“Questo devo potermelo concedere già per professione, come filosofo classico: non saprei infatti che senso avrebbe mai la filologia classica del nostro tempo, se non quello di agire in esso in modo inattuale – ossia contro il tempo, e in tal modo sul tempo e, speriamolo, a favore di un tempo venturo” Nietzsche.

Cfr. dalle notizie e note di  Giorgio Colli e Mazzino Montinari a “La nascita della Tragedia”. Coll. Adelphi, vol. III, 1, p. 464.

 

David Strauss, l’ uomo di fede e lo scrittore.

Quest’ opera fu definita “la più debole fra tutte le opere pubblicate da Nietzsche, proprio per la sua attualità, ovvero per la inconsistenza del suo bersaglio così come esso può essere visto da un uomo attuale, inteso da Nietzsche come un futuro.

Ne abbiamo qui pubblicato il primo paragrafo soltanto per relazionarlo al precedente “Lo Stato Greco”, e per esporre il pensiero di Nietzsche sulle conseguenze pratiche e culturali successive alla appena trascorsa guerra franco – prussiana, alla quale egli partecipò come infermiere dal 23 agosto al 7 settembre 1870.

Il 19 luglio 1870, in una lettera a Rohde, Nietzsche ebbe a scrivere:

“Un terribile colpo di fulmine: (la dichiarazione di guerra della Francia alla Prussia) è stata dichiarata la guerra franco – tedesca, e tutta la nostra logora civiltà crolla fra le braccia del demone più terribile. Che cosa mai dovremo vivere!

Amico, carissimo amico, noi ci siamo visti ancora una volta nel crepuscolo della pace. Come te ne ringrazio! Se ora l’ esistenza dovesse diventarti insopportabile, torna da me.

Che cosa sono mai tutti i nostri fini! Possiamo già trovarci al principio della fine! Che desolazione!

Avremo di nuovo bisogno di conventi, e noi saremo i primi fratres”.

 

 

FEDERICO  NIETZSCHE

 

CONSIDERAZIONI INATTUALI  1.

 

DAVID   STRAUSS

L’ UOMO DI  FEDE  E  LO  SCRITTORE  1.

Collezione Adelphi,  vol. III, 1.  Milano, 1972.

Versione di Sossio Giametta

 

In Germania sembra quasi che la pubblica opinione vieti di parlare delle cattive e pericolose conseguenze della guerra, specialmente di una guerra terminata vittoriosamente: tanto più volentieri vengono invece ascoltati quegli scrittori che non riconoscono una opinione più importante di quella pubblica, e che perciò si sforzano a gara di esaltare la guerra e di seguire con giubilo i poderosi fenomeni della sua influenza su moralità, cultura e arte.

Tuttavia diciamolo: una grande vittoria è un grande pericolo. La natura umana la sopporta più difficilmente di una sconfitta ; anzi, sembra perfino che sia più facile riportare una tale vittoria che sopportarla in modo che non ne derivi una più grave sconfitta.

Ma di tutte le cattive conseguenze che l’ ultima guerra condotta con la Francia si trae dietro, la peggiore è forse un errore diffuso, anzi generale: l’ errore della pubblica opinione e di tutti coloro che nutrono pubbliche opinioni, consistente nel credere che in tale lotta abbia vinto anche la cultura tedesca, e che quest’ ultima debba perciò essere ora adornata con le ghirlande che si convengono a eventi e a successi tanto straordinari.

Questa illusione è sommamente rovinosa, forse non perché è una illusione – infatti  esistono errori oltremodo salutari e benefici – bensì perché essa è capace di trasformare la nostra vittoria in una completa disfatta: nella disfatta, anzi nella estirpazione dello spirito tedesco a favore dell’ impero tedesco.

 

Pure ammettendo che due culture avessero lottato fra loro, il criterio per misurare il valore di quella vincente rimarrebbe sempre molto relativo, e date le circostanze non autorizzerebbe affatto un giubilo di vittoria o un’ auto glorificazione. Giacché importerebbe sapere che valore aveva la cultura soggiogata: magari questo era molto piccolo, e in questo caso anche la vittoria, pur se ottenuta con clamorosissimo successo delle armi, non giustificherebbe per la cultura vincitrice la pretesa di un trionfo.

D’ altra parte, per le più semplici ragioni,  nel nostro caso non si può parlare di una vittoria della cultura tedesca: la cultura francese continua infatti a esistere come prima, e noi dipendiamo da essa come prima.

