PER NON DIMENTICARE

 "Itinerario Fiumano 1938-1949"

10  febbraio  2015

MARIO  DASSOVICH: 

Appunti  fiumani

raccolti a cura di Rodolfo Decleva

  

 

Icilio Bacci Mario Blasich Riccardo Gigante Nevio Skull Giuseppe Tosi

 

Mario Dassovich cominciò la sua attività di storico verso la fine degli anni ''60.

Scrisse qualche articolo sul suo arresto e relativi motivi anche sulla "Voce di Fiume"; allora ai primi numeri.

Ma già nel 1952 la Rivista"Fiume" di Roma aveva pubblicato una quarantina di pagine di quello che nel 1970

cominciava ad essere il contenuto dello storico "Itinerario Fiumano".

Successivamente nel 1975 il Libro, finito,  uscì come Supplemento della stessa Rivista "Fiume"

a cura di una Tipografia di Pomezia vicino a Roma.

 

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Nel volume "Itinerario Fiumano 1938-1949", Mario Dassovich, storico fiumano - che pago' come molti altri

con il carcere titino la sua reazione al nostro ingiusto destino - racconta quei tempi della pulizia etnica con rara obiettività.

Per tramandare la nostra storia ai più giovani e per dare una risposta a quanti si chiedono il perchè del nostro Esodo,

ho copiato - rispettando la più rigorosa fedeltà alle sue parole - alcuni passi di quel volume storico.

Ma ricordiamoci che di Dassovich ce ne furono tanti tra i Fiumani perseguitati, arrestati, spariti o infoibati.

Nessuno di loro aveva tirato una bomba, commesso un attentato o ferito uno jugoslavo.

 

Rudi Decleva    Marzo 2007

 

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1) L'inizio della fine  ANAGRAFE MUNICIPALE   (estratto da Pag. 90)

 

I primi anni del secolo ventesimo parvero confermare le prospettive di una vita difficile per la municipalità fiumana, ma tutto sembrò destinato a risolversi nel migliore dei modi nei giorni della dissoluzione dell’Impero austro-ungarico, quando il Governatore ungherese cedette i propri poteri al Podestà; si costituì così una Guardia civica e sorse un Comitato cittadino che diventò poi “Consiglio Nazionale italiano di Fiume”.

E il Podestà, il 29 Ottobre di quel 1918, diffuse un appello che annunciava il trionfo della libertà e la vittoria della democrazia. Dal canto suo subito dopo il Consiglio Nazionale proclamò l’unione di Fiume all’Italia, dichiarando di mettere il proprio “deciso” sotto la protezione dell’America, madre di Libertà e della Democrazia universale.

A Zagabria, però, nello stesso periodo veniva

 proclamata la costituzione di uno Stato Indipendente

formato dalla Dalmazia e dalla Croazia-Slavonia con

Fiume. 

E nella nostra città l’intervento dei soldati di una formazione asburgica – il reggimento Jelacic’ – favorì l’insediamento dei rappresentanti di Zagabria nel Palazzo del Governatore per una ventina di giorni fino all’arrivo delle truppe italiane e di un reparto americano, nonché successivamente di soldati inglesi e francesi.

Ci vollero altri cinque anni per tornare alla normalità: si succedettero così l’intervento dei legionari dannunziani, l’elezione di un nuovo Consiglio comunale, la costituzione di una Stato indipendente proclamato “Reggenza italiana del Carnaro”, la capitolazione delle milizie legionarie, l’elezione della Costituente di uno Stato Libero fiumano, un

assedio del Palazzo del Governo in cui era arroccato il Capo dello Stato Libero Riccardo Zanella, la formazione di un Governo Provvisorio, il conferimento del potere, quale Governatore, ad un Generale del Regio Esercito.

Finchè  - con un Trattato del 1924 – la Jugoslavia accettò l’annessione di Fiume all’Italia.

 

2. L ' 8 Settembre 1943 RITORNO DALLA CROAZIA  (estratto da Pag. 100)

 

L’annuncio dell’armistizio fu diffuso verso sera dalla radio.

Osservammo con curiosità  - in quelle ore di attesa di

importanti avvenimenti – un aereo che il 10 Settembre sorvolò per breve tempo Fiume  e Sussak, lanciando a

 varie riprese manifestini sulla nostra città e con molta fatica riuscimmo a inpossessarci di uno di quei pezzi di carta, che era scritto in croato.

Boris Ruzic ci aiutò più tardi: si parlava di Spalato, Sebenico, Zara e Fiume  come di tanti pugnali avvelenati nel corpo della grande madre croata.

Tutte queste città stavano per essere riunite allo Stato sorto a Zagabria nella primavera del 1941.

Che la Dalmazia fosse perduta pareva confermato dal continuo passaggio di truppe da Sussak a Fiume: gli ufficiali superiori sembravano scomparsi, i soldati attraversavano il ponte sull’Eneo stanchi, sfiniti, coperti di polvere come se avessero dovuto compiere lunghe distanze a piedi.

Parecchi giungevano disarmati. L’iniziativa di pretendere la consegna di fucili, giberne e munizioni era venuta per lo più dai giovani e dai ragazzi dei paesi croati a Est di Fiume e fra i nostri reparti, ormai allo sbando, non c’era stata resistenza contro quelle richieste.

Oltre l’Eneo si venivano ricostituendo così – con gli armamenti abbandonati dalle nostre truppe – le formazioni dei ribelli. La guerriglia dei Balcani, che non era stata sommersa da due anni di “rastrellamenti”, stava trasformandosi nell’insurrezione di intere regioni e il momento della rivincita sembrava giunto anche per le popolazioni dei territori confinanti con  la nostra città.

. . . . . Dove si erano fermate le truppe tedesche? Fu questa la domanda che ci sentimmo rivolgere più volte il pomeriggio del 14 Settembre 1943.

Il mattino seguente una serie di esplosioni ed una prolungata sparatoria  annunciarono l’inizio dei combattimenti fra le truppe regolari tedesche e i ribelli jugoslavi.

Alcuni aerei tedeschi con il contrassegno della croce nera bombardarono vari centri di resistenza tra Sussak e Tersatto; un paio di cannoni, piazzati dal Comando germanico nella parte alta della nostra città, spararono ripetutamente sugli edifici situati oltre l’Eneo. Al pomeriggio gli scontri si erano conclusi con l’occupazione tedesca della zona costiera a oriente di Fiume.

Parecchi reparti del  nostro Esercito avevano previsto il peggio sin dall’arrivo degli ex alleati e si erano rifugiati sulle colline circostanti la città: partendo da quelle posizioni cominciarono ad attaccare le truppe di occupazione allorchè ebbero inizio gli interventi repressivi decisi dal Comando tedesco.

Contro quei drappelli il Comando tedesco cominciò ad utilizzare alcuni plotoni di Camicie Nere,  ricostituiti da alcuni giorni. Prima di essere avviati verso Mattuglie, i Militi percorsero inquadrati le vie del centro; un ufficiale intonò un canto del repertorio del ventennio e un po’ in sordina  si udì la replica dei Militi.

Tra i volontari in Camicia nera riconoscemmo un compagno di scuola, Luciano Bubbola, che ci fece un cenno di saluto e abbozzò un sorriso; non lo rivedemmo più ma ritrovammo ad un certo momento il suo nome in un lungo elenco di “dispersi”.

All’inizio di ottobre si cominciò a pensare che eravamo diventati retrovia di un fronte ormai molto  distante dalla città.

 

3) Adriatisches Küstenland ORDINANZE PER IL KÜSTENLAND  (estratto da Pag. 108)

 

Timori ed apprensioni cominciarono quindi a prender consistenza soltanto all’apparire delle prime Ordinanze delle nuove Autorità militari.

Furono aggravate le disposizioni sul coprifuoco, in vigore dalle 20 alle 6, e furono revocati tutti i permessi di circolazione  di autovetture di qualsiasi tipo,  e così pure la circolazione di biciclette fuori dai confini periferici della città e fu imposto il lasciapassare per i transiti diretti verso alcune località suburbane.

La pena capitale era prevista, tra l’altro, per attentati alla vita degli appartenenti alle Forze Armate tedesche e ai posti di servizio tedeschi, atti di violenza contro le Forze Armate tedesche ed i loro impianti e stabilimenti, casi gravi di attività ostile al Reich e suo favoreggiamento, sabotaggi economici, accaparramenti o commercio clandestino.

In determinate circostanze si prevedeva invece l’internamento in altre località, l’invio in campi di concentramento senza alcuna inchiesta, il trasferimento in Germania per prestare ivi servizio, o più genericamente, nella traduzione italiana, le più tremende sanzioni.

Verso la metà di ottobre del 1943 si pensò che certe imposizioni dei Comandi militari tedeschi fossero destinate ad essere mitigate con l’instaurazione di un Supremo Commissariato per la Zona di operazioni “Litorale Adriatico”: ai poteri del Gauleiter Friedrich Rainer erano sottoposti tutte le Autorità e Uffici pubblici di questo Adriatisches Kustenland, che comprendeva le Provincie di Fiume, Pola, Trieste, Udine, Gorizia, Lubiana nonché i territori incorporati di Sussak, Castua, Buccari, Ciabar e Veglia.

Per Fiume fu decisa all’inizio di novembre la nomina di un nuovo Prefetto nella persona di Alessandro Spalatin, Consigliere della locale Corte d’Appello, e di un Vice Prefetto, l’avvocato Fran Spehar di Sussak; mentre il Prof. Gino Sirola, già Preside dell’Istituto Tecnico “Leonardo da Vinci”, fu confermato nell’incarico di Podestà del nostro Comune.

