MONTESQUIEU

 

 

 

Letture da: "Lo Spirito delle Leggi"

 

 

 

Lo Spirito delle Leggi

prima lettura:

Libro undicesimo

 

Delle leggi  che determinano la liberta' politica nei suoi rapporti con la Costituzione. (1).

 

Traduzione di Beatrice Boffito Serra; note di Robert Derathe'.

 

Parte terza

 

XVI. Del potere legislativo nella repubblica romana.

Non vi erano diritti da disputarsi sotto i decemviri; ma quando torno' la liberta', si videro rinascere le rivalita': finche' resto' qualche privilegio ai patrizi, i plebei glieli tolsero. 

Non sarebbe stato un gran male se i plebei si fossero accontentati di privare i patrizi delle loro prerogative, e se non li avessero offesi nella loro qualita' stessa di cittadini. 

Quando il popolo si riuniva per curie e per centurie, era composto di senatori, di patrizi e di plebei. Nelle dispute, i plebei conquistarono questo punto (a) per poter fare da soli, senza i patrizi e senza il senato, leggi che si dissero plebisciti, e i comizi in cui si fecero vennero chiamati comizi tributi. 

Vi furono, in tal modo, casi in cui i patrizi (b) non presero nessuna parte al potere legislativo (c) e furono sottomessi al potere legislativo d'un altro corpo dello Stato. 

Fu un'aberrazione della liberta'. Per stabilire la democrazia, il popolo offese i principii stessi della democrazia. Sembrava che un potere tanto esorbitante avrebbe potuto annientare l'autorita' del senato; ma Roma aveva istituzioni ammirevoli. 

Ne aveva soprattutto due: dall'una, il potere legislativo del popolo era regolato; dall'altra era limitato. 

I censori, e prima di essi i consoli (d), formavano e creavano, per cosi' dire, il corpo del popolo ogni cinque anni; esercitavano la legislazione proprio sulla classe che aveva il potere legislativo. 

"Tiberio Gracco, censore" dice Cicerone, "trasferi' gli affrancati nelle tribu' della citta', non con la forza della sua eloquenza, ma con una parola e con un gesto; e se non l'avesse fatto, questa repubblica, che oggi noi sosteniamo a fatica, non la avremmo piu'" (34). 

D'altra parte, il senato aveva il potere di togliere, per cosi' dire, la repubblica dalle mani del popolo, mediante la creazione di un dittatore, davanti al quale il sovrano chinava la testa, e le leggi piu' popolari restavano in silenzio (e). 

(a): Dionigi d'Alicarnasso, lib. XI, cap. 45.

(b): Per le leggi sacre, i plebei furono in grado di fare dei plebisciti, da soli e senza che i patrizi fossero ammessi nella loro assemblea. Dionigi d'Alicarnasso, lib. VI, cap. 89 e lib. VII, cap. 16.

(c): In virtu' della legge fatta dopo l'espulsione dei decemviri, i patrizi furono sottomessi ai plebisciti, quantunque non vi potessero dare il loro voto. Tito Livio, lib. III, cap. 55, e Dionigi d'Alicarnasso, lib. XI, cap. 45. Questa legge fu confermata da quella di Publilio Filone, dittatore, nell'anno 416 di Roma. Tito Livio, lib. VIII, cap. 12.

(d): Nell'anno 312 di Roma i consoli facevano ancora il censo, come appare in Dionigi d'Alicarnasso, lib. XI, cap. 63.

(e): Come quelle che permettevano di appellarsi al popolo contro le disposizioni di tutti i magistrati.

 

XVII. Del potere esecutivo nella stessa repubblica. 

Se il popolo fu geloso del potere legislativo, meno lo fu del potere esecutivo. Lo lascio' quasi tutto al senato e ai consoli; e non si riservo' che il diritto di eleggere i magistrati e di confermare gli atti del senato e dei generali. 

