Lo Stato Greco. 

 

Quest’ opera fa parte di un manoscritto di Nietzsche intitolato: “Cinque prefazioni per cinque libri non scritti”, che egli dedicò e regalò a Cosima Wagner in occasione del natale 1872.

Ne abbiamo sottolineato due passi fortemente contraddittori.

Per definirli un po’ meglio è stato, in seguito, pubblicato il primo paragrafo della prima scrittura delle “Considerazioni inattuali”, intitolata: “David Strauss, l’ uomo di fede e lo scrittore”, nella quale Nietzsche espone il proprio pensiero sulle conseguenze della guerra franco – prussiana, allora appena conclusa.

 

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FEDERICO  NIETZSCHE

 

LO  STATO  GRECO

 

Collezione ADELPHI,  vol. III, 2.  Milano, 1973. Versione di Giorgio Colli.

 

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Noi moderni abbiamo due concetti che mancavano ai Greci e che sono dati, per così dire, come strumenti di consolazione a un mondo che si comporta in un modo del tutto degno di schiavi, pure evitando timorosamente la parola “schiavo”: noi parliamo della “dignità dell’ uomo” e della “dignità del lavoro”. Tutti si tormentano per perpetuare miseramente una vita miserabile: questo tremendo bisogno costringe a un lavoro divorante,che l’ uomo (o meglio l’ intelletto umano) sedotto dalla “volontà”, ammira talvolta come un qualcosa pieno di dignità.

Ma perché il lavoro potesse pretendere titoli di onore, sarebbe anzitutto necessario che l’ esistenza stessa  - rispetto alla quale il lavoro è unicamente un crudele strumento – avesse più dignità en più valore di quanto sia apparso sinora alle filosofie e alle religioni intese seriamente.

Che cosa possiamo trovare, nel bisogno di lavorare di tutti i milioni di uomini, se non l’ impulso a esistere a ogni costo, quel medesimo impulso onnipotente per cui le pi8ante intristite spingono le loro radici sin nella roccia priva di terra?

Da questa orrenda lotta per l’ esistenza possono emergere soltanto gli individui che sono impegnati immediatamente dalle nobili immagini illusorie della cultura artistica, solo perché non giu7ngano al pessimismo pratico, che la natura aborrisce come sua vera negazione.

Nel mondo moderno, che per lo più, in confronto al mondo greco, produce unicamente anomalie e centauri, e in cui l’ uomo singolo è composto di pezzi eterogenei, similmente a quell’ essere favoloso di cui si parla all’ inizio della Poetica oraziana, spesso in un medesimo uomo si rivelano, al tempo stesso l’ impulso della lotta per l’ esistenza e quello del bisogno artistico: da questa fusione innaturale è sorta la necessità di giustificare quel primo impulso di fronte al bisogno artistico, e di consacrarlo. Perciò si crede nella “dignità dell’ uomo” e nella “dignità del lavoro”.

I Greci non hanno bisogno di tali allucinazioni concettuali: essi dichiarano con terribile franchezza che il lavoro è un’ onta, e una saggezza più nascosta, che parlava più raramente, ma era ovunque viva, aggiunse che anche l’ oggetto uomo è un nulla spregevole e miserabile, il “sogno di un’ ombra”.

Il lavoro è un’ onta perché l’ esistenza non ha in sé alcun valore; ma quando questa stessa esistenza risplende nella luce seducente delle illusioni artistiche e in tal modo sembra realmente avere in sé un valore, anche allora rimane valida l’ affermazione che il lavoro è un’ onta, con in più il sentimento dell’ impossibilità, per un uomo che combatta unicamente per sopravvivere, di essere un  artista.

Nell’ epoca odierna le idee generali sono fissate non già dall’ uomo che ha bisogno dell’ arte, bensì dallo schiavo, il quale, per sua natura, deve designare tutti i suoi interessi con nomi ingannevoli, per poter vivere.

Tali fantasmi, come la dignità dell’ uomo e la dignità del lavoro, sono i miseri prodotti di una schiavitù che vuole nascondersi a sé stessa Epoca infelice, in cui lo schiavo ha bisogno di tali concetti, e in cui egli è stimolato a riflettere su di sé e al di là di sé.