Successivamente al Gauleiter Rainer fu assegnato il supremo potere giudiziario, compresa ogni decisione sulle domande di grazia,  e fu costituita una Corte speciale per la Pubblica Sicurezza contro la quale non erano ammessi gli ordinari mezzi di impugnazione.

 

4) Le Lire barchette CAMBI VALUTARI    (estratto da Pag. 219)

 

Le Lire jugoslave di occupazione scomparvero dalla circolazione verso la fine del 1946; erano state emesse un anno prima dalla “Gospodarska Banka za Istru, Rijeku i Slovensko Primorje” e venivano soprannominate per lo più “barchette” per il disegno di una barca a vela che appariva sui biglietti di piccolo taglio.

In un primo tempo erano state quotate clandestinamente circa il venti percento in meno alle Lire italiane, e più tardi si allinearono ancora su valori più bassi.

Erano stati i rappresentanti ufficiali del “Comitato popolare cittadino” – Pietro Klausberger e Leopoldo Boscarol – a rendere noto il testo dell’Ordinanza emanata “per ragioni di contingenti necessità”.

La carta moneta sarebbe stata cambiata dal 28 al 30 dicembre ’46  “al corso di 30 dinari per cento Lire”, ma ogni famiglia non avrebbe potuto ricevere in contanti più di cinquemila dinari.

Per i depositi eccedenti sarebbe stata consegnata al capofamiglia una ricevuta provvisoria.

Un’altra innovazione interessò la vecchia municipalizzata cittadina A.S.P.M. che fu sciolta col 1° gennaio ’47 facendola diventare una “filiale” di una nuova Azienda Elettrica per l’Istria, Fiume e il Litorale Sloveno.

Un processo organizzativo inverso fu deliberato per le attività di “cultura fisica”: non si poteva sperare   - secondo il Dirigente Matovinovic – che singole Società formate da venti o trenta soci operassero correttamente  “secondo il principio dello sport di massa”.

Le iniziative delle venti Associazioni sportive esistenti a Fiume - aveva affermato un altro Dirigente,         Egidio Barbieri – non avevano la prospettiva di sviluppare la cultura fisica tra le larghe masse popolari.

Per arrivare quindi alla costituzione di “forti organismi sportivi” – ciascuno dei quali doveva riunire “migliaia di lavoratori” – fu prevista una serie di fusioni “secondo un preciso piano sindacale”.

Nella “Quarnero” confluirono i circoli dei “funzionari delle istituzioni statali ed amministrative”, i comunali, i municipalizzati, i bancari, i lavoratori delle imprese commerciali, gli ospedalieri, gli addetti di vari enti assistenziali.

Successivamente furono fusi con la “Torpedo” i gruppi sportivi delle aziende Skull, Cussar, Ossoinack, SELVEG, Elettromeccanica.

Vennero sciolte infine le squadre dei Cantieri, dei Magazzini Generali e della Portuale per dar vita ad una nuova associazione sportiva denominata “Mornar”.

Appariva però ancora necessario vigilare sull’attività di certi elementi, che non comprendevano o non volevano comprendere i nuovi doveri dei lavoratori, e sull’opera di singoli individui, che per “basso calcolo o per incoscienza”, stavano frenando “lo slancio d’assalto delle masse lavoratrici”.

Venivano quindi denunciate pubblicamente le situazioni interne aziendali, definite “intollerabili”.

Per i Cantieri Navali era stato lamentato lo scarso spirito di iniziativa del “pubblico accusatore dell’officina Natale Zovich” e dell’Ing. Mikulic della “Direzione tecnica”, colpevoli entrambi di mancati interventi contro i “tornitori” Antonio Staffetta e Giovanni Vicich, che ripetutamente non avrebbero rispettato l’obbligo delle prestazioni di lavoro straordinario – e contro l’operaio Amedeo Lotzniker, che si sarebbe vantato di aver impiegato più giorni per eseguire lavori “di qualche ora”.

Per la ROMSA erano stati proposti “provvedimenti adeguati” contro Gabriele Deling, Cesare Pamich, Carlo Poso, che avrebbero cercato di “indebolire l’economia locale” svolgendo opera di propaganda a favore della “emigrazione in Italia” del personale tecnico della Raffineria.

 

5) L'OZNA  VISTI IN PIAZZA SCARPA   (estratto da Pag. 168)

 

Della destinazione dell’edificio di Piazza Scarpa a sede dell’OZNA s’era cominciato a parlare sin dai primi giorni dell’occupazione dei partigiani jugoslavi, quando alcuni familiari delle persone scomparse nella notte tra il 3 e il 4 Maggio 1945 – e naturalmente nei giorni successivi - erano stati indirizzati a quegli “uffici”per eventuali informazioni sulla sorte toccata ai loro congiunti.

Il dramma di molte famiglie  fu la mancanza di qualsiasi notizia sulle decisioni prese  dalle autorità a carico delle persone colpevoli, o solamente indiziate, di reati politici.

Le prime tappe del tragitto di molti arrestati sembravano analoghe:  gli “uffici” di Piazza Scarpa, le carceri di Via Roma, i campi di internamento improvvisati a Sussak, Costrena e Cirquenizze; per quasi tutti subentrava poi una decisione di trasferimento verso località ignote.

Gli interventi della polizia parevano indicare che s’era voluto colpire – oltre a varie persone notoriamente favorevoli al fascismo – diversi presunti oppositori del nuovo regime  che a suo tempo non si erano compromessi  per niente col partito dominante.

La schiera degli arrestati comprendeva  - oltre ai Senatori Riccardo Gigante ed Icilio Bacci ed agli ex Podestà Carlo Colussi e Gino Sirola – una cinquantina di ex guardie di finanza, una sessantina di ex guardie di pubblica sicurezza, una quarantina di ex coscritti di varie armi, un gruppo di ex carabinieri e vigili urbani.

Guardie di finanza , carabinieri e vigili urbani  avevano operato d’intesa con i volontari locali non comunisti – durante le ultime azioni contro le truppe tedesche – ma erano stati arrestati dalle forze jugoslave che non ammettevano iniziative di gruppi autonomi.

Molte guardie di pubblica sicurezza – “trattenute per accertamenti” effettuati dai nuovi comandi – s’erano invece presentate spontaneamente in alcune caserme per la richiesta consegna delle armi già in loro possesso.

Alcune persone incarcerate – il presidente del comitato fiumano della CRI Gregorio Bettin, il direttore didattico di Abbazia Giuseppe Tosi, il maggiore dei vigili del fuoco Eugenio Venutti – erano abbastanza note a Fiume: nella maggior parte dei casi però gli scomparsi non occupavano posti di particolare responsabilità.

Si ripetevano così molti nomi: Angelo, Ernesta e Zulema Adam, Antonio, Maria e Margherita Pagan, Santo Taucer, Rodolfo Moncilli – senza sapere con certezza se quelle persone erano indiziate di attività clandestina di ispirazione autonomista o irredentista, o semplicemente se dovevano pagare le “colpe” politiche di qualche loro congiunto.

Soltanto nel dicembre 1945 si ebbe notizia di un primo processo contro un gruppo di nuovi “nemici del popolo”, accusati di costituzione di un’ organizzazione clandestina  e di stampa e diffusione di manifestini di propaganda contraria all’attività dei poteri popolari.

Il principale imputato Carlo Visinko fu condannato a 10 anni di lavori forzati, mentre pene progressivamente minori si ebbero vari altri giovani: Marino Callochira, Alfredo Polonio-Balbi, Ferruccio Fantini, Alfredo Lenski.

 

6) Cetnici e Partigiani  UN PONTE IN LEGNO SULL'ENEO   (estratto da  Pag. 119)

 

Il vecchio ponte stradale – saltato in aria  il mattino del 15 settembre 1943 – era stato  sostituito da un manufatto provvisorio in legno sul quale i genieri tedeschi avevano apposto una targa con la scritta “Adolf Hitler Brùcke”.  Al di la’ dell’Eneo si erano attestate – dall’autunno del ’43 – le sentinelle croate delllo Stato indipendente degli “Ustascia”, che non richiedevano però l’esibizione del lasciapassare per consentire l’accesso a Sussak.

Formalmente una vasta area ex jugoslava a oriente di Fiume era compresa nella zona di operazioni dell’Adriatisches Kustenland; il regime militare tedesco si estendeva quindi su entrambe le rive dell’Eneo, ma ammetteva la presenza di uniformi italiane a Fiume e croate a Sussak.

L’occupazione della riva sinistra della Fiumara da parte dei partigiani era durata soltanto una settimana; era quindi cessata da allora l’occupazione italiana di quelle terre  e questo  - agli occhi della popolazione locale – poteva apparire un risultato nient’affatto disprezzabile.

All’annuncio della capitolazione italiana molti abitanti di Sussak si erano uniti alle formazioni dei ribelli: di fronte all’incalzare delle truppe del Reich parecchi si erano rifugiati nei boschi, alcuni erano morti in combattimento, altri ancora avevano trovato il modo di far ritorno alle loro case.

Il movimento partigiano jugoslavo era riuscito comunque a diventare  l’unica importante organizzazione antinazista che incontrava ampi consensi tra le popolazioni.

Di riflesso s’era registrato un profondo mutamento nella propaganda ufficiale, dove non si parlava più dei “cetnici” mentre si attribuiva ai comunisti la responsabilità del dilagare della guerriglia; anche i commenti di Radio Londra menzionavano oramai soltanto azioni partigiane e non più interventi di cetnici.

I mutamenti pareva traessero origine da una situazione locale molto complessa, dove i cetnici si erano mossi per primi quando era ancora in vigore il Patto di non aggressione tra la Germania e l’Unione Sovietica, mentre il movimento partigiano, costituitosi per iniziativa dei comunisti, aveva iniziato un’intensa attività soltanto dopo l’attacco tedesco contro la Russia nell ‘estate del 1941.