Roma, la cui passione era di comandare, la cui ambizione era di sottomettere tutto, che aveva sempre usurpato, che usurpava ancora, aveva continuamente gravi problemi; i suoi nemici congiuravano a suo danno o essa stessa congiurava a danno dei suoi nemici. 

Costretta a condursi, da una parte con un coraggio eroico, e dall'altra con una saggezza consumata, lo stato delle cose richiedeva che il senato avesse la direzione degli affari. Il popolo disputava al senato tutti i rami del potere legislativo, perche' era geloso della propria liberta'; non gli disputava i rami del potere esecutivo, perche' era geloso della propria gloria. 

La parte che prendeva il senato al potere esecutivo era tanto grande che Polibio (a) dice che gli stranieri ritenevano tutti che Roma fosse un'aristocrazia (35). Il senato disponeva dell'erario pubblico e dava in appalto le imposte; era l'arbitro degli affari degli alleati; prendeva le decisioni sulla guerra e la pace, e dirigeva per tal riguardo i consoli; fissava il numero delle truppe romane e delle truppe alleate, distribuiva le province e gli eserciti ai consoli, oppure ai pretori e, spirato l'anno di comando, poteva dar loro un successore; decretava i trionfi, riceveva le ambascerie e ne inviava; nominava i re, li premiava, li puniva, li giudicava, concedeva o ritirava loro il titolo di alleati del popolo romano. 

I consoli facevano le leve delle truppe che dovevano condurre la guerra; comandavano gli eserciti di terra e di mare e disponevano degli alleati; avevano, nelle province, tutto il potere della repubblica; accordavano la pace ai popoli vinti, imponevano loro le condizioni, o le rimettevano al senato. 

Nei primi tempi, quando prendeva qualche parte agli affari della guerra e della pace, il popolo esercitava il potere legislativo piuttosto che il potere esecutivo. Non faceva che confermare quello che avevano fatto i re e, dopo di loro, i consoli o il senato. 

Lungi dall'essere il popolo l'arbitro della guerra, vediamo che i consoli o il senato spesso lo facevano malgrado l'opposizione dei suoi tribuni. Tuttavia, nell'ebbrezza dei successi, il popolo accrebbe il suo potere esecutivo. Creo' (b) quindi lui stesso i tribuni delle legioni, che fino allora erano stati nominati dai generali, e qualche tempo innanzi la prima guerra punica stabili' che esso solo avrebbe avuto il diritto di dichiarare la guerra (c).  

(a): Lib. VI, cap. 13.

(b): L'anno 444 di Roma, Tito Livio, Prima deca, lib. IX, cap. 30. Poich� la guerra contro Perseo sembrava rischiosa, un senatoconsulto ordin� che questa legge fosse sospesa, e il popolo acconsent�. Tito Livio, Quinta deca, lib. II, cap. 31.

(c): Lo strappo' al senato, dice Freinsheim, Seconda deca, lib. VI.

 

XVIII. Del potere giudiziario nel governo di Roma. (36).

Il potere giudiziario fu dato al popolo, al senato, ai magistrati, a determinati giudici. Bisogna vedere come fu distribuito. Comincero' dagli affari civili. 

I consoli (a) giudicarono dopo i re, come i pretori giudicarono dopo i consoli. 

Servio Tullio si era spogliato della giudicatura degli affari civili; non li giudicarono neppure i consoli, se non in casi rarissimi (b), che per questa ragione si dissero Straordinari (c). Essi si accontentarono di nominare i giudici e di formare i tribunali che dovevano giudicare. Dal discorso di Appio Claudio, riportato da Dionigi d'Alicarnasso (d), sembra che, sin dall'anno 259 di Roma, cio' fosse considerato come una consuetudine presso i Romani, e riportarla a Servio Tullio non e' farla risalire troppo lontano. 

Ogni anno il pretore formava una lista (e) o albo di coloro che sceglieva per adempiere alle funzioni di giudice durante l'anno della sua magistratura. Se ne prendeva il numero sufficiente per ogni causa. 

