La filosofia

nell’ epoca tragica dei Greci.

 

Per “Epoca tragica” qui Nietzsche intende il sesto a.C., secolo cruciale nella storia dell’ umanità nel quale cominciarono ad apparire grandi opere di scrittura (come ad esempio la Bibbia)  seguite soprattutto nel  quinto, ma non molto oltre, se  le si inquadra nella tematica filosofica che il nostro autore presceglie. In pratica  la cultura che noi moderni abbiamo definito “presocratica”.

In Atene, siamo nell’ epoca in cui fiorirono Eschilo e Sofocle, e nella quale si caratterizzò   la  impostazione  più antica del dramma tragico, la intromissione del coro.

Nel frammento che ora proponiamo (paragrafi 10, 11 e 12),  la “filosofia” riguarda indirettamente la Magna Grecia, con i rapporti fra le Scuole di Elea, quella Pitagorica e, più idealmente e lontanamente,  con il filosofo Eraclito.

Ad opinione di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, responsabili della “Collezione Adelphi” (qui nel vol. III, tomo 2) la figura di Parmenide sarebbe stata  fraintesa da Nietzsche,  in quanto alla di lui  filosofia (fatto salvo Zenone) sarebbe stata attribuita freddezza,  carattere esangue di “negazione della vita”, astrazione;  critica  che, anche secondo noi, corrisponde (si veda nelle “7 Lezioni di Pitagorismo” la seconda, 2).

Ciò mentre Pitagora sarebbe stato liquidato come un “rivoluzionario”, cosa che dimostrerebbe in Nietzsche una intuizione anticipatrice grandissima e, nonostante il suo preteso “ateismo” soprattutto una enorme sensibilità religiosa naturalistica che si rivelerà più tardi in “la Gaia Scienza” libro III, 149 -  Fallimento delle Riforme – in cui attribuirà a Pitagora, Platone ed Empedocle, ed ai “ferventi seguaci dell’ orfismo”, “anima e qualità di fondatori di religioni”.

Ma perché Parmenide viene definito esangue, e Pitagora un “rivoluzionario”?   

Da notare che al tempo di questo scritto (1873) N. aveva 29 anni, e la scoperta della “unità della materia” con cui devono fare i conti le filosofie, e soprattutto le religioni monoteiste dell' oggi, era ancora di là da venire.

A differenza della Scuola di Elea, quella pitagorica era fortemente  permeata …  – anzi era essa stessa una Scuola filosofica di orfismo – morta la quale, a giudizio pitagorico, morì Dio stesso, la cui “conseguenza logica pratica” non fu più ritrovata nelle civiltà del  mondo.

Nell’ orfismo, ricordiamolo, una sola anima percorreva il cammino delle incarnazioni; era essa stessa “il senso della terra”.

In questa serie di citazioni da Nietzsche, ci proponiamo di ritrovare  il reale carattere del valore nietzscheano oggi definito “Morte di Dio”.    

   

* 

 

Federico  Nietzsche

 

LA  FILOSOFIA  NELL’ EPOCA TRAGICA  DEI GRECI

Versione di Giorgio Colli

 

Par. 10, 11, 12.

 

Ma nessuno può impunemente mettere le mani addosso ad astrazioni così terribili, quali “ciò che è” e “ciò che non è”: il sangue lentamente si raggela, quando le si tocca.

Ci fu un giorno in cui Parmenide ebbe una singolare idea, che sembrò togliere valore  a tutte le sue precedenti combinazioni, tanto che gli venne voglia di gettarle via come si getta un borsellino pieno di vecchie monete consunte.

Di solito si ritiene che a spingerlo alla scoperta di quel giorno sia stata altresì una impressione esterna – e non soltanto le conclusioni che egli si sentiva spinto internamente a trarre da concetti quali “che è” e “che non è” -   ossia la conoscenza da lui fatta con la teologia del vecchio Senofane di Colofone, rapsodo che aveva molto viaggiato e cantore di una mistica divinizzazione della natura.

