Prima Edizione. Aprile 2012
Libreria Universitaria
Webster srl
35010 Limena
PD
In questo scritto non si è cercata la conclusione scettica, e nemmeno
quella ideologica, nel senso che non si è accettato di concludere:
Nietzsche è tutto, e il contrario di tutto, e quindi uguale a zero; così
come non si è accettato di affermare: Nietzsche è qualcosa di nostro.
In sostanza Nietzsche rimane pur sempre “un qualcosa di suo”, un
personaggio assai interessante se lo si indaga per il cammino da lui
percorso, se lo si studia per tirocinio, soprattutto alla luce della
propria esperienza naturalistica e della sua discendenza
schopenhauriana.
In breve, risolto l’ uomo, resta il suo continente di pensiero, o
meglio, il fondo della cultura attraverso la quale il suo universo si è
prodotto. Questo fondo è certamente originale e, non solo meritevole di
essere investigato, ma certo capace di profondità e futuro.
A corredo del nostro libretto e ad ulteriore chiarimento della figura
del filosofo Nietzsche “per sé” proponiamo in questa directory una serie
di scritture nietzscheane tratte tutte dalla “Collezione Adelphi”
Edizione italiana diretta da G. Colli e M. Montinari 1973, col sussidio
di indispensabili succinte
note biografiche, e qualche breve commento, quando non se ne potrà fare
e meno.
Enrico Orlandini, Osimo, 10 maggio 2012.
A giustificazione della impostazione gnoseologica riguardante
il libro qui esposto, iniziamo la pubblicazione
di una serie di significativi scritti di Nietzsche su temi di suo
proprio interesse, casualmente riguardanti le
visioni del mondo che
preoccupavano il suo, ed ora il
nostro secolo.
Si può presumere che il
lavoro sarà lungo, anche in considerazione delle nostre condizioni di
salute, e forse ne avremo per più di un anno, ma ci auguriamo che,
almeno alla fine, esso risulterà proficuo
e serva di ausilio e di complessivo chiarimento.
Intanto, quale posizione vogliamo sostenere? Intendo, complessivamente,
nel nostro sito.
La cultura del mondo attuale, molto di più della cultura del mondo
classico (presocratico) è
caratterizzata dalla massima sperequazione morale e intellettuale,
ovvero dalla massima distanza fra un’ etica sociale
- immobilizzata
da svariati millenni -
ed una scienza tecnologica ormai “sfuggita di mano”, tanto da
essere diventata troppo pericolosa, non per demerito di sé stessa, ma
proprio per l’ assenza di una guida morale
capace di caratterizzare
il nostro
tempo, e la cui
pericolosità è proprio
data dalla mancanza di libertà che caratterizza i popoli “liberi”,
limitati a loro volta dalle “religioni”, dalle “ideologie”, dalle stesse
“culture liberali”, morte
queste ultime proprio a
causa delle
libertà che si sono prese, soprattutto
in economia, specie
riguardo alla “concorrenza fra Stati”, che adesso, dopo la istituzione
della “Europa dei popoli” è diventata concorrenza fra Stati liberali.
(Si veda nel nostro
Facebook il file “Ottocento” riguardante Fourier).
Tutte queste “religioni”,
“ideologie” “usurpazioni del liberalismo” presuppongono un antivalore
comune: per le prime due, l’ obbligo teorico di
fare “terra bruciata” di tutte le culture che non rappresentino
particolarmente esse stesse;
per l’ ultima, la istituzione di una “allucinazione di libertà”,
spacciata come politica
noumenica dello Stato liberale e causata proprio dalla presunta
“obbligatorietà” della sua economia.
Da Nietzsche l’ antivalore comune venne
individuato nella “morte di Dio”, conseguenza metafisica, ma
logica e spontanea del nostro vivere civile e politico, esistente almeno
a partire dal terzo secolo a.C., antivalore che, a nostro parere,
coinvolge le
religioni in primis.
Nella scrittura qui presentata (e nelle due successive) Nietzsche
analizzerà la cultura delle scuole tedesche, da immediatamente
dopo la vittoria militare prussiana del 1870 – 71
sulla potenza francese.
Per questioni cronologiche egli non poté tener conto dello impegno
compiuto dallo Stato prussiano, mirato,
all’ inizio del ventesimo secolo, ad ottenere la traduzione completa di
tutti gli scrittori classici, greci
e latini, che fu eseguita, grosso modo, proprio, e subito dopo, gli anni
della sua morte civile. Chiunque in Italia, ancora oggi,
traduca dal greco,
deve rifarsi (se vuole ottenere
confronti entro un quadro d’ insieme) alle grandi opere di raccolta
rispondenti ai nomi di W. Burkert, H Diels, W. Kranz, R. Mondolfo,
Wilamowitz-Moellendorff, E. Zeller, ed altri.
Nietzsche, pur essendo, accademicamente, un filologo, non ebbe parte in
tali lavori, e forse mai,
specie all’ inizio della propria carriera, nemmeno comprese
perfettamente, come dimostra
il suo contrasto con il Wilamowitz, dal quale a propria volta non fu
capito. Cosa comprensibile
se si pensa che uno aveva la testa alla filologia, l’ altro alla
filosofia.
Nella prima parte della quarta conferenza Nietzsche sembra preoccuparsi
di salvare il valore delle scuole tecniche,
già allora, come oggi, sottostimate rispetto al liceo.
Tornando alla terza
conferenza, sembra che qui
Nietzsche rimproveri alla scuola di non saper coltivare il genio,
che pure esiste e si sviluppa liberamente in potenza
nella società, ma che la scuola stessa, salvo rare occasioni,
non è capace di guidare, se non
soltanto, forse, inconsapevolmente.
Normalmente, è
la società stessa a crearli e contemporaneamente a farne
dei sofferenti, così
come, ad esempio è accaduto per Dante Alighieri,
Spinoza,
Martin Lutero, e tutti gli altri, noti e non noti.
Nella prossima lettura (Lo Stato Greco),
Nietzsche è vittima di una contraddizione interessante, nella
quale alcuni hanno visto una manipolazione, intorno alla quale non siamo
in grado di dare un parere.
___________________
La terza conferenza “Sull’ avvenire delle nostre Scuole” fu
tenuta da Nietzsche,
giovanissimo professore, davanti al Corpo Docente dell’
Università di Basilea il 27 febbraio 1872.
Le considerazioni critiche in essa contenute
riguardano tuttavia le scuole prussiane quali lui le aveva conosciute a
Pforta, e successivamente.
Qui Nietzsche ha 28 anni ed è stato da poco insignito di una cattedra in
Filologia.
Le conferenze, programmate per
essere sei, divennero in
seguito cinque. Già dalle prime
Nietzsche vi aveva introdotto un racconto (parzialmente verace) nel
quale comparivano due personaggi d’ invenzione: un filosofo e un suo
giovane acompagnatore. Per i
biografi, lui stesso e Socrate, oppure lui stesso e Schopenhauer.
Collezione ADELPHI, vol.
III, 2. Milano, 1973.
Versione di Giorgio Colli.
FEDERICO NIETZSCHE
“Sull’ avvenire delle nostre
scuole”.
Terza conferenza
Illustri presenti!
Nel punto in cui l’ ultima volta lasciai
il mio racconto una
pausa lunga e grave aveva interrotto la conversazione, da me udita tempo
addietro e i cui elementi essenziali,
che si sono fortemente impressi nella mia memoria, tento qui di
tracciare di fronte a voi.