Cio' si pratica presso a poco allo stesso modo in Inghilterra. E, cosa molto favorevole alla liberta' (f) il pretore prendeva i giudici con il consenso delle parti (g). Il gran numero di ricusazioni che si possono fare oggi in Inghilterra equivalgono, presso a poco a questa usanza (37). 

I giudici non decidevano che di questioni di fatto (h); per esempio se una somma era stata pagata o no; se una azione era stata commessa o no. Ma le questioni di diritto (i), in quanto richiedevano una certa capacita', erano deferite al tribunale dei centumviri (j) (38). 

I re si riserbarono di giudicare gli affari penali, e in questo successero loro i consoli. Fu in conseguenza di questa autorita' che il console Bruto fece morire i suoi figli e tutti coloro che avevano congiurato per i Tarquini. Tale potere era esorbitante. 

Avendo gia' il potere militare, i consoli ne portavano l'esercizio perfino negli affari della citta'; e i loro procedimenti, spogli delle forme della giustizia, erano azioni violente piuttosto che giudizi. 

Cio' dette luogo alla legge Valeria, che permise di appellarsi al popolo contro tutti i provvedimenti dei consoli che mettessero in pericolo la vita di un cittadino. I consoli non furono piu' in grado di pronunciare una pena capitale contro un cittadino romano , se non per volonta' del popolo (k). 

Si vede, nella prima congiura per il ritorno dei Tarquini, che il console Bruto giudica i colpevoli; nella seconda si convocano il senato e i comizi, per giudicare (l). 

Le leggi che vennero chiamate sacre (39), dettero, ai plebei, dei tribuni i quali formarono un corpo che dapprima ebbe enormi pretese (40). Non si sa cosa fosse maggiore, o nei plebei l'insolenza di chiedere, o nel senato la condiscendenza e la facilita' di accordare. 

La legge Valeria aveva permesso di appellarsi al popolo, cioe' al popolo composto di senatori, di patrizi e di plebei. 

I plebei stabilirono che gli appelli fossero portati dinanzi a loro. In breve, si mise in dubbio che i plebei potessero giudicare un patrizio; questo fu motivo di una disputa che il caso Coriolano suscito', e che fini' con esso. Coriolano, accusato dai tribuni dinanzi al popolo, sosteneva, contro lo spirito della legge Valeria, che, essendo patrizio, non poteva essere giudicato che dai consoli; i plebei, contro lo spirito della medesima legge, pretesero che non dovesse venir giudicato che da loro soli, e lo giudicarono. 

La Legge delle Dodici Tavole (41) modifico' tutto cio'. Ordino' che non si potesse decidere della vita di un cittadino se non nelle grandi assemblee del popolo (m). Quindi il corpo dei plebei, o, che e'la stessa cosa, i comizi tributi, non giudicarono piu' che reati la cui pena era soltanto un'ammenda pecuniaria. Ci voleva una legge per infliggere una pena capitale: per condannare a una pena pecuniaria bastava un plebiscito. 

Questa disposizione di legge delle Dodici Tavole fu molto saggia. Venne a formare un mirabile accordo fra il corpo dei plebei e il senato. Infatti, poiche' la competenza degli uni e degli altri dipendeva dalla gravita' della pena e dalla natura del delitto, bisognava che si concertassero. 

La legge Valeria (42) tolse del tutto quanto restava a Roma del governo che aveva qualche relazione con quello dei re greci dei tempi eroici. I consoli si trovarono senza potere per la punizione dei reati. 

Per quanto tutti i reati siano pubblici, conviene tuttavia distinguere quelli che interessano maggiormente i cittadini in se', da quelli che interessano maggiormente lo Stato nei rapporti che ha coi cittadini. 

I primi sono detti privati, i secondi sono i reati pubblici (43). 