Disgraziati seduttori, che hanno distrutto con il frutto dell’ albero della conoscenza lo stato di innocenza dello schiavo!

Costui deve ora vivere di giorno in giorno con l’ aiuto di queste trasparenti bugie, riconoscibili da chiunque abbia uno sguardo più profondo, nei presunti “diritti uguali per tutti”, o nei cosiddetti “diritti fondamentali dell’ uomo” – dell’ uomo come tale – oppure nella dignità del lavoro.   

Costui non può neppure comprendere  a quale stadio e a quale altezza si possa incominciare in qualche modo a parlare di “dignità”; ciò può avvenire infatti quando l’ individuo va completamente oltre sé stesso, e non deve più procreare e lavorare al servizio della sua sopravvivenza individuale.

E persino a questa altezza di “lavoro” i Greci sono talvolta colti da un sentimento che assomiglia alla vergogna. Plutarco dice in una certa occasione, con un istinto della Grecia più antica, che nessun giovane di nobile nascita può avere il desiderio, quando vede lo Zeus di Pisa, di diventare lui stesso un Fidia, o di diventare lui stesso un Policleto, quando vede la Era di Argo: e altrettanto poco egli desidera di essere Anacreonte, Fileta, oppure Archiloco, per grande che sia il diletto che egli trae dalle loro poesie.

Per il Greco la creazione artistica ricade sul concetto disonorante del lavoro, allo stesso modo di ogni opera banausica. Se in lui agisce peraltro la forza coercitiva dell’ impulso artistico, egli deve allora creare, sottomettendosi a quella dura necessità del lavoro.

Il Greco aveva lo stesso sentimento che può avere il padre, il quale ammiri la bellezza e le attitudini del proprio figlio, ma pensi con un ribrezzo pieno di vergogna all’ atto della sua genesi. Il gioioso stupore di fronte al bello non ha accecato il Greco riguardo al modo in cui il bello è sorto: questo sorgere, come ogni sorgere della natura, si presenta al Greco come una violenta e impellente necessità, come un faticoso impulso verso l’ esistenza. Quello stesso sentimento con cui il processo della generazione viene considerato come qualcosa che può essere nascosto vergognosamente, sebbene attraverso esso l’ uomo serva a uno scopo più alto che non alla sua conservazione individuale, quello stesso sentimento velava altresì la nascita delle grandi opere d’ arte, nonostante che attraverso queste venga inaugurata una forma superiore di esistenza, così come da quell’ atto prende inizio la nuova generazione.

La vergogna sembra quindi intervenire là dove l’ uomo è soltanto uno strumento di fenomeni della volontà infinitamente più grandi di quanto egli possa considerare sé stesso nella figura singola dell’ individuo.

Abbiamo ora il concetto generale , sotto cui devono9 essere ordinati i sentimenti dei Greci a riguardo del lavoro e della schiavitù. Entrambi sono considerati da loro come un’ onta necessaria, di fronte a cui si prova vergogna: si tratta cioè al tempo stesso di un’ onta e di una necessità. In questo sentimento di vergogna si cela la conoscenza inconscia che il vero fine cui si tende ha bisogno  di quei presupposti, e che peraltro in quel bisogno si scopre il lato orrendo, degno di un animale feroce, della Sfinge natura, la quale nell’ esaltazione della libera vita artistica della cultura mette in mostra in modo così bello il suo corpo di vergine.

La cultura, che è soprattutto un veritiero bisogno di arte,  si appoggia su una base terribile: questa si fa riconoscere nel sentimento indefinito della vergogna.

Perché esista un terreno vasto, profondo e fertile per lo sviluppo dell’ arte, l stragrande maggioranza degli uomini dev’ essere al servizio di una minoranza, dev’ essere sottomessa – in una misura superiore alla sua miseria individuale -  alla schiavitù dei bisogni impellenti della vita.

A spese di questa maggioranza e attraverso il suo lavoro supplementare questa classe privilegiata dev’ essere sottratta alla lotta per l’ esistenza, per produrre un mondo di bisogni e per soddisfare a questi.