Il filosofo e il suo accompagnatore stavano seduti immersi in un cupo
silenzio (1). Sull’ anima di entrambi gravava la singolare situazione di
angustia – discussa poco prima – della scuola più importante, il liceo,
come un peso che l’ individuo bene intenzionato è troppo debole per
poter eliminare, e che la massa non è abbastanza bene intenzionata per
eliminare.
Soprattutto due cose turbavano i nostri pensatori solitari: da un lato
il comprendere chiaramente come ciò che avrebbe il diritto di chiamare
“cultura classica” non sia oggi altro se non un ideale culturale
fluttuante e inconsistente, che non è in grado di crescere sul terreno
dei nostri apparati educativi, e l’ altro il comprendere come ciò che
oggi viene designato, con un eufemismo corrente
e indiscusso, come “cultura classica” abbia semplicemente il
valore di una pretenziosa illusione, il cui effetto più notevole è la
circostanza che l’ espressione stessa “cultura classica” continua pur
sempre a sussistere e non ha ancora perduto il suo tono patetico.
Quei due uomini onesti, riferendosi poi all’ insegnamento del tedesco,
erano giunti fra loro a chiarire che il vero punto di partenza per una
cultura superiore, che poggi sui pilastri dell’ antichità, non è stato
ancora trovato: l’ imbarbarimento dell’ istruzione linguistica, l’
intrusione di tendenze erudite e storiche in luogo di una disciplina e
consuetudine pratica, la connessione di certi esercizi richiesti nei
licei con lo spirito pericoloso del nostro ambiente giornalistico, tutti
questi fenomeni, avvertibili nell’ insegnamento del tedesco, avevano
dato ad essi la certezza che le forze più salutari provenienti dall’
antichità classica non siano neppure presentite nei nostri licei,
intendo dire quelle forze che preparano a combattere contro la barbarie
del presente e che forse trasformeranno un giorno i licei in arsenali e
officine di questa lotta.
A essi sembrava che lo spirito dell’ antichità fosse ormai destinato a
essere sistematicamente scacciato dalle soglie del liceo, e che anche
qui si volesse aprire quanto più possibile le porte a quell’ ente male
avvezzato dalle adulazioni, che è la presente “cultura tedesca del
giorno d’ oggi”. E se c’ era ancora una speranza per i nostri solitari
interlocutori, questa era che le cose dovessero
andare anche peggio, che ben presto dovesse risultare
sfacciatamente chiaro per molti ciò che fino allora era stato avvertito
da pochi, e che non dovesse essere lontana l’ epoca delle persone oneste
e decise, anche riguardo alla sfera seria della educazione del popolo.
“Tanto più tenacemente” aveva detto il filosofo “dobbiamo tenerci
attaccati allo spirito tedesco, che si è manifestato nella Riforma
tedesca e nella musica tedesca, e che ha dimostrato – con lo
straordinario coraggio e rigore della filosofia tedesca, e con la
fedeltà del soldato tedesco, sperimentata negli ultimi tempi – quella
forza resistente, ostile a ogni apparenza, da cui possiamo attendere
ancora una vittoria sulla pseudo cultura dell’ “epoca attuale.
Noi speriamo in una attività futura della scuola, che consista di far
partecipare alla suddetta lotta la vera scuola della cultura, e,
soprattutto al liceo, nell’ infiammare la nuove generazione, che viene
su ora, per ciò che è ve3ramente tedesco: in tale scuola anche la
cosiddetta “cultura classica” finirà di nuovo per avere il suo terreno
naturale e il suo unico punto di partenza.
Un vero rinnovamento e una vera purificazione del liceo sorgeranno
soltanto da un rinnovamento e da una purificazione dello spirito, che
siano profondi e possenti.
Il legame che avvince realmente la più intima natura tedesca al genio
greco, è qualcosa di assai misterioso e difficilmente afferrabile.
Tuttavia, sintanto che il nobile bisogno del vero spirito tedesco non
cercherà di afferrare la mano di questo genio greco, come solido
appoggio nel fiume della barbarie, sintanto che da questo spirito
tedesco non proromperà una struggente nostalgia per i Greci, sintanto
che la visione in lontananza – faticosamente conquistata – della patria
greca, cvisione che ha rallegrato Schiller e Goethe,
non sarà diventata la meta del pellegrinaggio degli uomini
migliori e più dotati, sino allora il fine della cultura classica del
liceo continuerà senza posa a svolazzare qua e là nell’ aria, e per lo
meno non saranno da biasimare coloro che, sia pure con spirito ristretto
vogliono introdurre nel liceo la scientificità e l’ erudizione, per
tener presente uno scopo vero, solido e pur sempre ideale, e per salvare
i loro scolari dalle tentazioni di quel luccicante fantasma che si fa
chiamare oggi “civiltà” e “cultura”.
Dopo qualche tempo di silenziosa riflessione, l’ accompagnatore si
rivolse al filosofo e gli disse:
“Lei ha voluto darmi delle speranze, maestro, ma ha anche accresciuto la
mia comprensione, e quindi le mie forze, il mio coraggio. In realtà io
ghuardo ora più arditamente il campo di battaglia, e già disapprovo la
mia fuga troppo rapida. Cero non vogliamo nulla per noi: non dobbiamo
preoccuparci di sapere quanti individui cadranno in questa lotta, ne’
dobbiamo darci pensiero di cadere eventualmente noi stessi fra i primi.
E’ appunto perché noi prendiamo la cosa sul serio, che noi dovremmo
prendere tanto sul serio la nostra povera individualità: nell’ istante
in cui cadiamo , un altro senza dubbio afferrerà la bandiera, nelle cui
insegne noi crediamo.
Non voglio neppure domandarmi se sono abbastanza forte per una tale
lotta, se resterò a lungo; dovrà essere comunque una morte onorevole, il
cadere fra le risate di scherno dei nemici, la cui serietà tanto spesso
ci è sembrata qualcosa di ridicolo.
Se penso al modo in cui i miei coetanei si sono preparati alla mia
stessa missione, alla missione suprema dell’ insegnante, mi convinco
allora che quasi sempre abbiamo riso proprio di cose opposte, e abbiamo
preso sul serio le cose più differenti … “
“Amico mio” lo interruppe ridendo il filosofo “tu parli come uno che
voglia saltare in acqua senza saper nuotare, e nel far ciò, più ancora
ce di annegare, tema di non annegare e di essere deriso. L’ essere
deriso è l’ ultima cosa che noi dobbiamo temere: qui infatti siamo in un
campo dove esistono così tante verità da dire – verità terribili,
tormentose, imperdonabili – che contro di noi non mancherà certo l’ odio
più schietto. In certe occasioni sarà soltanto il furore a suggerire un
sorriso imbarazzato. Non hai che da pensare alle sterminate schiere dei
professori, che con la migliore buona fede hanno preso in consegna il
precedente sistema educativo, per continuare ad applicarlo di buon
animo, e senza alcun serio dubbio: come credi che costoro la
prenderanno, sentendo parlare dei progetti da cui essi si sono esclusi e
per di più beneficio naturae,
di esigenze che superano di molto le loro capacità mediocri, di speranze
che in essi rimangono senza eco, di lotte il cui grido si guerra non
comprendono nemmeno, e in cui essi intervengono soltanto come massa
sorda, recalcitrante, plumbea? Tale peraltro, senza esagerazione, dovrà
ben essere l’ inevitabile posizione della massima parte degli insegnanti
delle scuole superiori: anzi, se si considera in che modo per lo più
sorgono oggi siffatti insegnanti, e in che modo
divengono insegnanti di una
cultura superiore, non ci sii stupirà neppur più della suddetta
posizione.