Neanche al successo delle armi essa ha contribuito. Severa disciplina militare, naturale valore e perseveranza, superiorità dei comandanti, insomma elementi che non hanno niente a che fare con la cultura, ci portarono alla vittoria su avversari a cui mancavano i più importanti di questi elementi: solo di questo ci si può meravigliare, che ciò che oggi in Germania si chiama “cultura” abbia ostacolato così poco questi requisiti militari necessari per un grande successo, forse solo perché questo qualcosa che si dice cultura ha giudicato più vantaggioso per sé mostrarsi questa volta servizievole.

Se lo si lascia crescere e lussureggiare, se lo si vizia con la lusinghiera illusione di essere stato vittorioso, esso ha la forza di estirpare, come dicevo,  lo spirito tedesco – e chissà se poi si potrà fare qualcosa del corpo tedesco che rimane!

 

Se fosse possibile suscitare quel coraggio impassibile e tenace, che il tedesco contrapporre al patetico e repentino impeto del Francese, contro il nemico interno, contro quella “culturalità” sommamente equivoca e in ogni caso antinazionale, che in Germania viene oggi chiamata, con pericoloso equivoco, cultura, non tutte le speranze di arrivare a una vera e schietta educazione tedesca, l’ opposto di quelle culturalità, sarebbero perdute: ai Tedeschi infatti non sono mai mancati i capi e i condottieri più intelligenti e arditi – solo che a questi spesso mancarono i Tedeschi.

Ma che sia possibile dare al coraggio tedesco questa nuova direzione, diventa per me sempre più dubbio e, dopo la guerra ogni giorno più improbabile; giacché vedo come ognuno sia convinto che non ci sia più affatto bisogno di una lotta e di un tale coraggio, che anzi la maggior parte delle cose sia già ordinata nel modo più bello possibile, che in ogni caso tutto ciò che occorre sia già da lungo tempo trovato e fatto, insomma che dappertutto il miglior seme della cultura in parte sia seminato, in parte sia cambiato in fresca verzura, e qua e là addirittura in rigogliosa fioritura.

In questo campo non c’è soltanto contentezza, ma si trova felicità ed ebbrezza. Sento questa ebbrezza e questa felicità nel contegno incomparabilmente sicuro dei giornalisti e dei fabbricatori tedeschi di romanzi, di tragedie, di liriche e di storie: giacché questa è evidentemente una società omogenea, che sembra aver giurato di impadronirsi delle ore di ozio e di digestione dell’ uomo moderno, cioè dei suoi “momenti culturali”, e di stordirlo allora con la carta stampata.

Per questa società tutto si risolve oggi, dopo la guerra, in felicità, dignità e coscienza di sé: essa si sente, dopo tali “successi della cultura tedesca”, non solo confermata e sanzionata, bensì quasi sacrosanta, perciò parla più solennemente, ama rivolgere discorsi al popolo tedesco, pubblica  opere complete com’ è uso per i classici, e proclama anche effettivamente, nei fogli mondiali a sua disposizione, alcuni nuovi classici e scrittori esemplari tedeschi, traendoli dal suo seno.

Bisognerebbe forse aspettarsi che i pericoli di un siffatto abuso di successo dovessero essere conosciuti dalla parte più giudiziosa e istruita della classe colta tedesca, o che per lo meno da questa l’ aspetto penoso dello spettacolo dato dovesse essere sentito: giacché cosa può essere più penoso del vedere che il deforme se ne sta davanti allo specchio impettito come un gallo e scambia occhiate ammirative con la sua immagine?

Ma le classi istruite lasciano volentieri che accada ciò che accade, e hanno già abbastanza da fare con se stesse per poter ancora prendere su di sé la preoccupazione per lo spirito tedesco. Inoltre i loro membri sono convinti, col massimo grado di sicurezza, che la loro propria educazione sia il frutto più maturo e più bello del tempo, anzi di tutti i tempi, e non  capiscono affatto una preoccupazione per l’ educazione generale tedesca, in quanto sono, riguardo a se stessi e agli innumerevoli loro pari, molto al di sopra di tutte le preoccupazioni di tal genere.