Conformemente a ciò dobbiamo trovarci d’ accordo nel considerare come verità    che suona crudele -  affermazione che la schiavitù rientra nell’ essenza della cultura: una verità certo che non lascia alcun dubbio sul valore assoluto dell’ esistenza. Tale verità è l’ avvoltoio che divora il fegato al fautore prometeico della cultura.

La sventura degli uomini che vivono faticosamente dev’ essere ancora aumentata, per rendere possibile a un ristretto numero di uomini olimpici la produzione del mondo dell’ arte. Qui sta la fonte della rabbia nutrita in ogni tempo dai comunisti, dai socialisti e anche dai loro più smorti discendenti, la razza pallida dei “liberali”, contro le arti, e altresì contro l’ antichità classica.

Se realmente la cultura dipendesse dal beneplacito di un popolo, se in questo campo non dominassero forze inestimabili, che per l’ individuo costituiscono una legge e una barriera, in tal caso il disprezzo della cultura, l’ esaltazione della povertà di spirito, l’ annientamento iconoclastico delle pretese artistiche sarebbero qualcosa di più che una sollevazione della massa oppressa contro individui simili ai fuchi: sarebbe allora l’ urlo della compassione a far crollare le mura della cultura, e l’ impulso verso la giustizia u verso una uguale distribuzione del dolore sommergerebbe tutte le altre idee. In realtà un livello straripante di compassione ha in certi casi, e per breve tempo, infranto tutte le dighe della vita civile; un arcobaleno di amore compassionevole  e di pace si mostrò con i primi barlumi del cristianesimo, e sotto quel segno nacque il più bel frutto di esso, il Vangelo di Giovanni.

Vi sono tuttavia anche esempi di potenti religioni che per lunghi periodi pietrificano un determinato grado di civiltà, tagliando con una falce spietata tutto ciò che vuole ancora allignare rigogliosamente.

Una cosa infatti non si deve dimenticare: quella stessa crudeltà che abbiamo scoperto nell’ essenza di ogni religione potente, e in generale nella natura della potenza, che è sempre malvagia; a questo modo noi potremo comprendere altrettanto bene, che con il grido della libertà, o per lo meno della giustizia, una cultura infrange le pretese religiose che hanno costruito un baluardo troppo alto.

Ciò che vuol vivere – ossia deve vivere -  in questa orrenda costellazione delle cose, è in fondo del suo essere un riflesso del do9lore primordiale e della contraddizione originaria, e deve perciò presentarsi  nell’ “organo conforme al mondo e alla terra” nei nostri occhi come insaziabile brama di esistere ed eterna contraddizione intima della forma del tempo,m cioè come divenire.

Ogni attimo divora il precedente, ogni nascita è la morte di infiniti esseri; procreare, vivere e uccidere sono una cosa sola. Perciò noi possiamo paragonare anche la splendida cultura a un vincitore grondante sangue, che nella sua marcia trionfale trascina come schiavi i vinti incatenati al suo carro: ma una forza benefica ha accecato questi vinti,cosicché essi, quasi schiacciati dalle ruote del carro gridano ancora “dignità dell’ uomo”, “dignità del lavoro”!

La cultura, lasciva Cleopatra, getta ancora sempre le perle più preziose nella sua aurea coppa: queste perle sono le lacrime di compassione per lo schiavo e per la sventura dello schiavo.

La terribile situazione sociale dell’ epoca presente è sorta dal rammollimento dell’ uomo moderno, non già da una vera e profonda pietà per quella sventura; e se dovesse essere vero che i Greci sono andati in rovina a causa della schiavitù, sarebbe in ogni caso assai  più certa un’ altra cosa, ossia che noi andremo in rovina a causa della mancanza della schiavitù.

Quest’ ultima non urtò in alcun modo ne’ il cristianesimo primitivo, ne’ i Germani, e tanto meno fu poi da essi considerata condannabile.

Com’è tonificante per noi la considerazione dei medioevali servi della gleba con i loro interni rapporti giuridici e consuetudinari - rigorosi e delicati -  rispetto ai superiori, con il recinto melanconico della loro ristretta esistenza: com’ è tonificante tutto ciò, e com’ è degno di rimprovero.