Il popolo giudicava esso stesso i reati pubblici; quanto ai privati, nomino' per ogni reato , mediante una commissione particolare, un questore che li perseguisse. Si trattava spesso di un magistrato, qualche volta di un privato, che veniva scelto dal popolo. 

Lo si chiamava questore del parricidio. Se ne fa menzione nella legge delle Dodici Tavole (n). 

Il questore nominava quello che chiamavasi il giudice della causa, il quale estraeva a sorte i giudici, formava il tribunale e presiedeva sotto di lui al giudizio (o). 

E' bene far osservare qui la parte che aveva il senato nella nomina del questore, affinche' si veda com'erano equilibrati i poteri a questo riguardo. 

Talvolta il senato faceva eleggere un dittatore che esercitasse le funzioni del questore (p); talaltra ordinava che il popolo fosse convocato da un tribuno, perche' nominasse un questore (q); infine, qualche volta il popolo nominava un magistrato perche' facesse il suo rapporto al senato su un dato delitto, e gli domandasse di nominare un questore, come si vede nel giudizio di Lucio Scipione (r) in Tito Livio (s). 

L'anno 604 di Roma alcune di queste commissioni furono rese permanenti (t). 

A poco a poco tutte le materie penali vennero divise in diverse parti che furono chiamate quaestiones perpetuae. Vennero creati diversi pretori, e a ciascuno di essi si attribui' una di quelle quaestiones. 

Si conferi' loro, per un anno, il potere di giudicare i reati pertinenti, dopo di che andavano a governare le loro province. 

A Cartagine, il senato dei cento era composto di giudici eletti a vita (u). A Roma, invece, i pretori erano annuali e i giudici non duravano in carica nemmeno un anno, poiche' li si sceglieva per ciascuna causa. Si e' visto, nel capitolo quarto di questo libro, quanto fosse favorevole alla liberta' questa disposizione, sotto certi governi. 

I giudici furono scelti nell'ordine dei senatori fino al tempo dei Gracchi. Tiberio Gracco fece ordinare che fossero presi in quello dei cavalieri; cambiamento tanto considerevole che il tribuno si vanto' d'avere, con una sola rogazione (44) spezzato le reni all'ordine dei senatori. 

Bisogna notare che i tre poteri possono essere ben distribuiti in rapporto alla liberta' della costituzione, e non esserlo altrettanto in rapporto alla liberta' del cittadino. 

A Roma, poiche' il popolo aveva la maggior parte del potere legislativo, una parte del potere esecutivo e una parte del potere giudiziario, si trattava di equilibrare questo suo grande potere con un altro. Il senato aveva bens�' una parte del potere esecutivo, e qualche ramo del potere legislativo (v), ma cio' non bastava per controbilanciare il popolo. Bisognava che il senato partecipasse al potere giudiziario; e vi partecipava quando i giudici erano scelti fra i senatori. 

Allorche' i Gracchi privarono i senatori del potere giudiziario (w), il senato non pote' piu' resistere al popolo. 

Essi offesero dunque la liberta' della costituzione per favorire la liberta' del cittadino; ma questa si perdette con quella. Ne derivarono mali infiniti. 

Si cambii' la costituzione in un periodo in cui , nel divampare delle discordie civili, v'era appena una costituzione. I cavalieri non costituirono piu' l'ordine mediano che univa il popolo col senato, e la catena della costituzione fu spezzata. 

C'erano anche ragioni particolari che dovevano impedire di trasferire il potere giudiziario ai cavalieri (45). 

La costituzione di Roma era fondata su questo principio, che dovevano essere soldati coloro che avevano beni sufficienti per rispondere alla repubblica della propria condotta. I cavalieri, essendo piu' ricchi, formavano la cavalleria delle legioni. Quando la loro dignita' fu aumentata, essi non vollero piu' servire in questa milizia; convenne reclutare un'altra cavalleria; Mario fece affluire ogni specie di uomini nelle legioni, e la repubblica ando' in rovina (x). 