Per tutta una vita straordinaria Senofane era stato un poeta errabondo, era divenuto, attraverso i suoi viaggi, un uomo istruito che poteva impartire molti insegnamenti, che sapeva interrogare e raccontare; per tale ragione Eraclito lo collocava fra gli individui di grande erudizione, e in genere fra le nature “storiche” nel senso che si è spiegato.

Nessuno potrà mai stabilire come e quando gli si sia presentata quell’ esigenza mistica di arrestarsi all’ unità, a qualcosa che sia eternamente in quiete: si tratta forse della concezione di un vecchio divenuto infine sedentario, al quale, dopo l’ agitazione dei viaggi e dopo avere incessantemente imparato e indagato, si presenta dinanzi all’ anima il punto massimo e supremo, cioè la visione di una quiete divina, la stasi di tutte le cose entro una primordiale pace panteistica.

D’ altronde mi sembra puramente casuale che proprio nel medesimo luogo, in Elea, siano vissuti insieme per un certo tempo due uomini, ciascuno dei quali aveva in mente una concezione dell’ unità.

Essi non formano affatto una Scuola e non hanno nulla in comune che l’ uno abbia eventualmente potuto imparare dall’ altro, per poi trasmetterne  l’ insegnamento.

In effetti l’ origine di quella concezione dell’ unità è nell’ uno completamente diversa da quella dell’ altro, anzi opposta; e se uno di essi ha mai conosciuto la dottrina dell’ altro, è necessario che per comprenderla egli l’ abbia anzitutto tradotta nel suo proprio linguaggio.

Mentre Parmenide giunge all’ unità dell’ essere unicamente per mezzo di una presunta illazione logica, traendola dal concetto di essere e di non essere, Senofane è invece un mistico religioso e rientra propriamente, con quell’ unità mistica, nel sesto secolo.

Anche se egli non ha avuto una personalità così rivoluzionaria come Pitagora, mostra però, nei suoi viaggi, lo stesso impulso e la stessa tendenza a migliorare, purificare e salvare gli uomini.

Egli è il maestro etico, tuttavia ancora allo stadio di rapsodo; in un’ epoca posteriore egli sarebbe stato un sofista. Nella ardita condanna dei costumi e delle valutazioni vigenti egli non trova in Grecia un suo pari; per far questo egli non si ritirò affatto nella solitudine, come fecero Eraclito e Platone, ma si presentò proprio davanti a quel pubblico di cui aveva sferzato l’ entusiastica ammirazione per Omero, l’ appassionata propensione verso gli onori delle feste ginnastiche, l’ adorazione di pietre in forma umana, condannando tutto ciò con ira e con scherno, pur senza essere un attaccabrighe come Tersite.

Con lui la libertà dell’ individuo giunge al suo vertice, e in questo abbandono quasi illimitato di tutte le convenzioni egli trova con Parmenide un’ affinità assai più stretta che in quella suprema unità divina, da lui contemplata in un momento di visione degno di quel secolo, unità che con l’ essere unico di Parmenide ha a stento in comune l’ espressione e la parola, ma certo non l’ origine.

Lo stato in cui Parmenide trovò la dottrina dell’ essere era piuttosto quello contrario.

In quel giorno e in quello stato, egli esaminò le due antitesi cospiranti, il cui desiderio e il cui odio costituiscono il mondo e il divenire, ossia esaminò ciò che è, e ciò che non è, le qualità positive e quelle negative, rimanendo d’ un tratto perplesso e diffidente di fronte al concetto della qualità negativa di ciò che non è.

Un qualcosa che non è può infatti essere una qualità?

O anche ponendo la domanda in modo più radicale: una cosa che non è può forse essere?

L’ unica forma di conoscenza cui noi concediamo senz’ altro una fiducia incondizionata e la cui negazione equivale all’ assurdo, e d’ altronde la tautologia A = A .

