a morire, viene scossa anche la base dello Stato.

La credenza in un ordinamento divino delle cose politiche, in un mistero nell’ esistenza dello Stato è di origine religiosa: se la religione sparirà, inevitabilmente lo Stato perderà il suo antico velo di Iside e non susciterà più alcuna venerazione.

La sovranità del popolo, vista da vicino, serve a scacciare anche l’ultimo incantesimo e superstizione nel dominio di questi due sentimenti; la democrazia moderna è la forma storica della decadenza dello Stato.

La prospettiva che con questa sicura decadenza si aprirà, non sarà però sotto ogni aspetto disgraziata: l’ avvedutezza e l’ egoismo degli uomini saranno le meglio formate fra tutte le loro qualità; se lo Stato non risponderà più alle esigenze di queste forze non succederà affatto il caos, bensì un’ invenzione ancora più idonea di quanto non lo fosse lo Stato, riporterà vittoria sullo Stato.

Quante forze organizzatrici l’ umanità non ha già visto morire: per esempio quella della comunità di stirpe, che per millenni fu molto più potente della forza della famiglia, e anzi vigeva e imperava già molto tempo prima che quest’ ultima esistesse.

Noi stessi vediamo farsi sempre più pallido e impotente l’ importante concetto di diritto e di forza della famiglia, che una volta dominava fin dove giungeva la romanità.

Così una generazione posteriore vedrà anche lo Stato divenire privo di importanza su singole estensioni della terra – un’ idea alla quale molti uomini di oggi a stento possono pensare senza paura e raccapriccio.

Lavorare alla diffusione e all’ attuazione di questa idea è certo un’ altra cosa: bisogna pensare molto presuntuosamente alla propria ragione e capire la storia appena a metà per por mano già ora all’ aratro – quando ancora nessuno può mostrare i semi che dovranno poi essere sparsi sulla terra solcata.

Abbiamo dunque fiducia “nell’ avvedutezza e nell’ egoismo degli uomini” perché per ora lo Stato continui a esistere per un buon pezzo e perché i tentativi di istruzione da parte di saccenti fanatici e avventati siano respinti.

 

473.  Il socialismo con riguardo ai suoi mezzi.

Il socialismo è il fantastico fratello minore del quasi spento dispotismo, di cui vuole raccogliere l’ eredità; le sue aspirazioni son quindi, nel senso più profondo, reazionarie. Giacché esso ambisce a una pienezza di potere statale, quale solo qualche volta il dispotismo ha avuto, anzi, esso supera di gran lunga ogni forma analoga del passato, poiché aspira espressamente all’ annientamento dell’ individuo: che gli appare come un ingiustificato lusso della natura e che dovrà essere trasformato dal socialismo in un appropriato organo della comunità.

A causa della sua parentela, esso appare sempre in vicinanza di tutti gli eccessivi spiegamenti di potenza, come l’ antico, tipico socialista Platone alla corte del tiranno siciliano; desidera (e in certe circostanze favorisce) lo Stato dittatoriale cesareo di questo secolo, perché, come si è detto, ne vorrebbe diventare l’ erede.

Ma neanche una tale eredità basterebbe per i suoi fini, esso ha bisogno della più servile soggezione di tutti i cittadini di fronte allo Stato assoluto, qualcosa di cui non è mai esistito l’ uguale; e dato che non può neanche più contare sulla vecchia pietà religiosa verso lo Stato, ed è destinato anzi a lavorare costantemente, senza volerlo, alla eliminazione di essa – in quanto cioè lavora alla eliminazione di tutti gli Stati esistenti – può qua e là  sperare di esistere solo per brevi periodi, grazie al più violento terrorismo.

Perciò si prepara segretamente a dominare col terrore, e caccia in testa come un chiodo alle masse semicolte la parola “giustizia”, per privarle completamente del loro intelletto (dopo che questo intelletto ha già molto sofferto a causa della mezza cultura) e per creare in loro una buona coscienza per il cattivo giuoco che devono giocare.

Il socialismo può servire a insegnare in modo assai brutale e incalzante i pericoli di tutte le accumulazioni di potere statale, e in questo senso a ispirare diffidenza contro lo stesso Stato.

Quando la sua rauca voce romperà nel grido di guerra: “Quanto più Stato è possibile”, in un primo momento questo grido diverrà così più fragoroso che mai: ma tosto proromperà, con forza tanto maggiore, anche l’ altro grido opposto: “Quanto meno Stato è possibile”.

 

474.  Temuto dallo Stato lo sviluppo dello spirito.

La polis greca era, come forza politica organizzatrice, esclusiva e diffidente verso il fiorire della formazione intellettuale, la cui possente spinta fondamentale si rivelò per essa quasi solo come un impedimento e un ingombro. Non voleva ammettere, nell’ istruzione, ne’ storia, ne’ divenire; l’ educazione stabilita nella legge statale doveva obbligare a tener ferme a uno stesso livello tutte le generazioni.