I cetnici si collegavano idealmente allo Stato monarchico, dominato dai Serbi, che nell’aprile 1941 si era schierato a fianco degli Inglesi e contro l’alleanza dell’Asse.

Rivalità e rancori di carattere locale, nonchè collusioni con esponenti dei Governi fantoccio creati dagli occupatori dell’Asse, s’erano intrecciati in vario modo nello sviluppo dei due movimenti clandestini, e le repressioni dei regimi di occupazione a danno delle popolazioni sospettate di connivenza coi ribelli, avevano indotto ad una maggiore prudenza i fautori dello Stato dei Karageorgevic’, in attesa del sospirato sbarco  degli inglesi sulle coste dalmate.

In questa contrapposizione tra prudenza e temerarietà il movimento partigiano era stato indirettamente favorito -  in Bosnia,  Croazia e Slovenia, ma non nei territori serbi – dalle spietate rappresaglie di alcune formazioni militari dell’Asse.

 

7) Il nuovo Corso  TOPONOMASTICA CITTADINA    (estratto da Pag. 204)

 

Il 5 novembre 1946 – in occasione della terza sessione dell’Assemblea Popolare cittadina – furono preannunciate diverse modifiche nell’organizzazione periferica dell’amministrazione locale.

Venne prevista l’attribuzione ai Comitati Popolari rionali il controllo dei prezzi e la repressione della borsa nera e della speculazione,

anche se apparivano in diminuzione - nella valutazione di Leopoldo Boscarol, nuovo Segretario del Comitato Esecutivo cittadino – il commercio illegale, il contrabbando e la criminalità.

Il Consigliere Edoardo Radetti proponeva il completamento dei quadri della Milizia Popolare e il Consigliere Carlo Manià rilevava che bisognava “creare nuovi quadri tecnici e rifare una mentalità a certi lavoratori”.

Sarebbe stato “errato, reazionario ed antipopolare” considerare lo sport indipendente dalla politica e coloro che non si rendevano conto delle proprie sbagliate impostazioni dovevano essere esclusi da ogni gara  o confronto agonistico.

Tutta l’attività delle Società di cultura fisica doveva essere impostata sulla preparazione e realizzazione di precisi “piani trimestrali”.

I vari sodalizi di cultura fisica dovevano elevare il livello culturale e politico dei propri membri, far conoscere la vita dei lavoratori dell’Unione Sovietica, dei Paesi slavi e degli altri Paesi realmente democratici.

Gli atleti più giovani dovevano essere impegnati nell’insegnamento dell’educazione fisica ai fanciulli ed ai ragazzi, in collaborazione con “l’Unione dei Pionieri”; tutti gli sportivi dovevano essere istruiti negli “elementi fondamentali della scienza militare”.

 

8)  Il Circolo di Cultura Italiana  CIRCOLI CULTURALI     (estratto da Pag. 208)

 

Tutti gli “italiani” della città furono invitati ad una riunione presso la ex Sala Bianca per discutere   – domenica 2 giugno 1946 – le forme concrete di attuazione di un programma di sviluppo della cultura italiana a Fiume.

La relazione introduttiva venne svolta dall’Avv. Bruno Scrobogna, che indicò nell’istruzione delle “larghe masse” la base principale di un effettivo incremento della cultura italiana.

Non ci si poteva aspettare che il problema venisse risolto dai fratelli slavi, ma non si doveva favorire nemmeno una attività rivolta “in direzione opposta come reazione allo sviluppo della cultura slava”.

Contemporaneamente la ricostituita “Narodna Citaonica” preanunciò le sue iniziative a breve scadenza: una conferenza su Massimo Gorki, la premiazione di 18 studenti del Ginnasio croato di Fiume, una riunione di massa contro “le ingiuste soluzioni che venivano proposte per il problema giuliano”, una intensa partecipazione con “contributi e lavoro fisico” all’opera di ricostruzione della città.

L’organizzazione interna del Circolo di Cultura italiana sembrò completato il 3 agosto ’46 quando venne eletto un Comitato Direttivo di nove persone: Arminio Schacherl, Eros Sequi, Leopoldo Boscarol, Gina Scrobogna, Franco La Scala, Mariano Orlandini, Luigi Davolio, Riccardo Moresco.

Il 13 novembre ’46 fu inaugurata la nuova sede dell’Associazione nei locali di Palazzo Modello; il Prof. Pietro Marras dichiarò che quelle sale – già riservate alla borghesia mondana – erano aperte ai “lavoratori del braccio e dell’intelletto, ansiosi di arricchirsi di nuovo sapere”.

Non ci sarebbe stato più posto per le pseudo culture che “disprezzavano gli altri popoli considerandoli alla stregua dei barbari”: l’ispirazione futura sarebbe venuta invece dalla civiltà “scaturita dalla Rivoluzione di Ottobre”, dalla cultura espressa dalla nuova Jugoslavia.

 

9)  L’U.A.I.S.  Unione Antifascista Italo Slava  STRADE IN GARA     (estratto da Pag. 212)

 

Zvonko Petrinovic, Segretario dell’U.A.I.S.  Unione Antifascista Italo Slava, richiamò l’attenzione degli attivisti sulle iniziative di tutti quegli elementi – singoli sacerdoti, speculatori, resti del fascismo – che diffondevano notizie menzognere sull’organizzazione futura del potere popolare e che andavano quindi smascherati e consegnati ai Tribunali del popolo.

Martedi sera 4 febbraio, egli fu più esplicito: un sacerdote, Don Girolamo Demartin, Parroco e Direttore dell’Oratorio salesiano, avrebbe esaltato le imprese del movimento clandestino dei “krizari”; un Professore dell’Istituto Tecnico, Bruno Battagliarini, avrebbe per lungo tempo educato gli alunni “nell’odio verso la Jugoslavia e la fraterna Unione Sovietica”; un lavoratore del Silurificio – Bassi – avrebbe chiesto ripetutamente che fosse permesso agli operai di allontanarsi dall’officina “venti minuti prima della fine dell’orario di lavoro”; alcuni dipendenti dei Cantieri avrebbero scritto lettere di protesta alla Direzione chiedendo salari più alti “senza interpellare i Sindacati”.

Secondo Petrinovic, bisognava convocare apposite riunioni di massa per l’eliminazione “dei nemici”.

Si doveva indire immediatamente le elezioni per il rinnovo dei Comitati stradali dell’Unione: con una forte base di attivisti in tutte le strade  sarebbe stato possibile “mobilitare i più ampi strati del popolo”, “reagire energicamente alle manovre della reazione”, portare a conoscenza di tutte le masse popolari “le direttive e le iniziative del potere popolare”.

E doveva anche essere organizzata una gara cittadina  col duplice scopo di stabilire una graduatoria tra coloro che avrebbero portato “più massa alle elezioni per i Comitati stradali” e di formulare nel contempo un giudizio sul “migliore Comitato eletto”.

Don Girolamo Demartin – accusato pubblicamente dal Segretario dell’U.A.I.S. – fu condannato dal Tribunale del Popolo a tre anni di reclusione il 17 marzo ’47, per aver mandato aiuti a “vari criminali che stavano scontando la pena nelle carceri della Jugoslavia”, e di aver svolto “propaganda antipopolare presso le famiglie degli allievi dell’Oratorio” per indurle a lasciare la città e ad emigrare in Italia.

Precedentemente era stato condannato a quindici anni di lavori forzati il Prof. Battagliarini, imputato di aver effettuato azioni “disfattiste e sabotatrici” ai danni del potere popolare e delle “conquiste del popolo”, facendo della propria cattedra una tribuna dalla quale insinuava “nelle menti e nelle coscienze degli scolari una serie di ideologie antiprogressiste e non scientifiche”.

 

10)  Leopoldo Boscarol   LE PROPOSTE DI LEOPOLDO BOSCAROL     (estratto da Pag.  210)

 

Bisognava essere capaci di comprendere compiutamente il significato politico di ogni attività sociale, mentre Fiume era alla vigilia della sua annessione alla Jugoslavia e la reazione internazionale, in collaborazione con vari elementi antipopolari locali, stava tentando di “convincere gli italiani ad abbandonare la propria terra e trasferirsi in Italia” e venivano messe in giro voci di soppressione di ogni libertà in Jugoslavia, di deportazione in Russia di tutti i bambini di età superiore ai sei anni, di persecuzioni della Chiesa, di chiusura delle scuole italiane, così come un anno prima si era affermato che gli anglo-americani dovevano occupare giorno per giorno l’Istria e Fiume, e che la Venezia Giulia sarebbe diventata “uno Stato indipendente”.

In realtà – secondo l’oratore – le leggi jugoslave garantivano “i diritti nazionali, sociali ed economici “ mentre in Italia “il popolo non aveva neppure il diritto di protestare”,  l’economia era tutta in mano dei privati, non c’era pane a sufficienza per tutti gli italiani, i lavoratori disoccupati si potevano contare a milioni. 

Se si voleva quindi “abbracciare maggiormemente le masse anche nel campo della cultura” bisognava individuare e denunciare i “propagatori dell’odio, dello sciovinismo e della discordia”, eliminando dall’ambiente locale le menzogne e l’opera dei nemici del popolo.

 

11)  Riccardo Zanella    UN FOGLIO INGIALLITO   (estratto da Pag. 121)

 

Avevamo conosciuto  sin dall’adolescenza la testata di un solo quotidiano “La Vedetta d’Italia” e scorremmo quindi con interesse nell’autunno 1944 un foglio ingiallito, stampato a Fiume 26 anni prima. Quel giornale “La Bilancia” riportava sotto un titolo a tutta pagina un discorso del massimo esponente dell’autonomismo fiumano.