Al giorno d’ oggi, quasi ovunque esiste un nu7mero così esagerato di
scuole superiori, che si ha continuamente bisogno di un numero di
insegnanti infinitamente maggiore di quello che la natura di un popolo,
anche di doti notevoli, è in grado di produrre.
Giunge così in queste scuole una quantità strabocchevole di
incompetenti, i quali, con la loro prevalenza numerica e con l’ istinto
del similis simili gaudet
determinano gradualmente lo spirito di tali scuole.
Si tengano pure lontani senza alcuna speranza dalle questioni
pedagogiche, coloro i quali pensano che la palese abbondanza
- consistente nel numero -
dei nostri licei e dei nostri insegnanti possa trasformarsi,
mediante una qualche legge o una qualche norma, in una vera abbondanza,
in una
ubertas ingeni, senza che
quel numero venga diminuito.
Su di un punto invece dobbiamo trovarci d’ accordo, sul fatto
cioè che la natura come tale destina a un vero sviluppo culturale solo
un numero estremamente piccolo di uomini, e che per promuovere
felicemente lo sviluppo di costoro è sufficiente anche un numero assai
ristretto di scuole superiori, mentre nelle odierne scuole, destinate a
vaste masse, devono sentirsi favoriti meno di tutti proprio coloro, per
cui tutto sommato l’ istituire qualcosa di simile può avere un senso.
Lo stesso vale altresì riguardo agli insegnanti. Proprio i migliori,
coloro che in generale, secondo un criterio superiore, sono degni di
questo nome onorifico, sono forse i meno adatti, nello stato attuale del
liceo, a educare questa gioventù non scelta, accozzata alla rinfusa, e
piuttosto nascondere a essa, in un certo modo, quanto di meglio
potrebbero dare.
La stragrande maggioranza degli insegnanti, per contro, si sente a posto
di fronte a queste scuole, poiché le sue doti stanno in un certo
rapporto armonico rispetto al basso livello ed all’ insufficienza di
tali scolari.
Questa maggioranza richiede rumorosamente e insistentemente di fondare
nuovi licei e nuovi istituti superiori: viviamo in un’ epoca che con
queste continue richieste, le quali risuonano come un ritmo assordante,
suscita senza dubbio l’impressione che oggi uno smisurato bisogno di
cultura cerchi affannosamente di venir soddisfatto. Ma è proprio questa
l’ occasione in cui occorre sapere intendere bene, in cui bisogna
guardare in faccia – senza farsi turbare dall’ effetto roboante delle
parole culturali - coloro
ce parlano così instancabilmente del bisogno culturale della loro epoca.
Si sperimenterà allora una strana delusione, quella cosa che noi, mio
buon amico, abbiamo sperimentato così spesso: d’ un tratto quegli
squillanti araldi del bisogno culturale, si trasformeranno, se li
guarderemo seriamente da vicino, in ardenti – anzi fanatici – avversari
della vera cultura, cioè di quella che aderisce alla natura
aristocratica dello spirito.
In fondo costoro pensano difatti che il loro scopo consiste nell’
emancipare le masse dal dominio dei grandi individui, e in fondo essi
tendono a rovesciare l’ ordinamento più sacro del regno dell’
intelletto, ossia la soggezione della massa, la sua obbedienza
sottomessa, il suo istinto di fedeltà nel servire sotto lo scettro del
genio.
Da lungo tempo mi sono abituato a considerare con circospezione tutti
colo che parlano ardentemente a favore della cosiddetta “formazione del
popolo”, come è intesa comunemente. Per lo più, infatti, coscientemente
o incoscientemente, essi vogliono conquistarsi, negli epidemici
Saturnali della barbarie, nella sfrenata libertà che non sarà mai
concessa loro dal sacro ordine della natura: essi sono nati per servire,
per obbedire, e in ogni istante in cui si agitano i loro pensieri
striscianti,o zoppicanti, o con le ali rattrappite, conferma di quale
creta la natura li abbia formati e quale marchio di fabbrica essa abbia
impresso su tale creta.
Quindi il nostro scopo non può esser4e la cultura della massa, bensì la
cultura dei singoli, di uomini scelti, equipaggiati per opere grandi e
durature: noi sappiamo ormai che una posterità equa giudicherà il
complessivo stato culturale di un popolo unicamente in base ai grandi
eroi di un’ epoca, che procedono solitari, e darà il suo voto secondo
che tali eroi sono stati ricono9sciuti, , aiutati, onorati, oppure
segregati, maltrattati, annientati.
A ciò che si chiama “formazione del popolo” si può provvedere
direttamente, ma in modo del tutto esteriore e rudimentale, per esempio
ottenendo per tutti l’ istruzione elementare.
Le vere regioni più profonde, in cui la grande massa<viene a contatto
con la cultura, dove cioè il popolo coltiva i suoi istinti religiosi,
dove continua a trarre poesia dalle sue immagini mistiche, dove si
mantiene fedele ai suoi costumi, al suo diritto, Al suo suolo patrio,
alla sua lingua, tutte queste regioni sono difficilmente raggiungibili
per via diretta, e in ogni caso ciò è possibile solo attraverso violenze
e distruzioni: promuovere veramente la formazione del popolo in queste
cose serie significa appunto limitarsi a tener lontane queste violenze e
queste distruzioni, a mantenere quella salutare incoscienza, quella
placidità del popolo, che costituiscono il contrapposto e il rimedio
senza cui la cultura, con la divorante tensione ed esasperazione dei
suoi effetti, non potrebbe sussistere.
Ma noi sappiamo quale è la mira di coloro che vogliono interrompere quel
sano e salutare sonno del popolo, che gli gridano continuamente:
“Svegliati, sii cosciente, sii avveduto”. Noi sappiamo a che cosa mirano
coloro che pretendono di soddisfare un potente bisogno di formazione,
accrescendo straordinariamente tutte le scuole e producendo in tal modo
una classe di insegnanti con la coscienza della loro posizione.
Sono proprio costoro – e proprio con questi mezzi – ce combattono contro
la gerarchia naturale del regno dell’ intelletto; sono proprio costoro
che distruggono le radici di quelle supreme e più nobili forze
formative, sgorganti dall’ incoscienza del popolo, le quali trovano la
loro destinazione materna nel generare il genio, e poi nell’ educarlo
rettamente e nel prendersi cura di lui.
Solo servendoci di questo paragone della madre, noi potremo comprendere
quanto sia importante e doverosa, nei confronti del genio, la vera
formazione di un popolo.
Propriamente, il genio non sorge da ubna tale formazione: egli a, per
così dire, unicamente una origine metafisica, una patria metafisica. Ma
il suo apparire, il suo emergere da un popolo, il fatto ce egli
rappresenti quasi l’ immagine riflessa, il cupo giuoco cromatico di
tutte le forze peculiari di questo popolo, il fatto che egli riveli la
destinazione suprema di un popolo attraverso la natura simbolica di un
individuo e attraverso un’ opera eterna, ricollegando così il suo stesso
popolo all’ eternità, e liberandolo dalla sfera mutevole di ciò che è
momentaneo, tutto ciò il genio può farlo solo quando sia maturato e
nutrito nel grembo materno della cultura di un popolo.
Senza questa patria, che possa difenderlo e riscaldarlo, egli non
riuscirà invece a spiegare le ali per il suo volo eterno, e tristemente
dovrà andarsene per tempo – come uno straniero sospinto in una
solitudine invernale – lontano da quella terra inospitale”.