Per di piu', i cavalieri erano gli appaltatori delle imposte della repubblica; erano rapaci, seminavano sventure su sventure e facevano nascere i pubblici bisogni dai bisogni pubblici. Lungi dal conferire a gente simile il potere di giudicare, sarebbe stato meglio tenerla costantemente sotto gli occhi dei giudici. 

Bisogna dir questo a lode delle antiche istituzioni francesi: esse hanno trattato con gli uomini d'affari con la stessa diffidenza che si riserba ai nemici. 

Allorche', a Roma, l'amministrazione della giustizia fu trasferita agli appaltatori delle imposte, non vi fu piu' virtu', piu' ordinamento civile, piu' leggi, piu' magistratura, piu' magistrati (46). 

Si trova una pittura molto sincera di cio' in alcuni frammenti di Diodoro di Sicilia e di Dione. 

"Muzio Scevola" dice Diodoro (y) "volle restaurare gli antichi costumi e vivere del proprio con frugalita' e onesta', poiche' i suoi predecessori, avendo fatto lega con i pubblicani che allora, a Roma, detenevano il potere giudiziario, avevano empito la provincia di ogni genere di delitti. Ma Scevola fece giustizia dei pubblicani  e fece mandare in prigione quelli che vi trascinavano gli altri." 

Dione ci dice (z)  che Publio Rutilio, suo luogotenente, il quale non era meno odioso ai cavalieri, fu accusato, al suo ritorno, di aver ricevuto dei regali, e fu condannato a un'ammenda. Egli fece immediatamente cessione dei propri beni. La sua innocenza fu provata dal fatto che gli si trovarono averi in quantita' molto inferiore a quanto lo si era accusato di aver rubato, e che pote' mostrare i titoli delle sue proprieta'. Egli non volle piu' restare nella citta', con gente simile. 

"Gli italici" dice Diodoro (za) "acquistavano in Sicilia torme di schiavi per lavorare i campi e aver cura del bestiame, e rifiutavano loro il sostentamento. Quegli infelici erano costretti ad andare a rubare per le strade, armati di lance e di mazze, coperti di pelli di animali e con grossi cani intorno. Tutta la provincia fu devastata, e la gente del luogo non poteva dire di possedere se non quello che stava dentro le mura della citta''. Non c'era ne' proconsole, ne' pretore, che potesse o volesse opporsi a questo disordine, e che osasse punire questi schiavi, perche' appartenevano ai cavalieri, che a Roma avevano il potere giudiziario" (zb). 

Questa fu, tuttavia, una delle cause della rivolta degli schiavi. 

Diro' soltanto una parola in proposito: una professione che non ha ne' puo' avere altro scopo  che il guadagno, una professione che chiedeva sempre, ed alla quale non si domandava mai niente, una professione sorda e inesorabile, che impoveriva le ricchezze e perfino la miseria, non doveva detenere, a Roma, il potere giudiziario. 

(a): Non c'e' dubbio che i consoli, prima della creazione dei pretori, avessero avuto l'amministrazione della giustizia civile. Vedere Tito Livio, Prima deca, lib. II, cap. 1; Dionigi d'Alicarnasso, lib. X, cap. 1, e ibid. cap. 19.

(b): Spesso i tribuni giudicarono da soli; nulla li rese piu' odiosi. Dionigi d'Alicarnasso, lib. XI, cap. 46.

(c): Judicia extraordinaria. Vedere le Istituzioni, lib. 4, tit. 4, 10.

(d): Lib. VI, cap. 24.

(e): Album iudicum.

(f): "I nostri antenati non hanno voluto" dice Cicerone in Pro Cluentio, cap. 43 "che un uomo, a proposito del quale le parti non si fossero accordate, potesse essere giudice, non soltanto della reputazione di un cittadino, ma nemmeno della minima questione pecuniaria".