A un più accurato osservatore, specialmente se è straniero, non può del resto sfuggire che, fra ciò che oggi il dotto tedesco chiama la sua formazione, e quella trionfante “cultura” dei nuovi classici tedeschi, sussista un contrasto solo riguardo alla quantità del sapere: dovunque vengono in questione non il sapere, ma il saper fare, con la scienza, con l’ arte, cioè dovunque la vita debba fornire testimonianza della specie della formazione,  c’è oggi una sola cultura tedesca  - e questa avrebbe vinto sulla Francia?

Questa affermazione appare pertanto completamente incomprensibile: secondo tutti i giudizi imparziali, e quindi secondo gli stessi Francesi, il vantaggio decisivo è stato riconosciuto proprio nel più ampio sapere degli ufficiali tedeschi, nel maggior grado di istruzione delle truppe tedesche, nella più scientifica condotta di guerra.

Ma in qual senso potrebbe ancora pretendere di aver vinto l “cultura” tedesca, se si volesse separare da essa l’ istruzione tedesca? In nessuno: giacché le qualità morali di più severa disciplina e di più tranquilla obbedienza non hanno niente a che fare con la formazione, e distinguevano, per esempio, gli eserciti macedoni di fronte agli eserciti greci, incomparabilmente più coltivati.  Si fa solo una confusione quando si parla della vittoria della formazione  e della “cultura” tedesche, una confusione che riposa sul fatto che in Germania il puro concetto di cultura è andato perduto.

 

Cultura è soprattutto unità di stile artistico in tutte le manifestazioni vitali di un popolo.

Ma il molto sapere e la molta erudizione non costituiscono un mezzo necessario della cultura, ne’ un segno di essa, e si conciliano all’ occorrenza, nel miglior modo, con in contrario della cultura, la barbarie, ossia la mancanza di stile o la caotica confusione di tutti gli stili.

Appunto da questa caotica confusione di tutti gli stili vive il tedesco dei nostri giorni; e rimane un serio problema come possa essergli possibile, con tutta la sua erudizione, non accorgersi di ciò e rallegrarsi per giunta di vero cuore della sua presente “cultura”.

Eppure tanto potrebbe aprirgli gli occhi: ogni sguardo al suo abbigliamento, alle sue camere, alla sua casa, ogni passeggiata per le strade della sua città, ogni sosta nei magazzini dei negozianti di moda, in mezzo ai rapporti sociali dovrebbe acquistar coscienza dell’ origine delle sue maniere e dei suoi movimenti, in mezzo ai nostri istituti d’arte e alle gioie dei concerti,  dei teatri e dei musei, dovrebbe rendersi conto del grottesco accostamento e della sovrapposizione di tutti gli stili possibili.

Il Tedesco accumula intorno a sé le forme, i colori, i prodotti e le curiosità di tutti i tempi e di tutti gli ambienti, producendo in tal modo quella moderna varietà di colori da fiera, che i suoi dotti dovranno poi per parte loro considerare e formulare come il “moderno in sé”; quanto a lui, in questo tumulto di tutti gli stili se ne rimane tranquillamente a sedere.

Ma con questa specie di “cultura”, che è comunque solo una flemmatica insensibilità per la cultura, non si possono vincere nemici, e meno di tutti quelli che abbiano, come i francesi, una loro cultura produttiva non importa di qual valore. E di cui noi abbiano finora imitato tutto, per lo più inoltre senza abilità.

Se avessimo realmente cessato di imitarli, con ciò non avremmo ancora vinto su di loro, ma soltanto ci saremmo liberati da loro: solo quando avessimo imposto a essi una cultura tedesca originale, si potrebbe parlare anche di un trionfo della cultura tedesca.

Frattanto prendiamo nota del fatto che in tutte le questioni di forma noi dipendiamo – e dobbiamo dipendere – da Parigi, ora come prima: finora infatti non c’è stata una cultura tedesca originale.

Noi tutti dovremmo sapere questo di noi stessi: lo ha inoltre rivelato anche pubblicamente uno dei pochi che avessero diritto di dirlo ai Tedeschi in tono di rimprovero.

“Noi Tedeschi siamo di ieri” disse una volta Goethe a Eckermann “se è vero che da un secolo abbiamo fatto veramente molto, ma possono trascorrere ancora un paio di secoli prima che fra i nostri connazionali penetri e divenga comune tanta intelligenza e superiore cultura, che si possa dire di loro che è passato molto tempo dacché essi erano barbari.

 

 

Torna a Filosofia

Torna alla Home page