“Maestro” disse a questo punto l’ accompagnatore. “Lei mi sbalordisce
con questa metafisica del genio, e solo vagamente riesco ad avvertire la
pertinenza di questi paragoni. Comprendo invece pienamente quanto lei ha
detto riguardo al numero eccessivo dei licei, e al conseguente numero
eccessivo di insegnanti superiori. Proprio in questo campo ho raccolto
esperienze le quali mi confermano che la tendenza educativa del liceo
deve addirittura conformarsi
all’ enorme maggioranza di questi insegnanti. In fondo costoro non hanno
nulla a che fare con la cultura, e soltanto perché si aveva bisogno di
loro, essi hanno scelto questa strada, facendo valere le loro pretese.
Tutti gli uomini che in un folgorante momento di illuminazione sono
giunti a convincersi della singolarità e della inavvicinabilità dell’
antico mondo greco, e con lotte penose hanno difeso di fronte a sé
stessi tale convinzione, tutti costoro, ripeto,
sanno che l’ accesso a tali illuminazioni non sarà mai aperto a
molte persone, e considerano come un comportamento assurdo, anzi
indegno, l’ occuparsi dei Greci – come se si trattasse di un quotidiano
strumento artigianale – per motivi professionali e allo scopo di
guadagnare il pane, e il toccare queste reliquie con mani di artigiano,
senza alcun rispetto.
E’ proprio nella classe onde viene tratta la maggior parte dei
professori liceali, ossia nella classe dei filologi, questo modo di
sentire rozzo e irrispettoso è la regola: per tale motivo la
propagazione e la trasmissione di un simile modo di sentire non dovrà
neppure stupire.
Non si ha che da guardare la nuova generazione di filologi: è ben raro
osservare in essi quel sentimento di vergogna per cui noi, di fronte a
un mondo quale è il greco,
non abbiamo neppure il diritto di esistere; quella giovane covata, per
contro, costruisce con la massima indifferenza e sfrontatezza i suoi
nidi sui templi più grandiosi. Da ogni angolo bisognerebbe che una voce
possente si rivolgesse agli infiniti individui, che sin dai loro anni
universitari si aggirano compiaciuti di sé, senza alcun rispetto, tra le
meravigliose rovine di quel mondo:
“Via di qui voi che non siete iniziati, e mai lo sarete, fuggite in
silenzio da questo santuario, muti e vergognosi”.
Ma questa voce risonerebbe invano, poiché, anche soltanto per poter
comprendere una maledizione e un anatema greco, si deve già possedere in
una certa misura la natura greca.
Quelli invece sono così barbarici, che si installano comodamente, com’ è
loro consuetudine, fra queste rovine: essi portano con sé tutte le ,loro
comodità e le loro manie moderne, nascondendo poi tutto ciò dietro
antiche colonne e antichi monumenti funebri. In seguito si levano alte
grida di giubilo, nel ritrovare in quell’ ambiente antico ciò che in
precedenza vi era stato introdotto astutamente.
Può accadere che uno di questi filologi scriva versi, sapendo consultare
il lessico di Eschilo: senz’ altro costui si convincerà di essere
destinato a continuare la poesia di Eschilo, e troverà anche dei fedeli,
i quali sosterranno che egli – il ladrone che scrive poesie – sia
“congeniale” a Eschilo.
Un altro invece, con l’
occhio sospettoso di un poliziotto, va cercando tutte le contraddizioni
- e anche l’ ombra delle contraddizioni – di sui si sia reso colpevole
Omero: egli sciupa la sua vita strappando e ricucendo insieme brandelli
omerici, che in precedenza ha rubato, togliendoli a un abito splendido.
Un terzo si trova a disagio di fro9nte agli aspetti misterici e
orgiastici dell’ antichità: egli si decide una volta per tutte ad
ammettere soltanto l’ illuminato Apollo, considerando l’ Ateniese come
un individuo apollineo, sereno e assennato, ma un po’ immorale. Come
respira profondamente costui quando riesce a riportare un angolo buio
dell’ antichità sino all’ altezza del suo proprio illuminismo, scoprendo
per esempio nel vecchio Pitagora un onesto collega, che ha le sue stesse
convinzioni politiche e illuministiche!
Un altro ancora si domanda tormentosamente perché Edipo sia stato
condannato da destino a compiere azioni tanto scellerate, a dover
uccidere il padre e sposare la madre. Ma di chi è la colpa? D’ un tratto
egli arriva a scoprirlo: Edipo è stato, a dire il vero, un individuo
passionale, assolutamente privo di mansuetudine cristiana; quando
Tiresia lo chiama il mostro e la maledizione della sua terra, egli si
infuria addirittura, in modo del tutto sconveniente.
“Siate mansueti!” – forse era questo l’ insegnamento di Sofocle -
“altrimenti sposerete vostra madre e ucciderete vostro padre”.
Altri ancora per tutta la vita fanno calcoli sui versi dei poeti greci e
romani, rallegrandosi della proporzione 7 : 13 = 14 : 26. Vi sono infine
coloro che promettono di risolvere una questione come quella omerica,
prendendo lo spunto dalle preposizioni, e credono di tirare su la verità
dal pozzo, servendosi di “anà” e3 di “katà”. Tutti poi, secondo le più
diverse tendenze, scavano e frugano il terreno greco con una tale
irrequietezza, con una tale imperizia sgraziata, che un serio amico
dell’ antichità deve davvero impersierirsene.
Vorrei dunque prendere per mano qualsiasi uomo<- dotato e non dotato –
che faccia presagire una certa inclinazione professionale per l’
antichità, e vorrei rivolgermi a lui con la seguente perorazione: “Sai
quali pericoli ti minacciano, giovane uomo, che ti metti in viaggio con
un modesto bagaglio di conoscenze scolastiche? Hai sentito che secondo
il parere di Aristotele l’ essere schiacciati da una statua è una morte
non tragica? Eppure ti minaccia proprio questa morte. Ti stupisci?
Sappi dunque che da secoli i filologi si adoperano – ma finora
con forze insufficienti – per raddrizzare di nuovo la statua dell’
antichità greca, caduta in terra e qui sprofondata: si tratta infatti di
un colosso su cui questi uomini, simili a nani, cercano di arrampicarsi.
Enormi sforzi riuniti, e tutte le leve della cultura moderna si
applicano a questo scopo: ogni volta la statua, appena sollevata da
terra, ricade indietro, e precipitando frantuma gli uomini che le stanno
sotto.
Tutto ciò potrebbe anche venir tollerato, poiché ogni essere deve perire
per qualche causa: ma chi può garantire che questi tentativi non
finiscano per mandare in pezzi anche la statua?
I filologi periscono a causa dei Greci – di questo ci si potrebbe
consolare – ma l’ antichità stessa va in pezzi per opera dei filologi!
Rifletti su ciò, giovane sventato, e ritorna indietro se non sei un
iconoclasta”.
“In realtà” – disse il filosofo ridendo – “esistono oggi numerosi
filologi che sono ritornati indietro, come tu desideri, e io avverto un
grande contrasto rispetto alle esperienze della mia gioventù.
Un gran numero di costoro, coscientemente o incoscientemente, giunge
alla convinzione ce il contatto diretto con la civiltà classica sia per
essi inutile, ne’ apra alcuna prospettiva: per tale ragione questo
studio è considerato dalla maggior parte degli stessi filologi come
sterile, superato, degno di epigoni.