Ma proprio questa conoscenza tautologica gli gridava spietatamente: ciò che non è, non è ! Ciò che è, è !

D’ improvviso egli sentì gravare nella sua vita una terribile colpa logica: senza alcuna esitazione, egli aveva infatti sempre ammesso che esistano qualità negative, e in generale che esista ciò che non è, ossia che, per esprimersi con una formula  A = non A, il che potrebbe essere sostenuto soltanto da una completa perversione del pensiero.

Senza dubbio, come egli si rese conto, la grande moltitudine degli uomini giudica appunto con questa stessa perversione, ed egli stesso aveva semplicemente preso parte all’ universale delitto commesso contro la logica.

Ma lo stesso istante, che lo incolpa di questo delitto,m lo illumina con la gloria di una scoperta: egli ha trovato un principio, la chiave per svelare il segreto del mondo, lontano da tutte le illusioni degli uomini, e ora egli discende, condotto dalla ferma e terribile mano della verità tautologica riguardante l’ essere, verso l’ abisso delle cose.

Su questa strada egli incontra Eraclito: infelice incontro!

A lui, che attribuiva la massima importanza alla più rigorosa separazione fra essere e non essere, doveva riuscire profondamente odioso, proprio ora, il gioco antinomico di Eraclito.

Proposizioni come: “noi siamo e al tempo stesso non siamo” “essere e non essere sono al tempo stesso la medesima cosa e non la medesima cosa”, proposizioni attraverso lui ridiventava torbido e inestricabile ciò che poco prima egli aveva rischiarato e districato lo facevano infuriare:

“Non voglio più saperne degli uomini – egli gridava – che sembrano avere due teste, eppure non sanno nulla.

Per costoro tutto scorre, anche il loro pensiero. Essi guardano ottusamente a bocca aperta le cose, ma devono essere sia sordi che ciechi, per mescolare così fra loro i contrari !”

La dissennatezza della massa, glorificata da scherzose antinomie e lodata come vertice di ogni conoscenza, costituiva per lui una esperienza dolorosa e incomprensibile.

E allora egli si tuffò nel bagno freddo delle sue paurose astrazioni.

Ciò che veramente è deve essere un eterno presente, e di esso non si può dire ne’ “fu”, ne’ “sarà”.

Ciò che è non può essere nato: in effetti, onde mai avrebbe potuto sorgere? Forse da ciò che non è?

Ma ciò che non è non è, e non può produrre nulla.

Forse da ciò che è? Ma ciò che è non potrebbe mai produrre altro che sé stesso.

Lo stesso si dica rispetto al perire: esso è altrettanto impossibile quanto il nascere, quanto ogni mutamento, quanto ogni accrescimento o ogni diminuzione.

In generale vale il principio: tutto ciò di cui si può dire “è stato”, oppure “sarà”, non è, mentre di ciò che è non si potrà mai dire “non è”.

Ciò che è risulta indivisibile, poiché dove si dovrà mai trovare una seconda forza che sia in grado di dividerlo?

Esso è immobile, poiché verso dove potrebbe mai muoversi?

Esso non può risultare ne’ infinitamente grande, ne’ infinitamente piccolo, poiché è compiuto, e poiché una infinità compiutamente data è una contraddizione .

Esso si libra così limitato, compiuto, immobile, ovunque in equilibrio, egualmente perfetto in ogni punto, simile a una sfera, senza peraltro essere in uno spazio, poiché altrimenti questo spazio sarebbe un secondo essere.

Ma non possono esistere parecchi esseri, poiché per dividerli dovrebbe sussistere qualcosa che non fosse: una supposizione questa, che annulla se stessa.

Esiste così unicamente l’ eterna unità.

E quando Parmenide rivolse ora nuovamente il suo sguardo verso il mondo del divenire – la cui esistenza egli aveva cercato in precedenza di comprendere attraverso combinazioni così significative – si adirò contro il suo occhio, per il fatto che esso continuava a vedere il divenire, e contro il suo orecchio, per il fatto che lo udiva.