Chi peraltro non può riflettere senza tristezza sulla configurazione della società, chi ha imparato a intenderla come la continua e dolorosa procreazione di quei privilegiati uomini della cultura , al cui servizio deve sfinirsi tutto il resto , non sarà più ingannato da quel fittizio splendore con cui i moderni hanno avvolto l’ origine e il significato dello Stato.

Che cosa infatti significare per noi lo Stato, se non lo strumento con cui si può mettere in movimento il processo della società sopra descritto, garantendone una durata senza impedimenti? Anche ammesso che l’ impulso della sociabilità sia nei singoli uomini molto forte, è però soltanto la morsa d’ acciaio dello Stato che stringe assieme a questo modo le grandi masse, cosicché ormai quella stratificazione chimica della società, con la sua nuova struttura piramidale, dovrà procedere oltre.

Ma onde sorge questa improvvisa potenza dello Stato, il cui scopo oltre la comprensione e l’ egoismo dell’ individuo? Come è sorto lo schiavo, questa cieca talpa della cultura? I Greci ci hanno svelato la cosa con il loro istintivo diritto delle genti, il quale, anche nella più matura ricchezza del loro incivilimento e del loro senso di umanità, non cessò mai di pronunciare con bocca impassibile queste parole:

“al vincitore appartiene il vinto, con la sua donna e i suoi figli, con il suo bene e il suo sangue”.

La violenza fornisce il primo diritto, e non esiste un diritto che nel suo fondamento non sia arroganza, usurpazione e violenza

Ancora una volta vediamo qui con quale spietata durezza la natura riesca a foggiarsi il crudele strumento dello Stato, per giungere alla società, a costruire cioè quel conquistatore dalla mano ferrea, il quale non è altro se non l’ oggettivazione del suddetto istinto.

Dalla indefinibilità della grandezza e della potenza di tali conquistatori, chi considera questo problema può sentire che essi sono soltanto i mezzi per un fine, il quale trova in essi una manifestazione, e tuttavia si nasconde ai loro occhi.

E’ come se una volontà magica promanasse da loro, tanta è la misteriosa rapidità con cui le forze più deboli  si appoggiano a essi, trasformandosi mirabilmente, quando quella valanga di violenza si ingrossa improvvisamente per la magia di quel nucleo creativo, e trovando una affinità che prima non possedevano.

Se consideriamo ora quanto poco i sudditi si preoccupano di quell’ orribile origine dello Stato (cosicché in fondo non esistono specie di avvenimenti su cui la storia ci ammaestri in modo peggiore che riguardo al costruirsi di quelle usurpazioni improvvise, violente, sanguinarie e almeno in un punto inspiegabili), se piuttosto vediamo come i cuori senza volerlo si allarghino di fronte alla magia dello Stato in formazione, con il presentimento di una intenzione invisibile e profonda, nascosta là dove l’ intelletto calcolatore è in grado di scorgere un’ addizione di forze, se vediamo che oggi lo Stato viene considerato con ardore addirittura come lo scopo e il vertice dei doveri e dei sacrifici dell’ individuo, in tal caso risulta chiara da tutto ciò la terribile necessità dello Stato, senza il quale alla natura non potrebbe riuscire di giungere attraverso la società alla propria redenzione nella parvenza, nello specchio del genio.

Quante conoscenze possono essere vinte dall’ istintivo piacere che si trova di fronte allo Stato! Pure si dovrebbe pensare che un essere, il quale contempli intimamente la nascita dello Stato, cercherà in seguito la sua salvezza allontanandosi da esso con orrore: e dov’è che non si vedono i monumenti di questa nascita, campagne devastate, città distrutte, uomini resi selvaggi, odio distruttore tra popoli?

Lo Stato, di nascita infame, è per la maggior parte degli uomini una fonte ininterrotta di affanni,  e in periodi che si ripresentano frequentemente, la fiamma divoratrice della stirpe umana, ed è tuttavia un suono, sentendo il quale noi dimentichiamo noi stessi, un grido di guerra che ha infiammato a innumerevoli azioni veramente eroiche, e forse l’ oggetto più alto e più venerabile per la massa cieca ed egoistica, la quale ha sul suo volto una sorprendente espressione di grandezza soltanto nei momenti straordinari della vita dello Stato.