Con slancio tanto maggiore questa schiera si è gettata nella
linguistica: qui, in una estensione infinita di terreno coltivabile,
smosso di fresco, dove al giorno d’ oggi si possono ancora applicare in
modo redditizio le doti più modeste, e dove una certa assennatezza viene
già considerata come segno di un talento positivo, data la novità e l’
incertezza dei metodi e il continuo pericolo di travisamenti fantastici,
qui, dove un lavoro ordinario e organico costituisce la cosa più
desiderabile, qui, insomma, chi si avvicina non è sorpreso da quella
maestosa voce che risuona dal mondo in rovina dell’ antichità,
respingendo chiunque.
Qui qualcuno è ancora accolto a braccia aperte, e anche colui che di
fronte a Sofocle e ad Aristofane non è mai riuscito a ricevere una
impressione insolita, ad avere un pensiero decente, viene posto con un
certo successo al telaio dell’ etimologia, o viene invitato a
raccogliere residui di dialetti remoti, e trascorrere così i suoi
giorni, collegando e separando, raccogliendo e disperdendo,
correndo qua e là, e consultando
libri.
Ma un linguista impiegato così utilmente deve fare altresì l’
insegnante! In tal caso, conformemente ai suoi obblighi, e per il bene
della gioventù liceale, egli deve sapere insegnare qualcosa riguardo
agli autori antichi, che non hanno lasciato in lui ne’ impressioni, ne’
tanto meno conoscenze.
Quale imbarazzo! L’ Antichità non gli dice nulla, e di conseguenza egli
non ha nulla da dire riguardo all’ antichità. Ma d’ un tratto tutto gli
si chiarisce. A quale scopo è un linguista? Perché quegli autori hanno
scritto in greco e in latino? Egli comincia senz’ altro e gioco9ndamente
da Omero, ricercando etimologie, e prendendo in aiuto il lituano, oppure
lo slavo ecclesiastico, ma soprattutto il sacro sanscrito, come se le
ore stabilite per l’ insegnamento del greco non fossero altro che un
pretesto per fornire una introduzione generale allo studio del
linguaggio, e come se l’ unico sbaglio di principio commesso da Omero
fosse stato di non aver scritto in indogermanico primitivo.
Chi conosce gli odierni licei saprà pure in quale misura i suoi
insegnanti si siano estraniati dalla tendenza classica, e in quale
misura il senso di questa mancanza abbia appunto determinato una
siffatta prevalenza di lavori eruditi riguardo alla linguistica
comparata”.
“Io ritengo tuttavia, disse l’ accompagnatore, che l’ essenziale, per
chi vuole avviare alla cultura classica, consista proprio nel non
scambiare i Greci e i Romani con altri popoli, con i popoli barbarici, e
nel fatto che per lui il greco e il latino non potranno mai essere
lingue da porre accanto ad altre lingue.
Per la sua tendenza classica deve essere indifferente che l’ ossatura di
queste lingue coincida con quella di altre lingue, o le sia affine: le
coincidenze non devono importargli affatto. Egli deve realmente
prendersi a cuore – in quanto vuole avviare alla cultura e vuole
rimodellare sé stesso in base al sublime archetipo del mondo classico –
proprio ciò che non è comune, proprio ciò che fa considerare quei popoli
come non barbari e li fa porre al di sopra di tutti gli altri popoli”.
“E vorrei ingannarmi” disse il filosofo “ma ho il sospetto, che con il
modo in cui oggi si insegna il latino e il greco nei licei, debba andar
perduto proprio il possesso della lingua, il facile dominio su du essa,
che si esprime nel parlare e nello scrivere, ossia qualcosa per cui si
di8stingueva la mia generazione, che certo ormai è troppo invecchiata e
si è assottigliata parecchio.
Gli insegnanti attuali, per contro, mi sembrano trattare i loro scolari
con un metodo così genetico e così storico, che in definitiva verranno
fuori da tutto ciò, nel migliore dei casi, piccoli studiosi di
sanscrito, o altri brillanti diavoletti in cerca di etimologie, o altri
scapestrati inventori di congetture, senza tuttavia che nessuno di
costoro sia in grado di leggere per proprio piacere, come facciamo noi
vecchi, il suo Platone, o il suo Tacito.
I licei possono dunque essere anche ora dei luoghi ove si semina l’
erudizione, non però quella erudizione che è unicamente l’ effetto
collaterale - naturale e
involontario – di una cultura rivolta ai più nobili fini, ma piuttosto
quella erudizione che si potrebbe paragonare all’ ingrossamento
ipertrofico di un corpo non sano.
I licei sono i luoghi ove si trapianta questa pinguedine erudita, quando
non siamo degenerati al punto da diventare le palestre di quell’
elegante barbarie che suole pavoneggiarsi sotto il nome di
cultura tecnica dell’ epoca
odierna”.
“Ma dove dovranno fuggire” riprese l’ accompagnatore “quei poveri e
numerosi insegnanti, cui la natura non ha concesso la dote che permetta
di giungere u una vera cultura, e che piuttosto hanno la pretesa di
atteggiarsi a insegnanti che avviano verso la cultura, solo perché
spinti da un bisogno, per guadagnarsi in pane e perché il numero
eccessivo di scuole ha bisogno di un numero eccessi8vo di insegnanti?
Dove dovranno fuggire se l’ antichità li respinge perentoriamente? Non
dovranno forse cadere vittime di quelle potenze dell’ epoca presente,
che si rivolgono a essi ogni giorno dagli organi di stampa, instancabili
nel loro richiamo: Noi siamo la
civiltà, Noi siamo la cultura, Noi siamo sulla vetta! Noi siamo al
vertice della piramide, noi siamo lo scopo della storia del mondo,
quando essi ascoltano le promesse seduttrici, quando di fronte a
essi i segni più abbietti dell’ inciviltà, il pubblico ambiente plebeo
dei cosiddetti “interessi culturali” del giornalismo, vengono decantati
come il fondamento della forma più nuova, più alta e più matura della
cultura?
Dove potranno fuggire questi poveri individui quando presentiranno anche
solo vagamente che tali promesse sono del tutto menzognere? Essi non
potranno rifugiarsi se non nella più ottusa, nella più micrologica e
arida scientificità, solo per non ascoltare più quell’ instancabile
strillare a favore della cultura.
Perseguitati a questo modo, non finiranno forse per nascondere, come
struzzi, il loro capo in un mucchio di sabbia? Non è forse per essi una
vera fortuna il poter trascorrere una vita da formiche, sepolti in mezzo
a dialetti, a etimologie e a congetture, e poter rimanere, almeno con
gli orecchi turati, chiusi i sé e sordi alle voci dell’ elegante civiltà
del nostro tempo, anche se mille miglia lontani dalla vera cultura?”
“Hai ragione amico mio” -
disse il filosofo – “Ma ci sarà davvero quella ferrea necessità che
debba esistere un numero eccessivo di scuole di cultura, e che risulti,
per conseguenza altresì inevitabile un numero eccessivo di insegnanti,
quando invece noi riconosciamo chiaramente che la richiesta di questo
numero eccedente proviene da una sfera ostile alla cultura, e che kle
conseguenze di tale eccedenza saranno di vantaggio soltanto per la
mancanza di cultura?
In realtà si può parlare di una siffatta necessità ferrea solo in quanto
lo Stato moderno è abituato a intervenire in tali questioni, e suole
avanzare le sue richieste facendo nel contempo tintinnare la propria
armatura: questo fenomeno, senza dubbio, impressiona i più, proprio come
se a essi si rivolgesse una eterna e ferrea necessità, la legge
primordiale delle cose.