Non altro volle più tardi anche Platone per il suo Stato ideale.

Dunque la formazione intellettuale si sviluppò nonostante la polis; certo indirettamente e contro volontà anch’ essa giovò, perché nella polis l’ ambizione del singolo veniva eccitata al massimo, sicché quegli, una volta entrato nella strada della formazione intellettuale, proseguiva poi in essa fino all’ estremo limite.

Contro ciò non bisogna appellarsi al panegirico di Pericle: perché esso è solo una grande e ottimistica fantasia alla pretesa necessaria connessione fra polis e cultura ateniese; Tucidide, immediatamente prima che la notte scenda su Atene (la peste e la rottura della tradizione), la fa brillare ancora una volta come uno sfolgorante tramonto destinato a far dimenticare la brutta giornata che lo ha preceduto.

 

475.  L’ uomo europeo e la distruzione delle nazioni.

Il commercio e l’ industria, lo scambio di libri e di lettere, la comunanza di tutta la cultura superiore, il rapido mutar di luogo e di paese, l’ odierna vita nomade di tutti coloro che non posseggono terra – queste circostanze portano necessariamente con sé un indebolimento e alla fine una distruzione delle nazioni, per lo meno di quelle europee; sicché da esse tutte, in seguito ai continui incroci, dovrà crescere una razza mista, quella dell’ uomo europeo.

Contro questa meta opera oggi, consapevolmente o inconsapevolmente, l’ isolamento delle nazioni dovuto alla fomentazione di inimicizie nazionali, ma lentamente quel mescolamento fa lo stesso il suo cammino nonostante le temporanee correnti contrarie; questo nazionalismo artificiale è del resto tanto pericoloso quanto lo è stato il cattolicesimo artificiale, giacché è nella sua essenza uno stato d’ emergenza e d’ assedio, che è stato proclamato da pochi su molti, e ha bisogno di astuzia, menzogna e violenza per mantenersi in credito.

Non l’ interesse dei molti (dei popoli), come ben si dice, bensì innanzitutto l’interesse di determinate dinastie regnanti, e poi quello di determinate classi del commercio e della società spingono a questo nazionalismo; una volta che si sia riconosciuto ciò, bisogna dirsi francamente solo buoni Europei e contribuire con l’ azione alla fusione delle nazioni: alla quale impresa i Tedeschi possono collaborare con la loro vecchia e provata qualità di fare da interpreti e da mediatori dei popoli.

Incidentalmente: l’ intera questione etnica esiste solo entro gli Stati nazionali, in quanto qui dappertutto l’efficienza e superiore intelligenza degli Ebrei, il capitale di spirito e di volontà da essi accumulato di generazione in generazione in una lunga scala di dolore, sono destinati a prevalere in misura tale da risvegliare invidia e odio, sicché oggi in quasi tutte le nazioni, cioè quanto più esse tornano ad assumere un atteggiamento nazionalistico – dilaga il malcostume letterario di condurre gli Ebrei al macello come capri espiatori di tutti i possibili mali pubblici e interni.

Ma non appena si tratti non più di conservare delle nazioni, bensì di produrre una razza mista europea quanto più possibile robusta, l’ ebreo è come ingrediente altrettanto idoneo e desiderabile di qualsiasi altro residuo nazionale.

Qualità spiacevoli, anzi pericolose, ha in  ogni nazione ogni uomo: è crudele pretendere che l’ ebreo debba fare eccezione. Quelle qualità possono essere in lui addirittura pericolose e temibili in    misura particolare; e forse il giovane finanziere ebreo è l’ invenzione più rivoltante della razza umana in genere.

Tuttavia vorrei sapere quanto in calcolo complessivo, non  si debba perdonare a un popolo che, non senza colpa di noi tutti, ha avuto fra tutti i popoli la storia più dolorosa, e a cui si devono l’uomo più nobile (Cristo), il saggio più puro (Spinoza), il libro più possente e la legge morale di più vasta efficacia.

Inoltre: nei tempi più oscuri del Medioevo, quando lo strato di nubi asiatico si era accampato pesantemente sull’  Europa, furono liberi pensatori, dotti e medici ebrei che tennero alto il vessillo del rischiaramento e dell’indipendenza spirituale, a costo della più dura costrizione personale, e che difesero l’ Europa contro l’ Asia; non è il nostro minor debito di gratitudine verso i loro sforzi, se alla fine poté ancora trionfare una interpretazione del mondo più naturale, più conforme alla ragione e in ogni caso non mitica, e se l’ anello di civiltà che oggi ci congiunge con la cultura dell’ antichità greco-romana non fu spezzato.