(g): Vedere nei frammenti della Legge Servilia, della Cornelia e di altre, in qual maniera queste leggi designavano i giudici nei delitti che si proponevano di punire. Spesso erano nominati a scelta, talora a sorte, o infine a sorte mista a scelta.

(h): Seneca, De benef., lib. III, cap. 7, in fine.

(i): Vedere Quintiliano, Orat. Instit. lib. IV, cap. 2.

(j): Magistrati, detti decemviri, presiedevano al giudizio, il tutto sotto la direzione di un pretore. L. 2, e 24, ff. De orig. jur.

(k): "Quoniam de capite civis romani, injussu populi romani, non erat permissum consulibus jus dicere". Vedere Pomponio, leg. 2, e 16, ff. De orig. jur.

(l): Dionigi d'Alicarnasso, lib. V, cap. 57.

(m): I comizi centuriati. Infatti Manlio Capitolino fu giudicato in questi comizi. Tito Livio, Prima deca, lib. VI, cap. 20.

(n): Dice Pomponio nella legge 2, � 23, al Digesto De orig. jur. I., 2, 2.

(o): Vedere un frammento d'Ulpiano, che ne riporta un altro della Legge Cornelia. Lo si trova in Collazione delle leggi mosaiche e romane. Tit. I. De sicariis et homicidiis.

(p): Cio' aveva luogo soprattutto nei delitti commessi in Italia, dove il senato esercitava una ispezione particolare. Cfr. Tito Livio, Prima deca, lib. IX, cap. 26, sulle congiure di Capua.

(q): Coso' fu nel processo per la morte di Postumio, l'anno 340 di Roma. Cfr. Tito Livio, lib. IV, cap. 50.

(r): Questo giudizio fu pronunciato l'anno 567 di Roma.

(s): Lib. VIII (in realta' XXXVIII, 54).

(t): Cicerone, in Bruto, cap. 27.

(u): Cio' � provato da Tito Livio, lib. XLIII, cap. 46, il quale dice che Annibale rese annuale la loro magistratura.

(v): I senatoconsulti avevano valore per un anno, anche se non fossero stati confermati dal popolo. Dionigi d'Alicarnasso, lib. IX, cap. 37.

(w): Nell'anno 630 di Roma.

(x): Capite censos plerosque. Sallustio, Guerra jugurtina, cap. 84.

(y): Frammento di questo autore: lib. XXXVI (in realta' XXXVII), nella raccolta di Cosatantino Porfirogenito, Della virtu' e dei vizi.

(z): Frammento della sua storia, tratto dallo Estratto delle virtu' e dei vizi.

(za): Frammento del libro XXXIV, cap. 2 dell'Estratto delle virtu' e dei vizi.

(zb): "Penes quos Romae tum judicia erant, atque ex equestri ordine solerent sortito judices eligi in causa praetorum et proconsulum, quibus, post administratam provinciam, dies dicta erat.

 

XIX. Del governo delle province romane. 

E' cosi' che i tre poteri furono distribuiti nella citta', ma erano ben lungi dall'esserlo, del pari, nelle province. La liberta' era al centro, la tirannide alle estremita'. 

Finche' Roma non domino' che in Italia, i popoli furono governati come confederati. Si seguivano le leggi di ciascuna repubblica. Ma quando estese le sue conquiste , quando il senato non ebbe l'occhio direttamente sulle province, quando i magistrati che stavano a Roma non potevano piu' governare l'impero, convenne inviare dei pretori e dei proconsoli. Gli inviati avevano una potesta' che riuniva quella di tutte le magistrature romane, che dico? Perfino quella del senato, perfino quella del popolo (a). 

Erano magistrati dispotici, che convenivano assai alla lontananza dei luoghi dov'erano inviati. Esercitavano i tre poteri; erano, se posso servirmi di questo termine, i pascia' della repubblica (47). 