D’ altronde uno Stato culturale
come si dice oggi, che avanzi tali pretese, costituisce un fenomeno
recente, e solo nell’ ultimo mezzo secolo è diventato qualcosa
che si intende da sé, in un
periodo cioè al quale – per usare ancora questa espressione favorita –
accadono moltissime cose che si
intendono da sé, ma che in sé stesse, se vogliamo dire la verità,
non si comprendono affatto immediatamente.
Proprio il più forte Stato moderno, la Prussia, ha preso tanto sul serio
questo diritto a mantenere una suprema tutela della cultura e della
scuola, che questo pericoloso principio così assunto, data la baldanza
che caratterizza quello Stato, acquista un significato universalmente
minaccioso, e pericoloso per il vero spirito tedesco. Da questo
lato,infatti, troviamo sistematizzata in modo formale la tendenza a
sollevare il liceo sino alla cosiddetta
altezza del nostro tempo; in
Prussia sono in auge tutti i congegni che servono a spronare verso una
educazione liceale il numero più grande possibile di scolari; qui lo
Stato ha addirittura applicato il suo mezzo più potente, cioè la
concessione di certi privilegi in riferimento al servizio militare, con
il risultato che, secondo l’ imparziale testimonianza di funzionari
statistici, sono proprio e soltanto questi accorgimenti a poter spiegare
la completa saturazione di tutti i licei prussiani, e l’ impellente e
continuo bisogno di nuove scuole.
Che cosa può fare di più lo Stato a favore di un numero strabocchevole
di scuole, oltre a stabilire una stretta relazione del liceo con tutti i
posti più alti della classe dei funzionari, nonché con la massima parte
di quelli inferiori, con l’ accesso all’ università, anzi, con i più
autorevoli privilegi militari, e tutto ciò in un paese dove tanto il
servizio militare obbligatorio per tutti, approvato con il completo
favore popolare, quanto la più sfrenata ambizione politica dei
funzionari spingono inconsciamente in questa direzione tutti gli
individui dotati?
In Prussia il liceo è considerato anzitutto come una specie di grado
onorifico, e tutti quelli che sentono un impulso a entrare nella sfera
del governo seguiranno la strada del liceo. Questo è un fenomeno nuovo,
e in ogni caso, originale: lo Stato si mostra come mistagogo della
cultura, e mentre mira ai suoi fini, esso costringe tutti i suoi
servitori a comparirgli di fronte con la fiaccola delle universale
cultura di Stato nelle mani: alla luce inquieta di questa fiaccola, essi
devono nuovamente riconoscerlo come lo scopo supremo , come ciò che
ricompensa tutti i loro sforzi culturali.
Quest’ ultimo fenomeno però dovrebbe renderli perplessi, dovrebbe
ricordare loro per esempio quella tendenza affine, compresa poco a poco,
di una fi8losofia tempo addietro favorita dallo Stato e mirante a
promuovere i fini dello Stato, ossia la tendenza della filosofia
hegeliana; anzi, non sarebbe forse esagerato sostenere che la Prussia,
subordinando tutti gli sforzi culturali ai fini dello Stato, si è
appropriata con successo della parte in cui l’ eredità della filosofia
hegeliana è praticamente utilizzabile: l’ apoteosi dello Stato, per
opera di quella filosofia, raggiunge senza dubbio il suo vertice in
questa subordinazione.”.
“Ma che mira può avere lo Stato” – le chiese l’ accompagnatore – “nel
sostenere una tendenza così inquietante?
Che si tratti di mire politiche, risulta già dal fatto che altri Stati
ammirano, considerano ponderatamente e qua e là imitano tale ordinamento
scolastico della Prussia.
Questi altri Stati suppongono evidentemente che ciò giovi alla stabilità
e alla forza di uno Stato, similmente a quanto avviene per quella famosa
coscrizione generale, divenuta popolarissima.
Quando si vede che tutti portano periodicamente e con orgoglio l’
uniforme militare, quando si vede che quasi tutti hanno ricevuto nei
licei una livellata cultura di Stato, si può allora parlare con
esagerazione quasi di un ordinamento degno dell’ antichità, di una
onnipotenza dello Stato raggiunta soltanto nell’ antichità, e sostenere
che quasi tutti i giovani sono sollecitati dall’ istinto e dalla
educazione a sentire un tale
Stato come il vertice e lo scopo supremo dell’ esistenza umana”.
“Questo paragone” – disse il filosofo -
“sarebbe senza dubbio esagerato, e zoppicherebbe da tutte due le
gambe. In effetti, lo Stato antico è rimasto lontanissimo proprio da
questa mira utilitaria, che consiste nell’ ammettere la cultura, solo in
quanto giovi direttamente allo Stato e, nell’ annientare gli impulsi che
non si rivelino senz’ altro utilizzabili ai suoi fini.
L’ animo profondo del Greci nutriva per lo Stato quel forte sentimento –
quasi scandaloso per l’ uomo moderno – di ammirazione e di riconoscenza,
proprio perché riconosceva che senza una siffatta istituzione, la quale
provvede ai bisogni e alla difesa, non può svilupparsi nessun germe di
cultura, e sapeva che l’ intera cultura greca – inimitabile e unica in
tutto il corso del tempo – è cresciuta così rigogliosa proprio sotto la
protezione accurata e saggia delle istituzioni politiche destinate ai
bisogni e alla difesa.
Lo Stato non era per la sua cultura un guardiano di frontiera, un
regolatore, un soprintendente, bensì un compagno di viaggio, un camerata
solido, muscoloso, equipaggiato per combattere, che accompagnava
attraverso rudi realtà l’ amico più nobile, quasi divino, raccogliendo
in cambio la sua ammirazione e la sua riconoscenza.
Per contro, quando lo Stato moderno pretende una tale gratitudine
entusiastica, ciò non avviene certo perché esso sia cosciente di essersi
adoprato cavallerescamente a favore della più alta cultura e della più
alta arte tedesca: sotto questo aspetto,infatti, il suo passato è tanto
vergognoso quanto il suo presente, se si pensa al modo in cui viene
solennizzata, nelle più
importanti città tedesche, la memoria dei nostri grandi poeti e artisti,
e al modo in cui sono stati appoggiati da questo Stato i più alti
progetti artistici di tali maestri tedeschi.
Ci troviamo dunque di fronte a circostanze particolari, sia riguardo
alla tendenza statale che favorisce in ogni modo ciò che si vuol
chiamare cultura, sia
riguardo a una siffatta cultura favorita, che si sottomette a questa
tendenza statale. Tale tendenza si trova in guerra – dichiarata o no -
con il vero spirito tedesco e con una cultura che possa
derivarne, simile a quella che ti ho disegnato, amico mio, con tratti
esitanti: lo spirito della cultura, che è benefico per quella tendenza
statale, e da essa è sostenuto con una partecipazione così attiva (è a
causa di tale spirito che essa fa ammirare all’ estero il proprio
ordinamento scolastico), deve quindi provenire da una sfera che non ha
alcun punto di contatto con il vero spirito tedesco, ossia con lo
spirito che ci parla così meravigliosamente dell’ intima essenza della
riforma tedesca, della musica tedesca, della filosofia tedesca, e che,
come un nobile esule, è considerato con tanta indifferenza e con tanta
insolenza da quella cultura lussureggiante per ispirazione statale.
Esso è uno straniero che si allontana in solitaria mestizia, mentre
viene agitato il turibolo dinanzi a quella pseudocultura che tra le
acclamazioni dei giornalisti
colti ha usurpato il nome e la dignità del vero spirito tedesco, e
giuoca in modo abbietto con la parola
tedesco.