Era in pratica un resoconto dei contatti avuti a Roma da Riccardo Zanella con varie Autorità di Governo immediatamente dopo la conclusione del primo conflitto mondiale ed appariva in sostanza un ripetuto invito a continuare nella battaglia per l’autonomia di Fiume.

L’autonomismo ci era stato descritto per lo più come un movimento  che a suo tempo aveva difeso in modo sospettoso e miope un ideale di indipendenza politica per Fiume, opponendosi con intrasigenza a qualsiasi tentativo di intromissione del Governo italiano nella vita della città.

Il giornale che vedemmo passare clandestinamente di mano in mano nel ’44 costituì così una prima occasione di riesame di un periodo che sino a quel momento si pensava di aver compreso.

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Sarebbe stato l’insuccesso dell’impresa “legionaria” conclusasi verso la fine degli anni ’20 a favorire la rinascita della corrente autonomistica fiumana.

A Versailles, durante la Conferenza della Pace, era affiorato il progetto di uno Stato cuscinetto tra Italia e Jugoslavia, comprendente la zona del Monte Nevoso, l’isola di Veglia, Fiume e la costa del Quarnero da Fianona allo scoglio di San Marco.

Non aveva portato a risultati concreti, sul piano internazionale, l’iniziativa dannunziana della costituzione della “Reggenza italiana del Carnaro”, come Stato fiumano indipendente.

Gabriele D’Annunzio aveva respinto le proposte del Governo italiano per una pregiudiziale normalizzazione della situazione fiumana, che pur erano state accettate dalla maggioranza della rappresentanza cittadina.

Progressivamente si era arrivati alla paralisi della vita locale, dopo il “blocco di terra e di mare” della città.

La firma del Trattato di Rapallo – con l’accordo  per la creazione dello Stato libero fiumano – aveva concluso un periodo di contrasti tra i Governi italiano e jugoslavo: dopo la ratifica del Trattato da parte del Parlamento di Roma si era infine arrivati all’intervento dell’esercito regolare italiano contro le milizie legionarie.

Le elezioni per la Costituente fiumana avevano segnato quindi nel 1921 la vittoria degli autonomisti, non però il ritorno alla normalità. 

L’autorità  statale si stava sgretolando in tutta Italia mentre si delineava l’affermazione del Fascismo.

E furono gli squadristi giunti anche da Trieste a togliere il potere a Riccardo Zanella nel marzo 1922.

Fiume – andavano sussurrando taluni nell’autunno 1944 – doveva pertanto essere considerata la prima vittima del movimento fascista in Europa.

La città di San Vito avrebbe potuto far valere i propri diritti dopo la fine del secondo conflitto mondiale  appellandosi alle decisioni maturate al tavolo della Pace nel 1919.

Lo Stato Libero era sorto a Rapallo in un’intesa tra Italia e Jugoslavia e non a Versailles, ma c’era comunque un precedente, un riconoscimento giuridico che poteva avere qualche validità sul piano internazionale.

Sarebbe stato da sciocchi – si concludeva – rinunciarvi.

 

12)  Bombe a mano   RADIO FIUME     (estratto da pag. 173)

 

Per alcuni giorni i volontari della stella rossa ammassarono nelle cantine della ex casa del fascio, situata a poca distanza dal cimitero, armi e munizioni, cartucce e bombe a mano, abbandonate dalle truppe tedesche in varie postazioni.

Nelle cantine, di facile accesso dall’esterno, erano ancora depositati i materiali raccolti nei primi giorni, e per noi sembrò un’impresa non disprezzabile l’introdursi di soppiatto negli improvvisati magazzini per asportare una mezza dozzina di bombe.

A metà settembre si seppe poi che nella ex casa del fascio era stata sistemata una stazione radio, che iniziò a diffondere i programmi nel successivo 18 settembre.

Si pensò così della possibilità di penetrare in quell’edificio per compiere un’azione dimostrativa: bastava forse rompere un vetro per poter sgusciare in un cortile interno ed abbandonare un paio di ordigni muniti di miccia a combustione lenta.

Se ne parlò soltanto e avvicinammo alcuni esponenti dell’ambiente cattolico nella nostra ricerca di appoggi e consensi.

Bisognava aver prudenza, ci dissero, perché i comandi militari jugoslavi – d’intesa con la polizia politica – avevano creato una fitta rete di informatori incaricata di segnalare i contatti tra elementi sospetti e in genere apprezzamenti, giudizi, valutazioni della popolazione di ogni ceto.

Esisteva in città – secondo quanto ci veniva assicurato – una organizzazione capillare di ispirazione democratica, predisposta col duplice scopo di garantire un’indispensabile “presenza” e di raccogliere ogni notizia utile, mentre altre persone si assumevano il compito di mantenere i collegamenti con Trieste.

Era il massimo che si poteva fare? 

Più volte pensammo di doverne dubitare e ci proponemmo di forzare la mano a quanti indugiavano o confidavano troppo.

13) La Torre e l'arco   LA  TORRE  E  L’ARCO   (estratto da pag. 176)

L’ultima aquila della Torre apparì senza la testa sinistra dal pomeriggio del 4 novembre 1919 quando due bersaglieri posero in atto la semplificazione auspicata da Gabriele D’Annunzio alcune sere prima.

Ma quell’intervento che s’era proposto di distruggere un segno del potere asburgico si trasformò, nel convincimento di taluni, in una mutilazione del simbolo della città.

Parecchi guardarono un’altra volta alla Torre con intenti polemici nel maggio 1946 quando una mattina si notò che qualcuno – Mario Rivosecchi, come si seppe più tardi – aveva issato sulla cupola una bandiera fiumana.

Il vessillo civico fu rimosso ben presto ad opera della polizia politica jugoslava  ed analoga sorte toccò ad una bandiera italiana che qualchedun altro – identificato poi col bracciante Giorgolo – aveva issato sul Grattacielo di Piazza Regina Elena.

In quest’ultima piazza si ebbe da alcune settimane più tardi un ulteriore atto dimostrativo, ma contro un arco di legno che l’amministrazione jugoslava aveva fatto costruire ed adornare di scritte inneggianti al nuovo regime.

Uno dei pilastri dell’arco rimase danneggiato dallo scoppio di una bomba rudimentale e gli autori dell’azione – Carlo Maltauro, Mario Rivosecchi, Nino Bencovich, Romolo Rainò, Giuseppe Superina, Giambattista Marra – non furono identificati in quell’occasione.  Erano invece stati scoperti molto presto e arrestati i tre giovani – Giuseppe Librio, Hervatin e Barbadoro – che il 16 ottobre 1945 avevano ammainato una bandiera jugoslava da uno dei pennoni di Piazza Dante: Giuseppe Librio era stato trovato cadavere sul Molo Stocco soltanto pochi giorni dopo la scomparsa di un altro fiumano  – Matteo Blasich – arrestato anche lui in quel periodo e poi “morto suicida” secondo la versione fornita dalle Autorità.

 

14)   Munizioni a San Girolamo   S.GEROLAMO DEGLI AGOSTINIANI   (estratto da pag. 181)

 

Nella sagrestia di S. Gerolamo ci ritrovammo saltuariamente più tardi, nel gennaio del 1946, quando si era impegnati oramai nell’attività clandestina contro l’Amministrazione militare jugoslava. Decidemmo poi – all’inizio di febbraio, di nascondere nel solaio della chiesa alcune munizioni, rintracciate precedentemente nelle fortificazioni di Santa Caterina; s’era diffusa la voce di una imminente visita del Maresciallo Josip Broz Tito a Fiume e bisognava  trovare il modo di turbare quella manifestazione, magari facendo funzionare uno dei congegni lacrimogeni ch’eravamo riusciti a procurarci.

Nella seconda settimana di febbraio era partito per Trieste il fratello di Giorgio Fabris con l’incarico di perfezionare i collegamenti con il “Comitato giuliano” operante in quella città; l’assenza del nostro amico durava ormai da parecchi giorni ed inspiegabilmente non si avevano notizie del suo ritorno.

Ci avvicinò invece in gran segreto un altro compagno di studi  - guardato con diffidenza da molti per le sue non nascoste simpatie per il nuovo regime – per avvertirci che “il gruppo era stato individuato”: non ci sarebbero state complicazioni - aggiunse – purchè non venisse accertato un possesso di armi da parte nostra.

Non pareva possibile dubitare dell’esattezza della segnalazione: restava allora da scoprire in che modo la polizia jugoslava era stata messa sulle nostre tracce. Ci eravamo messi in contatto con molte persone e forse qualche frase era stata inavvertitamente riportata a singoli meno prudenti o meno fidati.

Il fatto che fosse stata prospettata una individuazione “del gruppo” induceva a pensare a qualcosa di più di un errore o di una imprudenza: forse una delazione o un’infiltrazione di qualche elemento compromesso con gli organi di sicurezza jugoslavi.

Si doveva pertanto trovare nuovi nascondigli per le munizioni.

 

 

15)  Manifestini   FOGLIETTI A CICLOSTILE    (estratto da pag. 176)

 

Nei primi mesi del 1946 aveva avuto inizio il campionato studentesco e vi partecipava - per la prima volta nella cronaca locale – anche la squadra del nuovo “Ginnasio croato”: favorito d’obbligo era il Nautico, che schierava in campo Gabrieusig, Ivancich, Zupicich, Leonessa, Mandich, Monti, Tardivelli, Penco, Sklemba, Benussi, Pacini.

Abbastanza temibile appariva anche la squadra delle Industriali - con i vari Pironti, Carli, Sincich, Mattuli, Stassi, Millich, Giotto, Clemente, Tessarolo, Bruni, Milletich – ed analoghi apprezzamenti venivano espressi per lo più dai nostri undici “scientifici” cioè Zustovich, Segnan, Moscheni, Ansel, Marzona, Zuffrano, Rizzardini, Host, Mohovich, Tominich, Decleva.