Abbiamo detto altrove (b) che nella repubblica gli stessi cittadini detenevano, per la natura delle cose, gli impieghi civili e militari. Cio' fa si' che una repubblica conquistatrice non possa comunicare il proprio tipo di governo e reggere lo Stato conquistato secondo le forme della propria costituzione. Infatti, poiche' il magistrato che essa invia ha il potere esecutivo, civile e militare, bisogna bene che abbia il potere legislativo, perche', chi mai farebbe le leggi senza di lui? 

Bisogna che abbia anche il potere giudiziario, perche', chi potrebbe giudicare al di fuori di lui? Bisogna dunque che il governatore che essa invia abbia i tre poteri, come avvenne nelle province romane. 

Una monarchia puo' trasmettere piu' facilmente il proprio governo, perche' i funzionari che invia hanno, gli uni il potere esecutivo civile, e gli altri il potere esecutivo militare (48), il che non porta dietro di se' il dispotismo. 

Era un privilegio di grande conseguenza, per un cittadino romano, quello di non poter essere giudicato che dal popolo. Senza di cio' sarebbe stato sottomesso, nelle province, al potere arbitrario di un proconsole o di un propretore. L'Urbe non conosceva la tirannide, la quale si esercitava soltanto nelle nazioni soggette. 

Quindi nel mondo romano, come a Sparta, coloro che erano liberi erano sommamente liberi, e coloro che erano schiavi erano sommamente schiavi. 

Fino a che i cittadini pagavano i tributi, questi erano imposti con grandissima equita'. Si seguiva il provvedimento di Servio Tullio, il quale aveva diviso tutti i cittadini in sei classi, secondo l'ordine delle loro ricchezze, e fissato il carico dell'imposta in proporzione alla parte che ciascuno aveva nel governo. 

In conseguenza, si sopportava l'entita' del tributo a causa del cospicuo credito che si godeva, e nella modestia del tributo si trovava consolazione alla modestia del credito. 

Un'altra cosa era ammirevole: e cioe' che la divisione stabilita da Servio Tullio per classi, essendo, per cosi' dire, il principio fondamentale della costituzione, l'equita' nella imposizione dei tributi era legata al principio fondamentale del governo, e non poteva essere soppressa che insieme ad esso. 

Ma mentre l'Urbe pagava i tributi senza difficolta', o non li pagava affatto (c), le province venivano spogliate dai cavalieri, che erano gli appaltatori delle imposte della repubblica. Abbiamo detto delle loro vessazioni, e tutta la storia ne e' piena. 

"Tutta l'Asia mi aspetta come un liberatore" diceva Mitridate (d) "tanto odio hanno suscitato contro i romani le rapine dei proconsoli (e), le esazioni degli uomini d'affari e le calunnie dei giudizi" (f). 

Ecco perche' la forza delle province non aggiunse nulla alla forza della repubblica, e al contrario non fece che indebolirla. Ecco perche' le province considerarono la perdita della liberta' di Roma come l'epoca dello stabilirsi della loro.  

(a): Promulgavano i loro editti entrando nelle province.

(b): Lib. V, cap. 18. Vedere anche lib. II, III, IV e V.

(c): Dopo la conquista della Macedonia, a Roma cessarono i tributi.

(d): Arringa tratta da Pompeo Trogo, riportata da Giustino, lib. XXXVII, cap. 4.

(e): Vedere le orazioni Contro Verre.

(f): E' noto che fu il tribunale di Varo a far ribellare i Germani.

 

XX. Fine di questo libro. 

Vorrei ricercare, nei governi moderati che conosciamo, quale sia la distribuzione dei tre poteri, e calcolare da quella il grado di liberta' di cui ciascuno di essi puo' godere. 

Ma non bisogna mai esaurire un argomento a un punto tale da non lasciar niente da fare al lettore. 

Non si tratta di far leggere, ma di far pensare.

 

F  I  N  E

 

Libro XI, prima parte

Libro XI, seconda parte

Libro XI, terza parte

Commentario di Robert Derath�:   I.   II.   III.

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