“Non obbedite però al debole occhio – così suona ora il suo imperativo -  non seguite il rimbombante udito e la lingua, ma esaminate unicamente con la forza del pensiero !”

Con ciò egli condusse a termine la prima critica dell’ apparato conoscitivo, critica oltremodo importante, anche se tuttora insufficiente e fatale nelle sue conseguenze.

Con il separare nettamente i sensi dalla capacità di pensare astrazioni, cioè della ragione, quasi che si tratti di due facoltà completamente distinte, egli ha distrutto l’ intelletto come tale e ha incoraggiato quella separazione del tutto erronea fra “spirito” e “corpo”, la quale, soprattutto dopo Platone, grava come una maledizione sulla filosofia.

Tutte le percezioni dei sensi, giudica Parmenide, non ci forniscono che inganni; e il loro inganno principale consiste appunto nel farci credere che agisca anche ciò che non è, ossia che anche il divenire abbia un essere.

Tutta quella pluralità e policromia del mondo conosciuto conformemente all’ esperienza, la valutazione delle sue qualità, l’ ordine in cui si presentano i fenomeni opposti, tutto quanto viene gettato da parte spietatamente, come semplice illusione e follia; da tutto ciò non si può imparare nulla, e quindi è fatica sciupata quella che si impiega nei confronti di questo mondo menzognero, assolutamente nullo, e carpito per così dire con inganno dei sensi.

Chi giudica in complesso come ha fatto Parmenide, cessa con ciò di essere uno studioso della natura nei dettagli: il suo interesse per i fenomeni si inaridisce e interviene persino un odio, nel non poter liberarsi di questo eterno inganno dei sensi.

La verità deve ormai ritrovarsi soltanto negli universali più sbiaditi e più astratti, nei vuoti gusci delle parole più indeterminate, dimorando come in un ricettacolo fatto di ragnatele. E accanto a una tale “verità” siede ora il filosofo, del pari esangue come un’ astrazione, a avvolto tutto all’ intorno da una ragnatela di formule.

Ma il ragno vuole il sangue della sua vittima, il sangue della conoscenza empirica da lui sacrificata.

 

11.

 

E questo fu un Greco, la cui vita culmina pressappoco negli stessi anni dello scoppio della rivoluzione ionica .

Per un Greco era allora possibile fuggire dalla realtà straripante, considerandola un semplice schematismo fantasmagorico dell’ immaginazione, e rivolgersi, non già come Platone, verso la terra delle idee eterne, verso la fucina del costruttore del mondo, per deliziare gli occhi fra le originarie forme immacolate e indistruttibili delle cose, bensì verso la rigida quiete morale del più freddo e vuoto concetto dell’ essere.

Noi ci guarderemo dall’ interpretare in base a false analogie un tale memorabile dato di fatto.

Quella fuga non era una fuga dal mondo nel senso dei filosofi indiani, e a essa Parmenide non era spinto da una profonda convinzione religiosa dell’ infelicità, caducità e corruzione dell’ esistenza: egli non aspirava a quel fine supremo, la quiete dell’ essere, come a un mistico immergersi in un’ unica visione deliziante, che appaga totalmente e che per l’ uomo volgare costituisce un enigma e uno scandalo.

Il pensiero di Parmenide non ha nulla in sé dell’ inebriante e misterioso profumo indiano, che forse non è del tutto estraneo a Pitagora e ad Empedocle.

Ciò che è singolare, in quest’ epoca, nella esperienza di Parmenide, è piuttosto proprio l’ assenza di profumo, di colore, di anima e di forma, la mancanza completa di sangue, di religiosità e di calore etico, è l’ aspetto astratto e schematico – in un Greco ! -  ma soprattutto la terribile energia di questa aspirazione verso la certezza, in un’ epoca estremamente mobile e fantastica, che pensava misticamente.