Più modesti sembravano quelli del Tecnico – i Seksich, Icovi, Pillepich, Clemen, Spincich, Barbalich, Saftich, Geja, Paravich, Costante, Rusich – e quelli delle Commerciali, cioè i Seberich, Zupancich, Recanatini, Codacovich, Sricchia, Sestan, Superina, Terdich, Brenco, Sikich, Stavagna.

Avversari meno temibili erano considerati infine l’Avviamento - dei Stecich, Dusman, Bartola, Mervich, Pischiutta, Drago, Susmel, Marghetich, Nacinovich, Giurriaco, Penella – ed il Classico – dei Bianchi, Prencis, Lupetti, Gelcich, Rossovich, Bucich, Ruzzier, Doldo, Esposito, Zez, Covacev.

Avevamo precedentemente avvicinato singoli studenti di quelle scuole ed eravamo riusciti ad ottenere  un’adesione di massima per varie attività clandestine che consideravamo proponibili a breve scadenza.

Soprattutto la diffusione di manifestini pareva un impegno non più differibile, dopo l’arresto e la condanna del gruppo di Callochira e Polonio-Balbi.

Si poteva anche pensare a qualche sistema molto semplice per cancellare almeno in parte le numerose scritte murali – inneggianti ai nuovi poteri popolari ed all’annessione di Fiume alla Jugoslavia: bastavano poche boccette di inchiostro ed alcuni lanci ben aggiustati, per lasciare sui muri altrettante tracce  non meno significative di quelle volute dai comandi jugoslavi.

Padre Nestore, assistente ecclesiastico dei giovani della Parrocchia dei Cappuccini, ci prestò un ciclostile ed uno studente del Nautico, Giorgio Fabris, ci ospitò nella casa dei genitori in Via Fratelli Bandiera  per una prima edizione dei manifestini di opposizione.  Ci trasferimmo poi in Via Giorgio Vasari nella cantina del Maestro Giovanni Marvin per le successive ristampe.

La dfiffusione di altri fogli stampati clandestinamente ci confermava però la contemporanea presenza in città di più gruppi, impegnati a contrastare l’attività di propaganda del regime di occupazione.

Si pensò di così di impostare  meglio la nostra azione coordinandola con le iniziative di una preesistente organizzazione e si cercò di stabilire un collegamento con il “Comitato di Liberazione” giuliano operante a Trieste.

Riuscimmo a procurarci i nomi di alcuni esponenti politici da avvicinare nel capoluogo giuliano, ma quei primi contatti rimasero infruttuosi : molta prudenza dall’altra parte ci impedirono allora di uscire allo scoperto.

Ad un certo punto ci fu segnalata la possibilità di venire a contatto con un altro gruppo clandestino fiumano; sembrava che ci si potesse fidare della persona che si era fatta promotrice dei primi approcci  ed uno di noi si prese l’incarico di continuare il dialogo.

 

Ci arrivò così la proposta di un testo per i volantini inneggianti a “Fiume libera sotto la protezione anglo-americana”: una soluzione che però prestava il fianco a molte critiche sul piano dell’opportunità politica. E lasciammo cadere le ulteriori proposte di collaborazione con quella parte.

 

16)  L'arresto     VEGLIE  AL  “CENTRO”     (estratto da Pag. 185)

 

Si fecero vedere nel nostro Liceo durante la terza  ora di lezione del 19 febbraio 1946: due di loro e toccò alla Segretaria il compito di affacciarsi all’uscio e di pronunciare il nome dello studente che doveva uscire.

Il portone principale delle carceri era chiuso e la guardia armata che stazionava all’esterno tamburellò sui vetri per far accorrere dall’interno un suo collega.

Non era facile capire quello che già sapevano e quello che volevano scoprire; si dimostravano certi della colpevolezza del loro interlocutore ma sembravano aver bisogno di un’esplicita ammissione da parte del reo.  Dicevano di non aver fretta e per confermare le loro parole lasciarono sul tavolo carta e matita con l’invito a “pensarci su” con calma e a fissare sui fogli le risposte richieste.

Non si dimostrarono sorpresi alcune ore più tardi quando ritrovarono i fogli bianchi; si misero a parlottare tra loro e pareva che volessero continuare il discorso “al Centro”.

Ci voleva poco a capire che il “Centro” non era altro che il Comando principale della polizia politica in Piazza Scarpa, e per il trasferimento era già pronta un’automobile.

La direzione da prendere, nel dedalo di corridoi, veniva indicata con spinte e urtoni; il dialogo doveva esser sostenuto a dorso nudo e di tanto in tanto i due inquisitori – Vicko Lorkovich Minack e Milan Cohar – lasciavano partire alcune pedate e colpi di cinghia.

A loro importava poco gli atti inconsulti di singoli studenti, ma i “mandanti” e si doveva quindi precisare per quali motivi s’era stati recentemente in contatto con tutta una serie di persone.

Di notte si davano il cambio con altri “Commissari” – Oscar Pisculic, Jovo Mladenic, Norino Nalato, Giuseppe Domancich – ed a seconda degli umori o del temperamento il trattamento poteva migliorare o peggiorare.

Quando ritornarono i due inquisitori principali – Vicko e Milan – pretesero che si stette sull’attenti e riconfermarono ripetutamente con calci e manrovesci la loro intolleranza per qualsiasi forma di resistenza passiva; si finiva col perder la nozione del tempo e col restare intontiti, mentre si sentiva confusamente ripetere sempre le stesse domande.

I Commissari si diedero il cambio altre volte e variarono ripetutamente i sistemi d’interrogatorio, alternando promesse, intimidazioni, blandizie, percosse, ragionamenti “politici”: il popolo teneva saldamente il potere nelle proprie mani – dicevano – ed era impossibile arrestare la sua marcia entrando in combutta con i capitalisti americani e inglesi; l’Italia era un Paese vinto e non poteva interessarsi più degli abitanti dei territori “ceduti”; la sorte di Fiume era stata definitivamente decisa ed era da sciocchi non volerne prendere atto; i detenuti non dovevano abusare della pazienza dei Commissari se non volevano subire certi interventi – “basta un’iniezione e non se ne parla più” -  inevitabili in casi del genere.

Destava meraviglia il fatto di risvegliarsi senza danni eccessivi – anche se con le ossa indolenzite e la testa pesante – sul pavimento di una stanza vuota - e causò maggior sorpresa un improvviso trasferimento nelle carceri di Via Roma per l’obbligo di starsene in posa per un fotografo assieme ad altri studenti e mettendo in mostra una pistola, una macchina da scrivere, un pacco di carta, un ciclostile.

Il 2 marzo un guardiano fece scivolare nella cella una copia de “La Voce del Popolo” e si potè conoscere così la versione giornalistica  dell’operazione di polizia condotta contro di noi: era stata scoperta un’associazione clandestina “nel convento dei Cappuccini”, gli affiliati volevano “diffondere una campagna sciovinistica tendente a spezzare l’unità e la fratellanza dei popoli della Jugoslavia” e compiere altresì “atti terroristici contro le organizzazioni antifasciste “,

Padre Nestore era il principale responsabile e si avvaleva della collaborazione di Don Giacomo Cesare e “dell’ex Direttore di banca” Oscar Purkinje.

Si accennava anche alla colpevolezza di alcuni studenti con la citazione però soltanto di “Dassovich e Tavolato” e senza ricordare che Franco Tavolato era riuscito a sottrarsi all’arresto.

Il giornale concludeva che si trattava di esseri che “invece di dare il loro aiuto e la loro opera al benessere della collettività, manovrano e sobillano per creare nuovo sangue”: delinquenti che il popolo si sarebbe incaricato di spazzare dalla propria strada  perché non si doveva “lasciare spuntare nessuna pianticella fascista nemmeno all’ombra del campanile”.

 

17)  Il Processo   AULE DEL CASTELLO    (estratto da pag. 189)

 

All’esterno della nostra cella di segregazione attende un soldato armato di mitra per accompagnarci dal Tenente Zlatko Trepic, che funge da Pubblico Ministero  nel “Tribunale Militare dell’Armata jugoslava per l’Istria e Fiume”.

Trepic, che parla discretamente l’italiano, passeggia nervosamente su e giù per la stanza, batte i pugni sul tavolo, ci preavvisa che gli inquirenti sanno usare anche “altri metodi”; ci richiama un paio di volte a distanza di qualche giorno e poi per un paio di settimane sembra che nessuno si ricordi di noi: sino a martedi 30 luglio quando improvvisamente ci fa visita il Direttore del carcere per comunicarci che all’indomani saremo processati.

Una decina di soldati – uno per ciascun imputato – prende posto alle nostre spalle e il Collegio giudicante – formato dagli ufficiali Riko Jaricijo, Jovo Pogunovic, Ivan Kvaternik – legge le imputazioni in croato che l’interprete traduce in italiano: siamo accusati di “attività antipopolari, costituzione di un’organizzazione terroristica neofascista, diffusione di propaganda nemica, possesso di armi, furto di preda bellica, preparazione di atti terroristici”.

Viene dato l’ordine di far uscire dall’aula gli undici accusati; rientriamo poi uno alla volta quando il Presidente decide di procedere agli interrogatori.

Il pubblico – formato per la gran parte da attivisti delle organizzazioni politiche costituite dalle Autorità di occupazione – reagisce contro gli imputati con grida ostili e le intemperanze assumono toni sempre più aspri quando gli “attivisti” si alzano in piedi e chiedono a gran voce la condanna a morte.

Alcuni di noi indirizzano verso il pubblico epiteti analoghi a quelli che provengono da quella direzione.