Perché lo Stato ha bisogno di quel numero esorbitante di scuole e di
insegnanti? A quale scopo questa cultura popolare, e questo illuminismo
popolare diffusi così ampiamente? Perché il genuino spirito tedesco è
odiato, perché si teme la natura aristocratica della vera cultura,
perché propagando e alimentando le pretese culturali nella moltitudine
si vogliono spingere i grandi individui a cercare un esilio volontario,
perché si cerca di sfuggire alla severa e dura disciplina delle grandi
guide, facendo credere alla massa che essa troverà da sola la strada,
sotto la guida dello Stato, vera stella polare!
Ecco un fenomeno nuovo! Lo Stato in quanto stella polare della cultura!
C’è una cosa, tuttavia, che mi consola: questo spirito tedesco, che è
combattuto fino a questo punto, che è stato sostituito da un vicario
carico di decorazioni variopinte, questo spirito – dico – è coraggioso:
lottando esso riuscirà a salvarsi, aprendosi la strada verso un epoca
più pura, e conserverà, nobile come è, e vittorioso come sarà, un certo
senso di compassione per lo Stato, scusandolo per la sua alleanza con
una tale pseudocultura, poiché la situazione dello Stato era
estremamente penosa e imbarazzante.
Difatti, chi può avere un’ idea, in definitiva, di quanto sia difficile
il compito di governare gli uomini, cioè di conservare la legge, l’
ordine,la tranquillità e la pace fra molti milioni di individui
appartenenti a una stirpe che nella grande maggioranza è smodata,
egoistica, ingiusta, irragionevole, disonesta, invidiosa, malvagia, e
per di più assai limitata e balzana, e inoltre di difendere
continuamente, contro cupidi vicini e insidiosi briganti, quei possessi
che lo Stato è riuscito ad acquistare?
Uno Stato in condizioni così tristi si attacca a qualsiasi alleato: e
quando un alleato di offre spontaneamente, con frasi pompose, quando
costui, come ha fatto per esempio Hegel, lo chiama
organismo etico assolutamente
compiuto, e stabilisce come compito della cultura, che ciascuno
trovi il luogo e la situazione in cui possa servire nel modo più utile
lo Stato, in tal caso chi avrà il diritto di meravigliarsi, se lo Stato
salta senz’ altro al collo di un tale alleato spontaneo, salutando con
piena convinzione e con la sua profonda voce barbarica:
Ecco! Tu sei la cultura, tu sei la civiltà.
_______________
INIZIO QUARTA CONFERENZA
Illustri ascoltatori! Dopo che avete fedelmente seguito sin qui il mio
racconto, ed insieme abbiamo ascoltato sino alla fine quel colloquio
solitario, appartato, qua e là offensivo, tra il filosofo e il suo
accompagnatore. Posso sperare ormai che abbiate voglia, come valenti
nuotatori, di superare altresì la seconda metà della nostra rotta, tanto
più che io posso promettervi, che nel piccolo teatro di marionette di
questa mia esperienza si mostreranno adesso alcuni altri burattini, e
soprattutto, nel caso in cui abbiate resistito sin qui, che le onde del
racconto dovranno ora portarvi più facilmente e più rapidamente sino
alla fine.
In realtà siamo giunti ormai a una svolta; tanto più consigliabile sarà
quindi accertarci ancora una volta, con un rapido sguardo retrospettivo,
dei risultati che pensiamo aver raggiunto attraverso quella
conversazione così varia.
“Rimani al tuo posto” – così il filosofo si era rivolto al suo
accompagnatore – “poiché puoi nutrire delle speranze. Risulta infatti
sempre più chiaro che noi non abbiamo istituti di cultura, ma che
dobbiamo averli.
I nostri licei, predestinati per loro natura a questo scopo elevato, o
sono diventati luoghi in cui si coltiva una pericolosa cultura, la quale
respinge con profondo odio l’ e3ducazione vera, ossia aristocratica,
fondata su una saggia scelta degli ingegni, oppure allevano una
erudizione micrologica e arida, che in ogni caso rimane lontana dall’
educazione,m e il cui pregio consiste forse
nel tappare almeno occhi e
orecchi contro le tentazioni
di quella equivoca cultura”.
Il filosofo aveva attirato l’ attenzione del suo accompagnatore
soprattutto sulla singolare degenerazione che dev’ essere entrata sin
nell’ intimo di una cultura, se lo Stato può credere di dominare quest’
ultima, se attraverso tale cultura esso può raggiungere fini politici,
se questo Stato può combattere, alleato ad essa, contro altre forze
ostili e al tempo stesso co9ntro lo spirito che il filosofo aveva osato
chiamare veracemente tedesco”.
Questo spirito, legato ai Greci dal più nobile dei bisogni, sperimentato
come tenace e coraggioso in un difficile passato,
puro e sublime nei suoi fini, reso capace dalla sua arte di
affrontare il suo compito, cioè di liberare l’ uomo moderno dalla
maledizione della modernità, questo spirito – dico – è condannato a
vivere in disperte, allontanato dall’ eredità che gli spetta: ma in
quanto la sua voce lamentevole e oppressa risuona attraverso i deserti
del presente, allora si atterrisce la carovana culturale – rigurgitante
e carica di fronzoli variopinti – di questa nostra epoca.
Noi dobbiamo incutere, non soltanto meraviglia, ma terrore: tale era l’
opinione del filosofo.
Non dobbiamo fuggire impauriti, ma attaccare:tale era il suo consiglio.
Ma soprattutto egli esortava il suo accompagnatore a non preoccuparsi e
a non riflettere troppo riguardo alla singola persona da cui,
per un istinto superiore, sgorga
quell’ avversione contro l’ odierna barbarie.
“Costui potrà anche andare in rovina : il dio pitico non si sentiva
imbarazzato a trovare un nuovo tripode, ouna seconda Pizia, sintanto che
dalle profondità conti8nuava a uscire il fumo mistico.”.
E ancora una volta il filosofo levò la sua voce: “State bene attenti,
amici miei, non dovete confondere due cose diverse. Per vivere, per
combattere la sua lotta contro l’ esistenza, l’ uomo deve imparare
moltissimo, ma tutto ciò
che a questo scopo egli impara e fa come individuo, non ha nulla a che
vedere con la cultura.
Questa, al contrario, comincia soltanto a un livello che è situato ben
più in alto di quel mondo dei bisogni, della lotta per l’ esistenza,
della miseria.
Il problema sta ora nel vedere in quale misura l’ uomo valuti la propria
esistenza soggettiva di fronte a quella degli altri, in quale misura
egli consumi le proprie forze per quella lotta individuale della vita.
Parecchi, limitando stoicamente i loro bisogni, si eleveranno assai
presto e facilmente in una sfera ove potranno dimenticare la propria
soggettività, scuotendosela, per così dire, di dosso. In modo da godere
di una eterna gioventù in un sistema solare di interessi estranei al
tempo e alla propria persona.
Altri invece estendono così ampiamente l’ azione e i bisogni della
propria soggettività, ed edificano in proporzioni così stupefacenti il
mausoleo di tale soggettività, che si direbbero in grado di superare in
battaglia il loro terribile avversario, il tempo.
Anche in questo impulso si rivela un desiderio di immortalità: ricchezza
e potenza, accortezza, presenza di spirito, eloquenza,
una fiorente reputazione, un nome importante,
tutto ciò costituisce unicamente il mezzo con cui l’ insaziabile
volontà personale di vivere tende a una nuova vita, con cui
cioè anela a una eternità, in definitiva illusoria.