Concedetemi un’ unica certezza, o dei ! -  tale è la preghiera di Parmenide -  ed essa sia, sul mare dell’ incertezza, una semplice tavola, larga quel tanto che basti a sostenermi !

Prendete pure per voi tutto ciò che diviene, ogni cosa esuberante, variopinta, fiorente, ingannevole, eccitante e viva, e datemi in cambio unicamente una povera e vuota certezza  !

Nella filosofia di Parmenide si trova un preludio al tema dell’ ontologia.

Da nessuna parte l’ esperienza gli offriva un essere quale egli pensava, ma dal fatto che poteva pensarlo egli dedusse che esso deve esistere: un’ inferenza questa, fondata sul presupposto che noi possediamo un organo della conoscenza, il quale si spinge sin nell’ essenza delle cose, ed è indipendente dall’ esperienza.

La materia del nostro pensiero, secondo Parmenide, non si ritrova affatto nell’ intuizione, ma viene offerta da qualche altra parte, da un mondo extrasensibile cui noi abbiamo direttamente accesso attraverso il pensiero.

Aristotele peraltro ha già fatto valere contro tutte le inferenze consimili, che l’ esistenza non fa mai parte dell’ essenza, ossia che l’ esistere non appartiene mai alla natura concettuale della cosa.

Proprio per questa ragione non è affatto possibile pervenire al concetto di “essere” – la cui essentia è appunto unicamente l’ essere – e una existentia dell’ essere.

La verità logica di quell’ antitesi fra “essere”  e “non essere” è del tutto vuota, se non può essere dato l’ oggetto che si trova alla base, ossia l’ intuizione onde questa antitesi è dedotta attraverso un’ astrazione. Senza questo “regresso all’ intuizione” la verità logica è soltanto un giocare con rappresentazioni, onde in realtà non si giunge ad alcuna conoscenza.

In effetti il criterio semplicemente logico della verità, come insegna Kant, cioè l’ accordo di una conoscenza con le leggi universali e formali dell’ intelletto e della ragione, è senza dubbio la conditio sine qua non, cioè la condizione negativa di ogni verità, ma più in là la logica non può andare, e l’ errore riguardante non già la forma, bensì il contenuto, non può essere scoperto dalla logica con nessuna pietra di paragone.

Non appena per altro si cerca un contenuto della verità logica dell’ antitesi: “ciò che è, è; ciò che non è, non è” non si trova allora davvero neppure una sola realtà la quale sia rigorosamente conforme a quell’ antitesi.

A proposito di un albero, io posso tanto dire: “esso è”, in confronto a tutte le altre cose, quanto “esso diviene” in confronto a lui stesso in un altro momento di tempo, quanto infine “esso non è”, per esempio, esso non è ancora albero, nel caso io lo consideri un arbusto.

Le parole sono soltanto simboli per designare le relazioni reciproche fra le cose, e le relazioni delle cose con noi, e non toccano mai la verità assoluta: la parola “essere” anzi, indica soltanto la relazione più universale che congiunge tutte le cose, analogamente a quanto avviene per la parola “non essere”.

Ma se non si può assodare l’ esistenza delle cose stesse, allora la relazione delle cose tra loro, il cosiddetto “essere” e “non essere” non ci può far progredire neppure di un passo verso la terra della verità.

Mediante le parole e i concetti noi non giungeremo mai al di là del muro delle relazioni8, ne’ riusciremo a penetrare in una qualche favolosa radice primordiale delle cose; persino con le forme pure della sensibilità e dell’ intelletto, cioè con lo spazio, il tempo e la causalità noi non riusciamo a ottenere nulla che assomigli a una verità aeterna.

E’ assolutamente impossibile per il soggetto voler vedere e conoscere qualcosa al di là di sé, tanto impossibile che il conoscere e l’ essere risultano le sfere più contraddittorie fra loro.