Si alzano in piedi anche i soldati di guardia ed agitano minacciosamente i loro mitra o li puntano verso il settore destinato agli imputati;

interviene ad un tratto contro di noi il Comandante delle guardie e ne nasce una colluttazione, prontamente troncata dal ten. Trepic.

Il Capitano Jaricijo sospende l’udienza.

Si riprende la mattina dopo in un’aula semivuota e il Presidente chiede se noi imputati abbiamo ancora qualcosa da dire.

Alcuni rinunciano ad intervenire; altri contestano le imputazioni: è assurda l’accusa di neofascismo, i presunti “crimini” non sono provati e comunque configurerebbero un reato di propaganda non autorizzata, il partito comunista è l’unico movimento politico riconosciuto dall’autorità militare.

Il Presidente ci toglie la parola perché le nostre considerazioni non avrebbero alcuna attinenza con i fatti presi in esame dal Tribunale.

Quattro di noi – Oscar Purkinje, Don Giacomo Cesare, Padre Nestore, Mario Dassovich – sono considerati “organizzatori e capi” del gruppo clandestino e condannati rispettivamente a sette, tre, otto e quindici anni di lavori forzati; ad un anno di lavori forzati viene condannato Giovanni Marvin anche per il fatto di aver mancato “al suo dovere di cittadino di denunciare l’attività antipopolare di uno studente”.

Una multa di 80.000 Lire, commutabile eventualmente in sedici mesi di lavori forzati, viene inflitta a Francesco Stalzer per una fornitura di inchiostro in polvere – sei tubetti corrispondenti a 2 litri di inchiostro liquido – utilizzato per “fini illegali”.

Uno studente viene assolto, mentre altri quattro imputati – Ugo Pick, Romeo Cociancich, Massimo Fabris, Walter Pick – sono considerati tipici esempi di “giovani avvelenati dalle organizzazioni di massa dell’ex regime fascista” e vengono condannati rispettivamente a quattordici mesi di lavori forzati, dodici mesi con la condizionale, cinque anni di lavori forzati, dodici mesi con la condizionale.

 

18)  Incontri nel Tribunale   COLLEGHI DI "BLINDA"      (estratto da Pag. 192)

 

La chiamavano “blinda” – quella cella dello scantinato di Palazzo di Giustizia – perché era chiusa da una porta tutta di lamiera; a suo tempo era stata l’archivio del Tribunale di Fiume, poi con la sistemazione di tavolacci e di un gabbiotto di legno per il bugliolo, era diventata la cella di punizione del carcere militare jugoslavo.

Uno dei meno preoccupati – in quell’agosto del 1946 – sembrava Nicolò Cattaro, un panettiere di Abbazia: nei primi mesi del ’46 s’era recato un paio di volte a Trieste con regolare lasciapassare e poco dopo era stato accusato sotto l’accusa di “spionaggio”.

Sui polsi e sulle caviglie portava ancora i segni dei lacci che lo avevano immobilizzato per un mese durante la detenzione in un altro carcere, e di quel periodo ricordava ancora le scosse elettriche utilizzate dalla polizia jugoslava per convincerlo a firmare i verbali degli interrogatori.

Tendenzialmente più introverso appariva Giovanni Stercich, ex Segretario di Riccardo Zanella, esule durante il ventennio fascista e promotore di iniziative autonomiste a Fiume solo dopo il 25 luglio 1943. 

All’inizio di maggio del 1945 era stato arrestato dagli agenti di Sussak della nuova polizia jugoslava e segregato nel campo di internamento improvvisato dall’Amministrazione militare a Costrena, e quel provvedimento cautelare gli aveva permesso così di sfuggire alle esecuzioni sommarie compiute a Fiume in quel periodo da altre squadre della medesima polizia.

Lothar Zimmermann – nativo di Preisach Baden e già Colonnello dell’esercito tedesco – era stato catturato ferito presso Villa del Nevoso e - riconosciuto come ex Comandante militare della zona di Fiume - era considerato responsabile delle distruzioni operate nella nostra città dalle truppe germaniche nel periodo conclusivo della guerra.

Un giorno lo scorgemmo intento a distruggere alcune fotografie: ci fece capire che dopo esser riuscito a riavere le immagini dei suoi familiari preferiva non lasciarle ad altri.

Verso la metà di agosto, l’interprete comunicò a Dante Cociani – ex milite della Guardia Nazionale Repubblicana, nativo di Visinada – il risultato del suo ricorso contro la sentenza capitale: “è stata decisa la fucilazione anziché l’impiccagione, ma puoi presentare una domanda di grazia”.

Cociani ci pregò di dimenticarlo per un po’ mentre si faceva aiutare da Stercich nella stesura di un testo molto lungo.

 

19)  In Prigionia   TALIJANI, GRUPPO A SE'     (estratto da Pag. 211)

 

Ci ordinarono di uscire con tutte le nostre robe dove c’era il Direttore e il Capo delle guardie Milan Pahor, che rivolto verso di noi ribattè la battuta onomatopeica dei carcerati croati “nikad kuci, nikad kuci”, cioè mai più a casa, che rifaceva l’ansimare dellle vaporiere.

Ci spedirono in una cella più vasta di quelle conosciute prima.

C’erano: Oscar Purkinje, Massimo Fabris, Marino Callochira, Alfredo Polonio-Balbi, Ferruccio Fantini, Carlo Visinko, ed altri ancora provenienti da Fiume o dall’Istria, arrestati nel maggio 1945 o più tardi.

Mancavano Don Giacomo Cesare e Padre Nestore, trasferiti nelle carceri di Lubiana insieme ad altri sacerdoti della Slovenia, e Giovanni Marvin ed Ugo Pick, che in sede di appello avevano ottenuto la condizionale.

Continuavano a portarci giornalmente nel cortile per i soliti lavori di manovalanza e dopo poche settimane cominciò a nevicare: la temperatura scese sotto lo zero con punte che arrivavano a “meno 25”; sulle finestre della nostra cella al posto dei vetri distrutti nei bombardamenti, c’erano soltanto pezzi di legno compensato, o di cartone, mentre di notte si congelava completamente anche l’acqua contenuta in alcuni vasi di latta.

Ci fu anche un peggioramento del cibo: ci davano giornalmente una pagnotta  di non più di 200 grammi, un liquido nero detto “caffè” alla mattina e alla sera, un liquido giallo pressochè senza condimento oppure una broda di rape a mezzogiorno, mentre nei giorni festivi si saltava la cena.

I più fortunati potevano rifarsi con i pacchi viveri che  ricevevano da casa.

Era concesso scrivere a casa una volta al mese: dieci righe su una cartolina postale.   

La sigaretta diventò – come sottomultiplo della pagnotta – l’unità di valore monetario a corso non legale.

 

20)  A Maribor    FUNZIONARI E GUARDIE      (estratto da Pag. 214)

 

Prima dei trasferimenti, avevamo conosciuto un altro gruppo di prigionieri giuliani, che erano stati destinati a Maribor dopo esser passati attraverso i campi di lavoro di Kocevie e Lubiana.

Da Gallesano era arrivato invece un gruppo di giovani, condannati quali aderenti ad una “organizzazione clandestina” capeggiata da Antonio Lucchetto, che sarebbe stata in collegamento con il C.L.N. - Comitato di Liberazione Nazionale di Pola.

Erano arrivati anche i fiumani del gruppo Maltauro – Mario Rivosecchi, Carlo Maltauro, Romolo Rainò, Nino Bencovich, Giuseppe Superina, Giambattista Marra – condannati nel febbraio 1947 per “attività antipopolare propagandistica e terroristica”.

Assieme ad essi era stato processato Antonio Luksich-Jamini, accusato – quale Presidente del C.L.N. clandestino di Fiume – di avere inviato in Italia “relazioni politiche contenenti anche informazioni di carattere militare” e di avere coordinato varie “azioni di sabotaggio” contro l’Amministrazione militare jugoslava del territorio fiumano.

La conferma della fucilazione di Nicolò Cattaro, Lothar Zimmermann, Dante Cociani – colleghi di “blinda” a Fiume – venne proprio dai carcerati appena giunti dalla nostra città.

Tutte le guardie erano inquadrate nei reparti della “Narodna Milicija”; talvolta qualche ufficiale - ed in particolare Milan Pahor, anche se invalido per la perdita di un braccio durante la guerra – offriva ai sottoposti una diretta dimostrazione dei modi energici da usare verso i detenuti.

Più recentemente sembrava rispettata invece la regola secondo cui le punizioni venivano decise dal “Direttore” su rapporto del carceriere dopo aver inteso anche il detenuto interessato.

Ci fu un tentativo di evasione nell’aprile ’47 da parte di due diciottenni sloveni, condannati per favoreggiamento dei “krizari”; i due evasi mancati si presero anzitutto una gragnuola di colpi dalle guardie preoccupate per le conseguenze personali dell’eventuale successo della fuga dei prigionieri.

Poi metodi altrettanto spicci furono usati per cercare qualche eventuale complice o amico che fosse stato a conoscenza di un precedente “piano di evasione”.

Più tardi rivedemmo sul lavoro i mancati fuggiaschi con i piedi incatenati; erano seguiti da altri due carcerati, puniti anch’essi con le catene ai piedi, ma soltanto per aver protestato per la confisca di alcuni prodotti contenuti nei pacchi-viveri inviati loro dalle famiglie.

I ferri addosso se li era presi infine anche il fabbro dell’officina del penitenziario, che non aveva voluto incatenare i compagni di prigionia.

Le caviglie di tutti e cinque erano ustionate e piagate, perché l’anello di ferro che le serrava era diventato rovente nell’attimo in cui era stato ribattuto e saldato.

L’uno o l’altro dei carcerieri più giovani si sentiva in dovere di tanto in tanto di rendere più pesante il lavoro dei “puniti”, e le urla , i calci e gli urtoni delle guardie convincevano anche molti altri a darsi maggiormente da fare sulle impalcature.