Ma neppure in questa forma più alta di soggettività, neppure nel bisogno
massimamente potenziato di un siffatto individuo più vasto, per così
dire collettivo non si trova
ancora un contatto con la vera cultura: e se partendo da una tale
prospettiva,per esempio si tende all’ arte, sono allora presi in
considerazione i suoi effetti dispersivi o stimolanti, quelli cioè che
l’ arte pura e sublime non sa affatto suscitare, e che competono invece
precipuamente a un’ arte degradata e contaminata.
Uno che si comporti così, infatti, per quanto sublime possa forse
sembrare allo spettatore, non si libererà mai, in tutta la sua attività,
dalla sua bramosa e inquieta soggettività.
Quell’ etereo spazio luminoso della contemplazione non soggettiva fugge
dinanzi a lui, e perciò egli dovrà vivere eternamente lontano dalla vera
cultura, bandito da essa, nonostante impari, viaggi e accumuli.
La vera cultura disdegna infatti contaminarsi con un individuo bisognoso
e pieno di desideri: essa sa sgusciare accortamente dalle mani di colui
che vorrebbe impossessarsi della cultura come di un mezzo per i suoi
fini egoistici. E quando qualcuno crede di averla afferrata, per
ricavarne in qualche modo un guadagno, e sfruttandola placare i bisogni
della sua vita, essa allora corre via subitamente, a passi
impercettibili e con atteggiamento di disdegno.
Di conseguenza, amici miei, non scambiate questa cultura, questa dea
eterea, raffinata, dal piede leggero, con quell’ utile domestica, che
talvolta viene anche chiamata la
cultura, ma non è altro se non la serva e la consigliera
intellettuale delle necessità della vita, del guadagno e della miseria.
L’ educazione, peraltro, che faccia intravvedere alla fine del suo corso
un impiego o un guadagno materiale, non è affatto una educazione in
vista di quella cultura che noi intendiamo, ma semplicemente una
indicazione delle strade che si possono percorrere per salvare e
difendere la propria persona, nella lotta per l’ esistenza.
Tale indicazione, senza dubbio, ha u ba importanza massima e immediata
per la grande maggioranza degli uomini: quanto più difficile è la lotta,
tanto più il giovane deve imparare e tanto più deve tendere le proprie
forze.
Nessuno però deve credere che gli istituti, i quali lo spronano a questa
lotta e lo rendono capace di combattere, possano in qualche modo essere
considerati seriamente come istituti di cultura. Si tratta di
istituzioni che si propongono di vincere le necessità della vita; esse
possono dunque promettere di formare impiegati, o commercianti, o
ufficiali, o grossisti, o agricoltori, o medici, o tecnici. A tali
istituzioni, in ogni caso, si applicano però leggi e criteri diversi da
quelli occorrenti per fondare un istituto di cultura; ciò che nel primo
caso è permesso, anzi prescritto in modo rigorosissimo, potrebbe essere
nel secondo caso un errore delittuoso.
Vi fornirò un esempio, amici miei.
Se volete guidare un giovane sulla strada della cultura, guardatevi bene
dal turbare il suo atteggiamento ingenuo, pieno di fiducia verso la
natura; si tratta quasi di un immenso rapporto personale.
A lui dovranno parlare, nelle loro diverse lingue, la foresta e la
roccia, la tempesta, l’ avvoltoio, il singolo fiore, la farfalla, il
prato, i dirupi montani; egli dovrà in certo modo riconoscersi in tutto
ciò, in queste immagini e in questi riflessi, dispersi e innumerevoli,
in questo tumulto variopinto di apparenze mutevoli: sentirà allora
inconsciamente, attraverso il grande simbolo della natura, l’ unità
metafisica di tutte le cose, e al tempo stesso si acquieterà, ispirato
dall’ eterna permanenza e necessità della natura.
Ma quanti sono i giovani cui può essere concesso di crescere vicino alla
natura, in un rapporto quasi personale con essa? Gli altri devono
imparare per tempo un'altra
verità, ossia come si può soggiogare la natura.
Qui si mette da parte quell’ ingenua metafisica: la fisiologia delle
piante e degli animali, la geologia, la chimica inorganica costringono
gli scolari a considerare la natura in un modo totalmente mutato.
Ciò che è andato perduto attraverso questa considerazione nuova e
imposta, non è certo una fantasmagoria poetica, bensì la comprensione
istintiva, vera e incomparabile della natura; al suo posto è intervenuto
ora un atteggiamento accorto, calcolatore, che cerca di abbindolare la
natura.
Così, a chi è veramente colto
viene concesso il bene inestimabile di poter rimanere fedele, senza
alcuna trasgressione, agli istinti contemplativi della fanciullezza ,
giungendo in tal modo a una tranquillità, a una unità, a una coerenza e
a una armonia, di cui un uomo educato alla lotta per la vita non potrà
neppure avere il presentimento.
Non crediate però, amici miei, che io voglia lesinare le lodi alle
nostre vecchie scuole tecniche e alle scuole primarie superiori:
rispetto i luoghi in cui si impara correttamente l’ aritmetica, ci si
impadronisce delle lingue moderne, si prende sul serio la geografia e ci
si arma delle stupefacenti conoscenze della scienza naturale.
Sono anche pronto ad ammettere che gli scolari preparati nelle migliori
scuole tecniche dei nostri tempi sono pienamente autorizzati a far
valere gli stessi diritti che spettano di solito ai licenziati del
liceo, e certamente non è ormai lontano il giorno in cui si apriranno a
siffatti scolari le porte dell’ università e degli impieghi statali, con
la stessa larghezza di cui hanno beneficiato sinora soltanto gli alunni
del liceo: beninteso, gli alunni dell’ odierno liceo!
Non ho potuto fare a meno di aggiungere quest’ ultima frase dolorosa: se
è vero che la scuola tecnica e il liceo sono in complesso pressoché
concordi nei loro scopi attuali, distinguendosi tra loro per elementi
così tenui, da poter contare su una piena uguaglianza di diritti di
fronte al foro dello Stato, ci manca però completamente una specie di
istituti educativi: la specie degli istituti di cultura.
Questo non è certo un rimprovero per le scuole tecniche, che hanno
seguito sinora, tanto felicemente quanto onorevolmente, tendenze assai
più modeste, ma estremamente necessarie; molto meno onorevolmente vanno
però le cose nella sfera del liceo, e anche meno felicemente; qui
infatti si trova ancora un certo sentimento istintivo di vergogna, una
certa coscienza oscura che l’intera istituzione è vilmente degradata, e
che le risonanti parole educative di accorti e apologetici insegnanti
contrastano con la realtà barbarica, desolata e sterile.
Non esiste dunque nessun istituto di cultura!
E là dove si simulano ancora i suoi atteggiamenti, si è senza speranze,
emaciati e scontenti, più che non tra gli armenti del cosiddetto
“realismo”.
Del resto osservate, amici miei, a che punto di rozzezza e di mancanza
di istruzione si sia giunti nell’ ambiente degli insegnanti,
dal momento che si è potuto fraintendere il rigoroso termine
filosofico reale, o
realismo,
in tale misura da fiutare dietro di esso l’ antitesi tra materia
e spirito, e da interpretare il realismo come la tendenza a conoscere,
configurare, dominare il reale.
Da parte mia conosco una sola antitesi vera, quella tra istituti per la
cultura e istituti per i bisogni della vita.
Alla seconda specie appartengono tutti gli istituti presenti; la prima
specie è invece quella di cui sto parlando.
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