E se Parmenide – nella ingenuità inesperta di quella critica dell’ intelletto – poteva credere di giungere da un concetto eternamente soggettivo a un essere in sé, oggi invece, dopo Kant, è per sfacciata ignoranza che qua e là si prospetta come compito della filosofia – soprattutto fra i teologi male informati, che vogliono fare la parte del filosofo -  “il cogliere l’ assoluto con la coscienza”, eventualmente nella forma: “l’ assoluto è già presente , altrimenti come si potrebbe cercarlo?, come si è espresso Hegel, oppure nel modo di esprimersi di Beneke: “l’ essere deve risultare in qualche modo dato, deve risultare in qualche modo raggiungibile da noi, poiché altrimenti non potremmo neppure avere il concetto di essere”.

Il concetto dell’ essere ! Come se esso non  rivelasse già nell’ etimologia della parola la più misera origine empirica!

Esse infatti significa in fondo unicamente “respirare”: quando l’ uomo usa tale parola a proposito di tutte le altre cose, egli non fa che trasferire la convinzione di respirare e vivere lui stesso -  mediante una metafora, ossia mediante qualcosa di non logico – alle altre cose, intendendo la loro esistenza come un respirare secondo l’ analogia umana.

Certo il significato originale della parola si cancella ben presto, ma ne rimane pur sempre qualcosa, ossia il fatto che l’ uomo si rappresenta l’ esistenza delle altre cose in base all’ analogia della propria esistenza, cioè antropomorficamente, e in ogni caso mediante una trasposizione non logica.

Tuttavia anche per l’ uomo – a prescindere quindi da quella trasposizione – il principio “io respiro, perciò esiste un essere ” è del tutto insufficiente: contro di esso dev’ essere fatta valere la medesima obiezione che colpisce l’ ambulo ergo sum, oppure ergo est.

 

12.

 

L’ altro concetto – che ha un contenuto maggiore di quello dell’ essere, e che del pari è già stato scoperto da Parmenide, pur non essendo da lui usato in modo così abile come dal suo discepolo Zenone -  è quello di infinito.

Non può esistere nulla di infinito, poiché da una tale supposizione risulterebbe il concetto contraddittorio di una infinità compiuta.

Ora, in quanto la nostra realtà, cioè il nostro mondo concreto, porta ovunque il carattere di una infinità compiuta, essa allora costituisce nella sua essenza una contraddizione rispetto alla sfera logica, e quindi anche rispetto alla sfera reale, ed è perciò inganno, menzogna, fantasma.

Zenone si servì particolarmente del metodo della dimostrazione indiretta; egli disse, per esempio: “non può esistere alcun movimento da un luogo a un altro luogo, poiché se esistesse risulterebbe data compiutamente una infinità, il che peraltro è impossibile”.

In una gara di corsa fra la tartaruga e Achille, quest’ ultimo non può raggiungere la prima, che è partita con un piccolo vantaggio: in effetti, per raggiungere il punto ove parte la tartaruga, egli dovrebbe già aver percorso un infinito numero di parti di spazio, ossia anzitutto la metà di quello spazio, poi la quarta parte, poi l’ ottava parte, poi la sedicesima parte, e così via, in infinitum.

Se, in realtà egli raggiunge la tartaruga, questo è un fenomeno illogico, ossia non è comunque una verità, una realtà, un vero essere, ma soltanto un inganno. Non sarà mai possibile, infatti, porre un termine all’ infinito .

Un altro mezzo popolare per esprimere questa dottrina è l’ esempio della freccia in movimento e al tempo stesso in quiete.

In ogni istante del suo percorso la freccia ha una posizione , e in tale posizione essa è in quiete. Ma la somma di infinite posizioni di quiete  si identificherà con il movimento? La quiete, infinitamente ripetuta, sarà dunque il movimento, cioè la propria antitesi?

L’ infinito viene qui utilizzato come acido nitrico della realtà: nell’ infinito quest’ ultima si dissolve.