 

21  L' Amnistia    OPTANTI IN ATTESA     (estratto da Pag. 231)

 

“L’amnistia è approvata”.

 Quella frase – pronunciata l’ 8 aprile 1948 da qualche compagno di cella nel penitenziario di Maribor – sembrò in un primo momento una presa in giro.

Poi, quando riuscimmo ad avere il giornale comunista, ottenemmo la conferma del tanto atteso provvedimento che però non riguardava i compagni di prigionia croati e sloveni.

C’era stato un accordo tra i Governi di Roma e Belgrado, e Belgrado prevedeva l’applicazione del provvedimento anche alle persone che avevano diritto di optare per la cittadinanza italiana: agli amnistiati veniva “assicurata l’uscita dalla Jugoslavia in Italia”.

Un paio di settimane più tardi fummo convocati – eravamo un’ottantina - dalla Direzione per darci la possibilità di optare per la cittadinanza italiana.

Una risposta arrivò dopo breve tempo ma soltanto per una trentina di persone: fu una mazzata per quel gruppo di amici ai quali era stata negata l’opzione perché mancava il presupposto della “lingua d’uso italiana”; ad altri si comunicò che l’opzione non poteva essere accettata perché erano cittadini del “territorio” di Trieste: non fu facile trovare una parola di conforto per quegli amici.

 

 

22)  I Monfalconesi   EMIGRANTI DAL MONFALCONESE      (estratto da Pag. 237)

 

I provvedimenti amministrativi riguardanti Fiume e Sussak venivano decisi ormai da un unico “Comitato Popolare cittadino”, formato da cinque persone di nazionalità italiana e otto di nazionalità jugoslava. I Deputati al “Sabor” erano Giuseppe Arrigoni e Franjo Kordic; all’Assemblea Nazionale Pietro Klausberger.

Cinquemila sarebbero stati all’inizio dell’anno scolastico 1947-48 gli allievi degli Istituti fiumani di istruzione con lingua di insegnamento italiana. Nonostante i vuoti che si venivano creando giorno per giorno con lo stillicidio delle partenze, si poteva pensare che le tradizioni di un tempo sarebbero sopravvissute con l’apporto dei monfalconesi, cioè quelle “centinaia“ di operai nativi di Monfalcone e del Basso Isontino.

Quegli operai dovevano offrire un’irrefutabile testimonianza della difficile situazione delle masse lavoratrici italiane, che sarebbero state costrette all’emigrazione “dallo sfruttamento delle classi padronali e dalle persecuzioni organizzate da gruppi di malfattori al soldo  della reazione”.

La situazione degli emigrati mutò radicalmente nell’estate del ’48, dopo la condanna del comunismo jugoslavo espressa dagli Stati del blocco orientale. 

 

(vedi Nota (*) in calce)

 

Molti “monfalconesi”, sospettati di aderire alle tesi del Cominform, furono incarcerati: Ottavio Ferletich, Adriano Fontanot, Sergio Mori, Valmaro Buttignon, Fiore Bersa, Ennio Brenci, Edoardo Marini, Romea Bersa, Vittorio Cernigoi, Stettino Demarchi, Attilio Battilana, Pietro Buttarelli, Silvano Ladich, Albano Olivieri, Tiziano Bergamasco, Nicola Plet, Ernesto Pieri.

Furono trattenuti per brevi periodi periodi in carcere e poi internati con le famiglie in Bosnia, a Zenica e Tuzla.

Non si ebbero invece notizie della sorte toccata al Prof. Mario de Micheli, intellettuale di “sinistra” proveniente da Milano ed incluso dalla polizia jugoslava nel primo gruppo di “cominformisti” fermati per accertamenti.

Nel 1949 ripresero le retate della polizia e sarebbero stati arrestati Guseppe Franti, Mario Fumis, Irene Riavec.

 

(*)    Le accuse  del Cominform   (estratto da Pag. 233)

 

“ In Jugoslavia sarebbe stato instaurato un regime ottomano e terrorista che non rispettava i principi “ della critica e dell’autocritica, e che sottoponeva a “crudeli repressioni “ quanti si opponevano al “ dominante “settarismo burocratico”.

“ Il partito comunista jugoslavo avrebbe continuato ad operare praticamente nella clandestinità – a tre  “ anni dalla fine della guerra – e si sarebbe illuso di poter govermare attraverso un “Fronte  “Popolare”che accoglieva anche gruppi politici borghesi”, tutta la propaganda jugoslava sarebbe stata  “ impostata su schemi trotzkisti e controrivoluzionari, oppure opportunistici secondo il modello dei “ menscevichi e dei seguaci di Bucharin.

“ Nella nuova Jugoslavia non sarebbe ancora stata modificata la preesistente economia agricola  “ individuale e le condizioni per imporre la collettivizzazione della terra; le recenti leggi jugoslave sulla “ nazionalizzazione delle piccole imprese e sulle imposizioni fiscali sarebbero state improvvisate “mettendo così in pericolo l’approvvigionamento del Paese”.

 

La risposta jugoslava  - - -  da questo punto comincia la difesa jugoslava - - -

 

 “ Nonostante la gravità di accuse dal Cremlino, sembrava che

 i capi jugoslavi non avessero intenzione “ di riconoscere i propri errori: erano prive di fondamento le accuse di “regime

 ottomano”; il partito  “ comunista non sarebbe stato sul punto di dissolversi nel “Fronte Popolare jugoslavo”, ma

 avrebbe “ invece “allevato nello spirito di una politica marxista e leninista” le masse facenti parte del “Fronte”;

“ i Dirigenti jugoslavi non si sarebbero preparati affatto a “far concessioni agli imperialisti o a vendere “ l’indipendenza del proprio Paese”; le cause delle difficoltà che la Jugoslavia stava incontrando in “ materia di rifornimenti, sarebbero derivate dal particolare “periodo di transizione tra capitalismo e “ socialismo”.

 

 

23)  In attesa della Libertà    BARACCHE A ZALOG     (estratto da Pag. 235)

 

Ci trovammo a Zalog sin dall’ 11 settembre 1948; tre mesi prima ci avevano fatti partire improvvisamente dal penitenziario di Maribor trasferendoci nelle carceri giudiziarie di Lubiana.

Eravamo in novanta, tutti optanti per la cittadinanza italiana, e i nuovi compagni erano validi testimoni degli ultimi avvenimenti della nostra città.

L’ing. Giulio Duimich – notoriamente promotore di inziative autonomiste nel primo dopoguerra – era stato incriminato e poi condannato a cinque anni per presunti collegamenti con alcuni esuli fiumani di Trieste.

Al Dott. Onorato Lenaz  - condannato a otto anni di “privazione della libertà personale con lavoro obbligatorio” – era stata mossa l’accusa di aver diffuso “manifestini ostili al potere popolare” e di aver inviato in Italia relazioni tendenti a provocare “un intervento straniero”.

Il Parroco di Torretta Don Arsenio Russi – che per le medesime accuse s’era visto infliggere una condanna a dieci anni – era stato trattenuto in un penitenziario della Croazia assieme ad una trentina di altri optanti giuliani.

Don Giacomo Cesare, già in cella con Padre Nestore ed un gruppo di sacerdoti sloveni, s’era invece visto condonare un anno della pena ed era stato liberato da alcuni mesi.

Era morto nelle carceri a Fiume  - suicida secondo la versione della polizia – Gianni Marussi, ch’era stato arrestato assieme ad un gruppo di amici verso la fine del 1947 sotto l’accusa di attività politica clandestina.

In un fallito tentativo di espatrio pareva fosse stato ucciso il figlio di un compagno di prigionia, Giuseppe Superina, ch’era stato con noi a Maribor.

Anche a Zalog, dopo una certa tolleranza dimostrata dalle guardie nelle prime settimane, si cominciava a sentire un brusco appesantimento delle sanzioni disciplinari.

Alcuni si erano fatti portavoce di qualche protesta e poco dopo otto dei nostri – scelti più o meno a casaccio – erano stati ritrasferiti a Lubiana nelle celle di punizione.

Più tardi Antonio Leta – colpevole di aver borbottato in italiano qualche battuta presumibilmente ironica ma incomprensibile per il Comandante del campo – aveva dovuto farsi di corsa, nonostante la sua età avanzata, una ventina di giri attorno alla nostra baracca a suon di cinghiate e calci quando cadeva a terra sfinito.

Dopo aver alzato il gomito la notte di San Silvestro, volle farsi notare anche uno dei due Vice Comandanti  e cominciò a girare tra le baracche gridando confusamente di voler uccidere un italiano per festeggiare il nuovo anno: sparò un colpo di pistola ma un suo collega riuscì ad afferrargli in tempo il braccio ed a deviare il tiro.

 

24)  Ancora contrattempi   KRANJ,  JESENICE, NOVA GORICA    (estrato da Pag. 239)

 

Perché ci hanno riportato da Zalog a Lubiana? Forse è venuto il momento del rimpatrio.

Viene letto un elenco nominativo ed i Frati arrestati nel novembre 1947 in un Convento di Pola –  Roberto Bellato, Ernesto Benincà, Albino Gomiero, Giuseppe Matiello – debbono lasciare il nostro gruppo.

Una quindicina di altri amici – Duimich, Lenaz, Rivosecchi, due sacerdoti dalmati, alcuni laureati fatti prigionieri nel maggio ’45 in Istria – sono costretti a seguirli subito dopo.

Un ufficiale osserva le nostre scarpe e fa’ poi ritirare quelle più malconce; anche gli abiti debbono essere consegnati a due detenuti sloveni: più tardi ci restituiscono le scarpe risuolate ed i vestiti rammendati e accuratamente stirati.