Se il cristianesimo ha fatto tutto per orientalizzare l’ occidente, in complesso l’ ebraismo ha essenzialmente contribuito a occidentalizzarlo sempre di nuovo: il che in un certo senso equivale a fare del compito e della storia dell’ Europa una continuazione di quella greca.

 

476.  Apparente superiorità del Medioevo.

Il Medioevo mostra nella Chiesa un istituto con un fine affatto universale, comprendente in sé l’ intera umanità, un fine inoltre che serviva i presunti supremi interessi di quest’ ultima; visti a confronto con esso, i fini degli Stati e delle nazioni che la storia moderna mostra, fanno una penosa impressione; appaiono meschini, bassi, materiali e limitati nello spazio.

Ma questa diversa impressione sulla fantasia non deve affatto determinare il nostro giudizio; giacché quell’ istituto universale rispondeva a bisogni fittizi, riposanti su finzioni che esso, dove quelli non esistevano ancora, doveva prima creare (bisogno di redenzione); i nuovi istituti provvedono invece stati di necessità reali; e verrà il tempo in cui sorgeranno istituti per servire i comuni, veri bisogni di tutti gli uomini e per porre il fantastico prototipo, la Chiesa cattolica, in ombra e in oblio.

 

477.  Indispensabile la guerra.

E’ vana fantasticheria e utopia di anime belle aspettarsi dall’umanità ancora molto (o addirittura: solo allora veramente molto), quando essa avrà disimparato a far guerre. Per ora non conosciamo altri mezzi mediante i quali si possano comunicare a popoli che vanno infiacchendosi quella rude energia del campo di battaglia, quel profondo odio impersonale, quel sangue freddo omicida con buona coscienza, quell’ ardore generale nella distruzione organizzata del nemico, quella superba indifferenza verso le grandi perdite, verso l’ esistenza propria e delle persone care e quel cupo, sotterraneo sentimento dell’ anima,in modo altrettanto forte e sicuro di come fa ogni grande guerra: dai torrenti e dai fiumi che qui prorompono e che certo travolgono con sé pietre e immondizie di ogni genere e rovinano campi di colture delicate, vengono poi mossi con nuova forza, in circostanze favorevoli, i meccanismi nelle officine dello spirito. La civiltà non può assolutamente fare a meno delle passioni, dei vizi e delle malvagità.

Quando i Romani, fatto l’ impero, si stancarono alquanto delle guerre, cercarono di procurarsi nuova forza con le cacce, i combattimenti dei gladiatori e le persecuzioni dei cristiani.

Gli inglesi di oggi, che nel complesso sembra abbiano anch’ essi rinunciato alla guerra, si appigliano a un altro mezzo per rigenerare quelle forze che sfuggono: quelle pericolose esplorazioni, traversate e ascensioni intraprese, come si dice, a scopi scientifici, ma in verità per riportare a casa, da avventure e pericoli d’ ogni genere, un sovrappiù di forza.

Si riusciranno a trovare ancora molte specie di simili surrogati della guerra, ma attraverso di essi si comprenderà forse sempre più che una tale umanità supercolta e quindi necessariamente fiacca, come quella degli Europei di oggi, ha bisogno non solo di guerre, ma addirittura delle guerre più grandi e terribili – ossia di temporanee ricadute nella barbarie – per non perdere, nei mezzi della civiltà, la sua civiltà e la sua stessa esistenza.

 

478.  Laboriosità nel Sud e nel Nord.

La laboriosità nasce in due modi completamente diversi. Gli artigiani nel Sud divengono laboriosi non per amore del guadagno, bensì per i continui bisogni degli altri.

Perché viene sempre qualcuno che vuol far ferrare un cavallo o accomodare un carro; il fabbro è laborioso.

Se non venisse nessuno egli bighellonerebbe per la piazza. Per nutrirsi in un paese fertile basta poco. A tal fine egli avrebbe bisogno solo di una quantità di lavoro molto piccola, in ogni caso non di laboriosità; e alla fin fine elemosinerebbe e sarebbe contento.

La laboriosità degli operai inglesi ha invece dietro di sé il senso del guadagno: essa è conscia di sé stessa e dei suoi fini e vuole, con la proprietà, la potenza, e con la potenza la massima libertà e distinzione individuale possibile.

 

479.  La ricchezza come origine della nobiltà di sangue.

La ricchezza produce necessariamente un’ aristocrazia della razza, perché permette di scegliere le donne più belle, di stipendiare i maestri migliori; procura all’ uomo pulizia, tempo per esercizi fisici e soprattutto emancipazione dall’ abbrutente lavoro materiale. In tal modo essa crea tutte le condizioni perché, in alcune generazioni, le persone si muovano e anzi addirittura agiscano con grazia e distinzione: la maggiore libertà dell’ animo, l’ assenza di ciò che è miserabilmente piccolo, dell’ umiliazione di fronte ai datori di pane e all’ economia del centesimo.