Se i concetti sono solidi, eterni, sono qualcosa che è -  essere e pensare coincidono, per Parmenide – se dunque l’ infinito non può essere completato e la quiete non può mai diventare movimento, allora la freccia in verità non è affatto volata : essa non si è mai spostata, non ha mai abbandonato la quiete, e nessuna parte di tempo è trascorso.

O anche, con un’ altra espressione: in questa cosiddetta realtà -  realtà soltanto presunta -  non esiste ne’ tempo, ne’ spazio, ne’ movimento.

In definitiva la freccia stessa è un inganno, poiché sorge dalla pluralità,  dalla fantasmagoria del non – uno prodotta mediante i sensi.

Se ammettiamo che la freccia abbia un essere, essa dovrebbe risultare immobile, fuori del tempo, sottratta al divenire, statica ed eterna: l’ ipotesi è assurda.

Se ammettiamo che il movimento sia veramente reale, non dovrebbe esserci nessuna quiete, perciò nessuna posizione per la freccia, e quindi nessuno spazio: altra ipotesi assurda.

Se ammettiamo che il tempo sia reale, esso non potrà allora risultare infinitamente divisibile; il tempo impiegato dalla freccia nel suo percorso dovrebbe consistere in un numero limitato di momenti di tempo, e ciascuno di questi momenti dovrebbe essere un atomo: terza ipotesi assurda.

Tutte le nostre ipotesi, non appena il loro contenuto empiricamente dato  -  e attinto da questo  mondo intuitivo -  viene inteso come veritas aeterna,  portano a contraddizioni.

Se esiste un movimento assoluto, non esiste allora uno spazio; se esiste uno spazio assoluto, non esiste allora un movimento; se esiste un essere assoluto, non esiste allora una pluralità.

Se esiste una pluralità assoluta non esiste allora una unità. Dovrebbe in tal caso risultare chiaro a chiunque che con tali concetti noi non tocchiamo affatto il cuore delle cose, ne’ sciogliamo il nodo della realtà: Parmenide e Zenone, al contrario, rimangono convinti della verità e della validità universale dei concetti, rifiutando in modo intuitivo e considerandolo come l’ antitesi dei concetti veri e universalmente validi, ossia come una oggettivazione di ciò che è illogico e contraddittorio.

In tutte le loro dimostrazioni essi partono dal presupposto del tutto indimostrabile, anzi inverosimile, che la nostra facoltà dei concetti costituisca il criterio supremo e decisivo per distinguere l’ essere dal non essere, ossia per stabilire la realtà oggettiva e il suo contrario: quei concetti non devono essere convalidati e corretti dalla realtà, pure essendo, di fatto, derivati da essa, ma devino al contrario misurare e giudicare la realtà, condannandola addirittura nel caso in cui risulti in contraddizione con la esigenza logica.

Per poter accordare ai concetti questo parere giudiziario, Parmenide dovette attribuire a essi quell’ unico essere che egli ammetteva come tale; il pensiero e quella sfera unica, ingenerata e perfetta di ciò che è, non si dovevano ormai intendere se non come due differenti specie dell’ essere, dato che nell’ essere non poteva esistere alcun dualismo.

L’ idea follemente audace di dichiarare l’ identità fra tempo ed essere era così diventata una necessità; non si poteva ricorrere all’ aiuto di nessuna forma dell’ intuitività, di nessun simbolo, di nessuna immagine, quell’ idea non poteva affatto essere rappresentata sensibilmente, ma in cambio era necessaria, e solennizzava così con la mancanza di  ogni possibilità di rappresentazione sotto forma sensibile, il supremo trionfo sul mondo e sulle esigenze dei sensi.

Il pensiero e quell’ essere rotondo come una ruvida sfera, completamente inanimato e massiccio, rigidamente immobile, devono secondo l’ imperativo parmenideo coincidere e identificarsi completamente, a scapito di ogni fantasia,

Possa questa identità contraddire i sensi ! Proprio ciò costituisce infatti la garanzia che essa non è stata derivata dai sensi.

 

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