I Greci d’ altronde, se consideriamo l’ altezza solare e unica della loro arte, noi dobbiamo costruirli già a priori come “gli uomini politici in sé”; e in realtà la storia non conosce un altro esempio di uno scatenarsi così terribile  dell’ istinto politico, di un sacrificio così incondizionato di tutti gli altri interessi a favore di questo istinto politico. Tutt’ al più, per fare un paragone, e in base a ragioni simili, si potrebbe caratterizzare con uguale titolo gli uomini del Rinascimento italiano.

Quell’ impulso è presso i Greci così violento , da rivolgere ogni volta la propria furia contro sé stesso e da piantare i denti nella propria carne.

La sanguinosa gelosia di una città verso un’ altra città, di un partito verso un altro partito, il desiderio sfrenato e assassino di quelle piccole guerre , il trionfo degno di una tigre sul cadavere del nemico vinto, e in breve l’ incessante rinnovarsi di quelle scene troiane di lotte e di orrori, nella cui visione Omero  sta immerso gioiosamente per la sua vera natura di Greco, insomma questa ingenua barbarie dello Stato greco a che cosa alcuna, e onde mai lo Stato trae la sua giustificazione di fronte al tribunale della giustizia eterna?

Lo Stato si presente orgoglioso e tranquillo di fronte a questo tribunale, e conduce per mano una splendida donna fiorente: la società greca.

Per questa Elena esso ha condotto quelle guerre: quale giudice dalla barba bianca potrebbe mai condannarlo?

In questa misteriosa connessione, da noi presentita, tra Stato e arte, fra barbarie politica e creazione artistica, fra campi di battaglia e opera d’ arte, noi intendiamo, come si è detto, per lo Stato unicamente la ferrea morsa che soggioga il processo sociale: senza Stato, per contro, nel naturale bellum omnium contra omnes, la società in genere non può estendere le sue radici, ne’ gettarle al di là della sfera della famiglia.

Ma ora, dopo che la formazione degli Stati si è imposta generalmente, quell’ impulso del bellum omnium contra omnes si concentra di tempo in tempo nelle orribili nubi della guerra fra i popoli, e per così dire si carica, più raramente, ma con forza tanto maggiore, di tuoni e fulmini.

Nelle pause tuttavia la società -  sotto l’ azione condensata, e rivolta all’ interno, di quel bellum – ha il tempo di germogliare e di intervenire ovunque, in modo tale che appena verranno alcuni giorni più caldi, potranno sbocciare i fiori luminosi del genio.

Tenendo presente il mondo politico dei Greci, non voglio nascondere in quali fenomeni dell’ epoca presente io creda di riconoscere una pericolosa decadenza – egualmente dannosa sia per l’ arte che per la società – della sfera politica.

Se devono esistere uomini, che sono posti dalla loro nascita, per così dire, all’ di fuori dell’ istinto del popolo e dello Stato, e che quindi possono ammettere lo Stato solo in quanto lo comprendano nel loro proprio interesse, siffatti uomini si rappresentano allora necessariamente come scopo supremo dello Stato, una coesistenza tranquilla  quanto più è possibile, di grandi comunità politiche nelle quali possa essere permesso proprio a essi di perseguire senza alcuna limitazione i loro fini.

Con questa idea in mente essi favoriranno la politica che offra la massima sicurezza e queste loro finalità, ed è per contro impensabile che essi, contro le loro mire e quasi guidati da un istinto inconscio, vogliano sacrificarsi alla tendenza dello Stato: è impensabile, poiché essi mancano appunto di quell’ istinto.

Tutti gli altri cittadini dello Stato sono all’ oscuro di ciò che la natura vuol raggiungere ponendo in essi quell’ istinto politico, e seguono ciecamente; solo coloro che sono estranei a questo istinto sanno che cosa vogliono dallo Stato e che cosa lo Stato deve garantire ad essi.

E’ perciò addirittura inevitabile che tali uomini acquistino un grande influsso sullo Stato: essi infatti possono considerarlo come strumento, mentre tutti gli altri, sottomessi alla potenza di quelle ignote intenzioni dello Stato, non sono altro che strumenti essi stessi per il fine dello Stato.