Proprio queste qualità negative sono il più ricco dono della fortuna per un giovane; uno che sia del tutto povero, di solito con la sua nobiltà di sentimenti si rovina, non va avanti e non acquista nulla, la sua razza non è vitale. Al riguardo bisogna però considerare che la ricchezza produce quasi gli stessi effetti se uno può consumare trecento o trentamila talleri l’anno; dopo non c’è nessuna progressione sostanziale di circostanze vantaggiose.

Ma aver meno elemosinare fin da ragazzi e umiliarsi è  terribile: benché ciò, per coloro che cercano la loro felicità nello splendore delle corti e ella subordinazione a persone potenti e influenti, o che vogliono diventare capi della Chiesa, possa costituire il giusto punto di partenza (insegna a insinuarsi curvati nelle gallerie sotterranee del favore).

 

480.  Invidia e indolenza in direzione diversa.

I due partiti avversari, quello socialista e quello nazionale – o comunque suonino i nomi nei diversi paesi europei -  sono degni l’ uno dell’ altro: invidia e pigrizia sono in ambedue le forze motrici.

In quel campo si vuol lavorare il meno possibile con la testa; in quest’ ultimo si odiano e si invidiano gli uomini eminenti, che si fanno da sé, che non si lasciano volentieri inquadrare e intruppare allo scopo di un’ azione di massa; nel primo, la migliore casta della società, esternamente privilegiata, il cui vero compito, la produzione dei più alti beni della civiltà, rende la vita internamente tanto più difficile e ricca di dolore. Che, se poi si riesce a fare di quello spirito dell’ azione di massa lo spirito delle classi superiori della società, le schiere socialiste sono nel loro pieno diritto quando cercano di livellare, anche esteriormente, fra sé e quelle, dato che internamente, nella mente e nel cuore, esse sono già livellate fra loro.

Vivete da uomini superiori e fate costantemente gli interessi della civiltà superiore – e tutto ciò che in essa vive riconoscerà il vostro diritto, e l’ ordinamento della società, di cui siete la cima, sarà garantito contro ogni maleficio e attacco!

 

481.  Grande politica e suoi danni.

Come un popolo non soffre le perdite più gravi che la guerra e la preparazione alla guerra comporta, per le spese di guerra e i ristagni dell’ industria e del commercio, neppure per il mantenimento di eserciti permanenti – per grandi che queste perdite possano essere, oggi che otto Stati europei spendono per essi annualmente da due a tre miliardi – bensì pel fatto che anno dopo anno gli omini più intelligenti, energici e laboriosi vengono sottratti in numero straordinario alle loro vere occupazioni professioni per fare il soldato: così, anche un popolo che si accinge a fare una grande politica e ad assicurarsi una voce decisiva fra gli Stati più potenti, le sue perdite più gravi non le subisce là dove di solito la gente le trova.

E’ vero che,  partire da tale momento, una  quantità dei più eminenti ingegni viene di continuo sacrificata sull’ “altare della patria” o dell’ ambizione nazionale, mentre a questi ingegni che ora la politica ingoia, erano prima aperte altre sfere d’ azione.

Ma,  a parte queste pubbliche ecatombi, e in fondo molto più raccapricciante di queste, ha luogo uno spettacolo che si svolge di continuo in centomila atti contemporaneamente: ogni uomo capace, operoso, intelligente e intraprendente di un tal popolo bramoso di allori politici, viene dominato da questa brama  non appartiene più pienamente come prima alla sua causa: le questioni e le preoccupazioni ogni giorno nuove del bene pubblico inghiottono un tributo quotidiano del capitale di mente e di cuore di ogni cittadino; la somma di tutti questi sacrifici e perdite in energia e lavoro individuale è così mostruosa, che il fiorire politico di un popolo si trae dietro quasi necessariamente un impoverimento spirituale una diminuita capacità per opere che richiedono grande concentrazione e unilateralità.

Alla fine si può chiedere:  ma metterà conto tutta questa fioritura e magnificenza dell’ insieme (che comunque si manifesta solo per la paura degli altri Stati di fronte al nuovo colosso, come agevolazione della prosperità dei commerci e dei traffici nazionali, strappata gli altri Stati), quando a questo fiore grossolano e variopinto della nazione devono essere sacrificate tutte le piante e i virgulti più nobili, delicati e spirituali, di cui il suo suolo era finora così ricco?

 

462.  E detto ancora una volta.

Opinioni pubbliche - pigrizie private.

 

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