GLI  ITALIANI  CHE  NON  VINSERO  QUELLA  GUERRA

 

La guerra vittoriosa del 1915-1918 fu combattuta per liberare “Trento e Trieste” cioè  territori austriaci abitati da popolazioni di cultura e lingua italiane. Vennero perciò annesse al Regno d’Italia il Trentino con le Provincie di Trento e Bolzano, la Venezia Giulia con le Provincie di Trieste, Gorizia, Pola, Fiume e Zara - quest’ultima una piccola enclave di 20.000 italiani della Dalmazia – e varie isole dell’Adriatico.

Il  4 Novembre 1918 segnò - e segna ancor oggi - il giorno della Vittoria, che veniva celebrata in tutta Italia con sfilate, cerimonie e discorsi davanti a monumenti celebrativi e ai cimiteri di guerra. I seicentomila morti che avevano sacrificato la loro vita per l’Unità della Nazione e per liberare le terre italiane dal giogo straniero furono i soli eroi di quella guerra.

Il Regime, che governava in quei tempi, accentuò per i suoi fini propagandistici questa esaltazione nazionalistica nei nuovi territori redenti per accelerare l’italianizzazione delle minoranze slave e tedesche di questi nuovi territori acquisiti; insensibile se ciò provocava umiliazione ai tanti cittadini italiani, che erano stati costretti a servire in armi l’Imperatore di cui erano stati sudditi, e un mal represso dolore alle vedove e agli orfani dei loro caduti, costretti ad applaudire chi era stato la causa dei loro lutti. Quest’anno qualche Comune del Trentino ha lamentato questa disattenzione ormai centenaria.

Ma come è stata la guerra vissuta dalla parte degli austriaci trentini e austriaci giuliani di lingua italiana?

Questa è la storia che raccontavano quei protagonisti.

L’Imperatore austro-ungarico Francesco Giuseppe era un Monarca illuminato, che governava su 12 gruppi etnici e cioè tedeschi, ungheresi, cechi, polacchi, ucraini, rumeni, croati, slovacchi, serbi, sloveni, italiani e serbo-croati della Bosnia. Franz Joseph concedeva a ciascun gruppo etnico di coltivare la propria cultura, lingua, scuola, religione e tradizioni nella più ampia convivenza sociale.

L’esercito austro-ungarico era pertanto formato da soldati di lingue diverse avendo la preoccupazione di non creare eccessive difficoltà nella esecuzione degli ordini. Per questo motivo la lingua di servizio e quella di comando era il tedesco mentre per le istruzioni veniva usata la lingua parlata da almeno un quinto della truppa, e gli Ufficiali dovevano essere idonei a farsi comprendere nelle lingue volta per volta necessarie.

Nelle Provincie meridionali dell’Impero – Friuli, Trieste, Istria e Litorale - era di stanza il 97° Reggimento Fanteria istituito sin dal 1883 e formato oltre che da soldati di lingua italiana – che erano la maggioranza - anche da sloveni e croati in grado di  parlare e comprendere l’italiano. Quando nel 1914 i nostri furono mandati a battersi a 1.000 km. da Trieste, a Leopoli nella Galizia ucraina contro i russi, essi partirono cantando la “Gigia Valzer”.

 Chi era la Gigia Valzer?

La “Gigia Valzer” era una canzone cantata in coro al passo militaresco, che faceva pensare alla famiglia lontana ma con simpatia per la diserzione, e il desiderio del ritorno a casa per sposare quella mitica donna frequentarice di bettole e osterie. Un po’ come capitò 20 anni dopo con la sofisticata Lilì Marlen, che fu il sogno di tutti i soldati tedeschi al fronte, con la differenza però che la “Gigia Valzer” ne era l’opposto perché era un canto antimilitaristico.

I nostri non erano nati per fare la guerra, non erano guerrieri come i prussiani o come i bosniaci, che erano descritti sul fronte italiano tremendi nel difendere col pugnale le posizioni, indomiti e senza paura, al punto che gli attacchi regnicoli si indirizzavano sempre contro altri soldati dell’Impero perché dove c’erano i bosniaci la convinzione era che non si passava. I nostri somigliavano ai furlani, quelli della Furlania, che spavaldamente sul Fronte italiano si davano coraggio fra di loro dicendosi:  “Se i vien, scampim; se no, batim dur”(Se vengono, scappiamo; se no, combattiamo).

Un altro canto diceva:

 

                 “E sù per la Galizia e sò per i Carpazi

                   vestidi de pajazi ne tocarà morir” .

 

E ancora:  “Quà se magna, quà se beve, quà se lava la gamela.

                    Zigaremo “Demoghela” fin che l’ultimo sarà.”

 

Cioè gridavano “Demoghela” nel senso di darsela a gambe.

E così fu che il 97° Reggimento fu soprannominato Reggimento “Demoghela”, il Reggimento di coloro che scappano, e che buttano le armi, e che alzano le mani in segno di resa pur di riportare a casa la propria pelle.

Il battesimo del fuoco per il 97° avvenne il 26 Agosto 1914 e fu un assoluto disastro: più del 70 percento del Reggimento fu perso per morti, feriti e soprattutto diserzioni. Immediatamente l’Alto Comando indicò il 97° quale capro espiatorio della grave sconfitta e il Comandante d’Armata Conte Pflanzer-Baltin, convocò Ufficiali e soldati, e pubblicamente li insultò sputando per disprezzo e gridando vergogna.

La reazione tra i nostri fu immediata e gli Ufficiali - rischiando la Corte marziale per insubordinazione e inosservanza delle procedure - decisero di presentare una petizione direttamente all’Imperatore affinchè l’insulto venisse ritirato e fosse ridato l’Onore al 97°.