Ora, per poter favorire massimamente, per il mezzo dello Stato, i suddetti fini egoistici, è soprattutto necessario che lo Stato venga completamente liberato da quelle terribili e incalcolabili convulsioni della guerra, in modo da essere utilizzato razionalmente.

I suddetti individui tendono così, quanto più coscientemente è possibile, a una situazione in cui la guerra risulti una impossibilità.

Al riguardo si tratta anzitutto di indebolire e stroncare gli impulsi politici particolari, e costituendo grandi ed equilibrati corpi statali, cui venga dato un sistema di sicurezza reciproca, si tratta di rendere massimamente inverosimile il successo di una guerra di aggressione, e quindi la guerra stessa.

I suddetti individui, d’ altro lato, cercano di strappare il problema della pace e della guerra dalle mani di singoli potenti, per appellarsi piuttosto all’ egoismo della massa o dei suoi rappresentanti: per far ciò essi hanno bisogno questa volta di distruggere lentamente gli istinti monarchici dei popoli.

Essi cercano di avvicinarsi, a questo scopo, diffondendo universalmente la visione liberale e ottimistica del mondo, la quale trae le sue radici dalle dottrine dell’ illuminismo francese e della Rivoluzione francese, cioè da una filosofia del tutto estranea alla Germania, schiettamente neolatina, piatta e antimetafisica.

 

Non posso fare a meno di vedere, nell’ odierno movimento predominante delle nazionalità e della simultanea diffusione del suffragio universale – soprattutto gli effetti di una paura della guerra; sullo sfondo di questi movimenti,  anzi,  non posso fare a meno di vedere come coloro che propriamente hanno paura siano quei solitari del denaro, veramente internazionale e senza patria, i quali, nella loro mancanza naturale dell’ istinto politico,  hanno imparato a usare malamente la politica come strumento della Borsa, e a sfruttare lo Stato e la società come apparato per il loro arricchimento.

Contro la deviazione – che si fa temere da questo lato – della tendenza dello Stato a una tendenza del denaro, l’ unico rimedio è la guerra, e ancora la guerra.

 

Nello sconvolgimento della guerra risulta almeno chiaro che lo Stato non è fondato sul timore del demone della guerra, quasi si trattasse di una istituzione per difendere individui egoistici, ma produce piuttosto, con l’ amore verso la patria e verso i prìncipi, uno slancio etico che accenna a una destinazione assai più alta.

Se perciò io considero come una caratteristica pericolosa della politica presente l’ uso dei pensieri della rivoluzione al servizio di una egoistica e apolitica aristocrazia del denaro, se io intendo al tempo stesso l’ enorme dissuasione dell’ ottimismo liberale come un risultato della moderna economia del denaro, caduta in mani particolari, e vedo tutti i mali della situazione sociale, nonché la necessaria decadenza delle arti, o come germogliati da quella radice, o come cresciuti insieme a quella, mi si dovrà in tal caso perdonare un peana, intonato occasionalmente in onore della guerra.

Terribilmente risuona il suo arco d’ argento: e anche se giunge come la notte, è tuttavia Apollo, il vero Dio che consacra e purifica lo Stato, ma anzitutto , come si dice all’ inizio dell’ Iliade, scaglia la freccia contro i muli e i cani. E tosto egli colpisce gli uomini stessi, e ovunque divampano i roghi dei cadaveri.

Dobbiamo dunque dichiarare che per lo Stato la guerra è una necessità, allo stesso modo che per la società è necessaria la schiavitù: e chi potrà mai sottrarsi a queste conoscenze, se indagherà onestamente quali siano le ragioni dell’ insuperata perfezione dell’ arte greca?

 

Chi considera la guerra e la sua possibilità in uniforme , cioè la classe dei soldati, in riferimento alla natura sinora descritta dello Stato, deve riuscire a comprendere che la guerra e la classe militare ci pongono di fronte agli occhi una immagine dello Stato, o forse addirittura l’ archetipo dello Stato.

Qui noi vediamo che l’ effetto più generale della tendenza guerriera è una immediata separazione e divisione della massa caotica in caste militari, onde si forma la costruzione della “società guerriera”. A guisa di una piramide poggiata su di una vastissima base di schiavi.