Si va alla stazione ferroviaria, pare che si dovrà viaggiare tutto il giorno e ci fermeremo a Salcano, ribatezzata Nova Gorica a quanto sembra: il nostro trasferimento a Gorizia pare rinviato a domani 10 gennaio 1949.

Arriva l’alba e si parte con due camion cantando l’inno di Garibaldi: le guardie – che capiscono l’italiano – sopportano le strofe e il ritornello, mentre qualche amico ci consiglia maggiore prudenza per il momento.

Ormai vediamo il castello di Gorizia con la bandiera italiana che sventola sul bastione più alto e ad un centinaio di metri dalla barra di confine dobbiamo ammassarci in una specie di rimessa, da dove vediamo l’esigua “terra di nessuno” dove si incontrano i delegati delle due parti.

Ad un tratto i due gruppi si separano: i delegati jugoslavi si dirigono verso di noi e – dopo aver affermato che i funzionari italiani si disinteressano dei propri connazionali ed intralciano le trattative – invitano un nostro “rappresentante” a seguirli per un nuovo tentativo di accordo.

Dopo qualche tempo è di nuovo tra noi il compagno di prigionia che è stato scelto come nostro rappresentante; egli dice di essere intervenuto nella “trattativa” e di aver chiesto polemicamente cosa stavano facendo il Governo e i funzionari mentre noi in carcere dovevamo sopportare il freddo e la fame.

Intervengono poi i delegati jugoslavi ed affermano che il Governo di Belgrado – non volendo trattarci come “merce di scambio” e non accettando quindi una contrattazione su rapporti di uno a due oppure di uno a tre – chiede l’immediata consegna di un numero di detenuti pari a quello dei prigionieri italiani.

Il Governo di Roma non sarebbe disposto ad accettare il criterio della “parità” per gli scambi degli “amnistiati” e giustificherebbe tale decisione affermando che nelle carceri italiane vi è soltanto un modesto numero di detenuti jugoslavi.

I delegati di Belgrado ci propongono di approvare una “mozione” e ci consegnano un testo scritto.

Alcuni di noi cominciano a firmare in calce alla mozione mentre secondo altri la la mozione farebbe il gioco del Governo di Belgrado danneggiando così – dato che il numero dei prigionieri italiani è presumibilmente più alto di quello dei prigionieri jugoslavi – i connazionali che abbiamo lasciato in carcere a Lubiana, Maribor, Lepoglav, Stara Gradisca.

Sta’ quasi per scoppiare una una vivace polemica tra noi, ma i più si intromettono e firmano.

 

 

25)  Di nuovo carcere e lavoro   SLOMSKOVA E MIKLOSICEVA          (estratto da Pag. 242)

 

Nel nuovo campo di lavoro, non molto distante da Lubiana, ove ci trasferirono nella primavera del 1949,  noi “optanti” eravamo una cinquantina: avevamo fatto ritorno dal confine di Gorizia alle carceri di Lubiana l’11 gennaio, dopo il mancato accordo tra i funzionari governativi in merito al rapporto numerico da adottare nello scambio dei prigionieri italiani e jugoslavi.

Pareva che in febbraio si fosse conclusa con successo una nuova trattativa al confine, ma non si era riusciti sapere quanti detenuti jugoslavi erano stati liberati in cambio dei trenta nostri ex compagni di prigionia scarcerati in quella occasione.

Il luogo che ci ospitava conservava il nome di “Marindom”, cioè la denominazione popolare di un istituto religioso che era andato pressochè distrutto nei bombardamenti aerei nell’ultimo conflitto: toccava a noi ricostruire quelle mura, destinate ora a diventare un “Dom Milice”, cioè un Comando regionale della “milizia popolare”.

Protestammo per la pesantezza del lavoro e per le condizioni di vita nel campo durante una delle visite del Direttore del carcere, che respinse ogni nostro rilievo ed affermò che se eravamo incapaci di sottostare alle regole e alla disciplina dei posti di lavoro, saremmo stati ritrasferiti nelle carceri giudiziarie della via “Miklosiceva”, dove c’erano razioni di fame rispetto a “Marindom”.

Verso la metà di maggio, furono presi di mira dalle guardie due nostri connazionali malati e Massimo Fabris si assunse le difese dei due amici; quando sapemmo che Fabris era stato aggregato alle celle di rigore, concordammo un’azione dimostrativa a suo favore chiedendo il trasferimento di tutti noi nelle carceri della via Miklosiceva.

Ci accusarono di insubordinazione e ci caricarono pressochè di peso – a furia di spinte, urtoni, calci e manrovesci - su un camion diretto ad un altro campo di lavoro; nel trambusto le guardie pensarono anche di poter identificare una mezza dozzina di recalcitranti tra cui Carlo Visinko, Romolo Rainò, Ferdinando Camellotti, Attilio Iacovino, Enzo Del Papa, da aggregare a Fabris, ed uno alla volta noi prescelti fummo avviati in una cella di rigore, dove in quei dodici metri quadrati si doveva dormire a turno.

Con i detenuti sloveni, trovati la’ dentro, si era in ventidue a rubarci l’aria che filtrava dai tre fori aperti in un muro edificato davanti alla finestra della cella.

Nella cella accanto c’era un gruppo di “cominformisti” sloveni, tra cui tali Weiss, Colnar, Bohinc, Malensek, Comor coi quali riuscimmo a scambiare qualche parola: tra loro erano un ex Direttore del nuovo quotidiano di Lubiana, un ex “Sindaco” comunista della città di Kranj, altri ex combattenti antifranchisti della guerra civile spagnola o ex deportati del campo nazista di Dachau.

Essi ci chiesero notizie di un leader comunista triestino Vittorio Vidali, che avrebbe preso posizione contro il regime di Tito.

 

26)  Finalmente Liberi   OLTRE LA SBARRA     (estratto da Pag. 246)

 

Ci parve di sognare quando il 6 giugno 1949 ritornammo al “Marindom” dopo i venti giorni trascorsi nelle celle di rigore della via Miklosiceva.

L’8 giugno, un mercoledi, nelle prime ore del pomeriggio un paio di sottufficiali della milizia popolare venne a cercarci un’altra volta: avevano con sé un lungo elenco di nomi di prigionieri italiani, e quanti venivano chiamati dovevano schierarsi davanti alla baracca della Direzione.

Il giorno dopo cominciò il rituale della stiratura degli abiti e della risuolatura delle scarpe: credemmo allora di poter sperare nella partenza verso il confine.

Venerdi sera una guardia ci disse che “probabilmente” saremmo partiti un paio d’ore più tardi.

Partimmo prima di mezzanotte e la mattina dopo, verso le sette, eravamo ammassati in sala d’attesa dell’ex stazione ferroviaria “Gorizia Montesanto”, in zona jugoslava ma ad una ventina di metri dal confine con l’Italia.

L’ordine di uscire arrivò soltanto poco dopo le dieci e mezzo, e davanti alla stazione ritrovammo i camion che dovevano portarci fino al valico di frontiera, già intravisto cinque mesi prima.

Ci fecero allineare a pochi passi dalla sbarra di confine ed oltre un cavalcavia ferroviario riuscimmo a scorgere una pattuglia di carabinieri, ma senza vedere i prigionieri jugoslavi destinati ad essere scambiati con noi, che però arrivarono in venti alcuni minuti più tardi.

Un funzionario jugoslavo cominciò a leggere a voce alta i nostri nomi in ordine alfabetico; di tanto in tanto si fermava e dall’altra parte venivano letti i nomi di alcuni prigionieri sloveni.

Coloro che venivano chiamati potevano superare la “striscia della terra di nessuno”.

Si gridò assieme “Viva l’Italia” quando anche l’ultimo del nostro gruppo non fu più in territorio jugoslavo:

Massimo Fabris strappò la rammendatura di una sua coperta e ne estrasse un rettangolo di stoffa bianco-rossa e verde, che sventolò di fronte ai nostri ex carcerieri.

Ci avviarono verso un edificio a pochi passi dal confine e alcune signore di un’organizzazione assistenziale offersero bibite, biscotti e tartine.

Qualche agente in borghese – e più tardi qualche signora – ci fece vedere le fotografie di diverse persone, scomparse nel 1945, chiedendoci inutilmente se avevamo mai visto quei volti durante la nostra prigionia.

Chiedemmo se si sapeva qualcosa di imminenti scambi di prigionieri, ma ci parve di capire che ormai erano ben pochi i detenuti sloveni in Italia da offrire in cambio all’altra parte.

Fornimmo altre informazioni sugli amici rimasti in carcere in Jugoslavia: il funzionario confermò che aveva preso nota di tutte le nostre dichiarazioni.

I verbali – volle rassicurarci – sarebbero stati trasmessi senza indugio agli uffici centrali.

 

F I N I S

 

 

Annotazione di Rudi Decleva:

 

Caro Furio,

sono stato suo compagno di banco nella IV Liceo Scientifico “Antonio Grossich” e tuttora mi considero suo grande estimatore ed amico.

 

Dassovich è nato a Fiume nel 1928.

Dopo il rientro in Italia nel 1949, egli riprese gli studi che aveva dovuto interrompere tre anni prima, laureandosi nel 1956 .

Frequentò negli USA la Columbia University di New York, dove ottenne il “Master of Arts” della Facoltà di Economia.

E’ stato Assessore al Bilancio nell’ Amministrazione Provinciale di Trieste ed Assistente di Economia politica e Politica economica nell’Università di Trieste.

 

La sua obiettività nella descrizione delle vicende giuliane, triestine e fiumane del dopoguerra – riportate in un’ampia collana di opere che spero abbiano ancora ad incrementarsi – lo pone tra i vertici storici contemporanei delle vicissitudini del nostro travagliato confine orientale.

 

Rudi Decleva