E così avvenne che lo stesso Conte Pflanzer-Baltin riunì in seguito Ufficiali e truppa dando soddisfazione ai nostri, ma ciò non toglie che le cose in Galizia andarono “storte”.

Non fu così per i fiumani che si batterono inquadrati negli Honved ungheresi, dato che Fiume era un Corpo Separato dell’Ungheria. Francesco Resaz, due volte ferito, guadagnò quattro medaglie di bronzo e due d’argento, venendo proposto per la Medaglia d’oro con diritto al titolo di Eroe nazionale. A Pècs, 200 km. da Budapest,  la cittadinanza nel 1932 dedicò loro un bassorilievo in bronzo e marmo con la seguente dedica:    

 

        Il Regio Magiaro 19° Reggimento Fanteria Honved di Pècs

        Ad imperitura gloria dei Combattenti del IV Battaglione Fiumano.

 

E mentre gli italiani venivano mandati in Galizia “innocenti a morir” per l’Imperatore, l’Imperatore - subito dopo l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915 - internava nel Campo di Internamento di Tapiosuly (ora Sùlysàp) a 36 km. da Budapest, intere famiglie fiumane che erano ritenute compromesse con l’irredentismo per l’Italia. Furono circa 800 i fiumani internati e di questi ben 149 perirono per denutrizione, freddo e colera, mentre nacquero 17 bambini e ci furono pure due matrimoni.

Nel 1996 una Delegazione della Società di Studi Fiumani di Roma si recò sul posto erigendo un cippo-ricordo con questa dicitura:

Qui furono sepolti 149 italiani di Fiume. La Società di Studi Fiumani di Roma li affida alla pietà della nobile Nazione ungherese a perenne ricordo di una città che le appartenne”. Il Sindaco di Sulysàp - non richiesto - disse: “Vi chiediamo scusa per l’ingiustizia che i vostri Concittadini hanno subito”.

Ma cosa successe ai “fortunati” che si dettero prigionieri nelle mani dei russi?

Si calcola che almeno 25.000 soldati trentini, triestini, istriani, fiumani e dalmati di lingua italiana e facenti parte dell’esercito austro-ungarico vennero fatti prigionieri dai russi.

Per tale motivo, l’Italia decise di inviare il Ten. Col. dei Carabinieri Cosma Manera in Russia con lo scopo di convincere questi poveri soldati ad arruolarsi nella appena costituita “Missione Militare Italiana”, e raggiungere il fronte italiano per combattere e liberare le loro terre ancora sotto il giogo austriaco.

La vita nei campi di prigionia russi era pura lotta per la sopravvivenza caratterizzata da fame, freddo, neve che copriva i tetti, pidocchi, malattie e nessun futuro, perciò non fu difficile trovare le adesioni di questi disperati che con l’opzione per la nazionalità italiana accettarono di cambiare la divisa austriaca col grigioverde italiano. Ciò malgrado circa 10.000 di loro non accettarono il ricatto di tornare a casa vuoi per fedeltà all’Imperatore o perché non volevano più sentir parlare di guerre dopo la tremenda esperienza vissuta in Galizia.

Ma anche i Capi della rivolta Trotsky e Lenin visitarono i prigionieri “italiani” e dissero ai prigionieri: “Aderite alla rivoluzione del proletariato; non avete da perdere che solo le catene” e una parte di essi vi aderirono. Tra questi il fiumano Guerrino Zustovich che si schierò con i “rossi” e a guerra finita impiegò un anno per far ritorno a casa a piedi con la preziosa  foto che lo ritraeva insieme ai due Padri rivoluzionari.

I Redenti vennero concentrati a Kirsanoff e da qui fu organizzato il loro rientro in Italia via porto di Arcangelo passando per i porti della Francia e dell’Inghilterra, ma si poterono effettuare solo due viaggi per un totale di circa 4.000 persone e l’operazione si interruppe per il ghiaccio che bloccava la navigazione nei mesi invernali e perché nel frattempo era scoppiata la Rivoluzione russa di Ottobre.

I Redenti - non potendo più rientrare in Italia - furono spostati a Vladivostok e nella Siberia Orientale in appoggio all’esercito anti-rivoluzionario e presidiando la ferrovia Transiberiana, ed una parte in Cina dove a Tientsin c’era la Concessione Italiana.

Come sempre succede, sui libri di storia che parlano della Prima Guerra Mondiale si legge solo delle grandi battaglie di Verdun, della Marna, di Caporetto e del Piave mentre poco si parla dell’asprezza delle battaglie sul fronte russo.

Arrivata l’annessione della Venezia Giulia e di Fiume all’Italia, le vistose perdite giuliane e fiumane in Galizia, gli internati di Tapiosuly, la gloria del 19° Honved e la tragedia del 97° furono ignorati per lasciare il posto solo ai Caduti regnicoli che avevano combattuto e vinto contro l’Austria, al ricordo dei quali vennero eretti targhe, lapidi e monumenti celebrativi.

Per le vedove e gli orfani non ci furono i Sacrari di Redipuglia e Oslavia, e neppure  semplici lapidi ove piangere i loro cari, dispersi e abbandonati per sempre in Galizia, mentre per i sopravissuti dovette bastare la gioia di aver riportato la pelle a casa dall’inferno russo.

E con essi svanirono nel dimenticatoio e nell’invisibilità anche i fortunati superstiti della “Legione Redenta in Siberia” - rientrati in Italia solo nel 1920 - ai quali tuttavia il Regime successivamente concesse di fregiarsi con un Distintivo speciale, denominato ironicamente “Distintivo per le Fatiche di Guerra”.

 

rodolfo decleva        Sussisa di Sori   10 Agosto 2015