Il fine inconscio di tutto questo movimento soggioga ogni individuo, e anche rispetto a nature eterogenee produce una trasformazione, per così dire chimica,  delle loro qualità, sinché esse diventano affini a quello scopo. Nelle caste superiori si avverte già un po’ meglio di che cosa si tratti in fondo, riguardo a questo processo interno, si avverte cioè che si tratta di produrre il genio militare, da noi riconosciuto come il fondatore originario degli Stati. In molti Stati, per esempio nella costruzione spartana di Licurgo, si può avvertire chiaramente l’ impronta di quell’ idea fondamentale dello Stato, cioè della produzione del genio militare.

Se ora pensiamo lo Stato militare primitivo, nella sua vivacissima mobilità, nel suo vero “lavoro”, e se teniamo presente tutta la tecnica della guerra, non possiamo fare a meno di correggere i nostri concetti – inculcati da ogni parte – sulla “dignità dell’ uomo” e sulla “dignità del lavoro”.

A questa correzione noi giungiamo domandando se il concetto di dignità si accordi con il lavoro, che ha come scopo l’ annientamento dell’ uomo “pieno di dignità”; oppure se invece in questo compito guerriero dello Stato, tali concetti, tra loro contradditori, non si annullino a vicenda.

Io devo pensare che l’ uomo guerriero sia uno strumento del genio militare, e che il suo lavoro a sua volta sia soltanto uno strumento del medesimo genio: non già al guerriero, in quanto uomo in generale e non genio, bensì a lui in quanto strumento del genio – che può amare anche il proprio annientamento come mezzo per l’ opera d’ arte guerriera – spetta un grado di dignità, ossia la dignità di essere apprezzato come strumento del genio.

Ma ciò che mostriamo qui con un singolo esempio vale nel senso già universale: ogni uomo, con tutta la sua attività acquista una dignità solo in quanto sia,  coscientemente o incoscientemente, uno strumento del genio; onde si può dedurre senz’ altro la conclusione etica che “l’ uomo in sé”, l’ uomo in assoluto, non possiede ne’ dignità, ne’ diritti, ne’ doveri: solo come essere pienamente determinato, al servizio di scopi ignoti, l’ uomo può giustificare la propria esistenza.

In base a queste considerazioni, lo Stato perfetto di Platone ha senza dubbio una grandezza maggiore di quanto credano i più accreditati dei suoi ammiratori, senza parlare poi del sorriso di superiorità con cui le persone  di cultura “storica” sanno rifiutare un tale frutto dell’ antichità.

Il vero Scopo dello Stato, ossia l’ esistenza olimpica e la generazione e la preparazione sempre rinnovate del genio, in confronto al quale tutto il resto non è altro che uno strumento, un impiego e una facilitazione,  è provato qui mediante una intuizione poetica e viene descritto con aspro vigore.

Platone guardò dentro l’ Erma terribilmente devastata della vita politica del suo tempo, e nel suo interno vide ancora qualcosa di divino. Egli credette di poter estrarre questa immagine divina e pensò che anche il lato esterno, dall’ aspetto feroce e barbaricamente contraffatto, non appartenesse all’ essenza dello Stato: tutto lo slancio e tutta la sublimità della sua passione politica si attaccarono a quella fede, a quel desiderio, ed egli si consumò in quell’ ardore.

Che nel suo Stato perfetto egli non abbia posto al vertice il genio nel suo concetto universale, ma unicamente il genio della sapienza e della conoscenza, che dal suo Stato egli abbia invece escluso in generale gli artisti geniali, tutto questo era una rigida conseguenza del giudizio socratico sull’ arte, che Platone lottando contro sé stesso aveva fatto proprio.

Questa lacuna esteriore e quasi casuale non può impedirci di riconoscere nella concezione complessiva dello Stato platonico, il germogliare mirabilmente grandioso di una dottrina segreta - dal suo significato profondo, che dovrà sempre venire interpretato – sul collegamento tra Stato e genio.

Ciò che di questo scritto segreto abbiamo creduto di indovinare, l’ abbiamo detto in questa prefazione

 

 

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