MONTESQUIEU

 

 

 

Letture da: "Lo Spirito delle Leggi"

 

 

 

Lo Spirito delle Leggi

prima lettura:

Libro undicesimo

 

Delle leggi  che determinano la liberta' politica nei suoi rapporti con la Costituzione. (1).

 

Traduzione di Beatrice Boffito Serra; note di Robert Derath�.

 

Parte seconda

 

VII. Delle monarchie che conosciamo.

Le monarchie che conosciamo (24) non hanno, come quelle di cui abbiamo parlato, la liberta' come fine diretto; esse tendono soltanto alla gloria dei cittadini, dello Stato e del principe. Da questa gloria, tuttavia, risulta uno spirito di liberta' che in questi Stati puo' fare cose altrettanto grandi, e forse contribuire altrettanto alla felicita' quanto alla liberta' stessa. 

I tre poteri non vi sono distribuiti e fusi sul modello della costituzione di cui abbiamo parlato. Hanno ciascuno una distribuzione particolare, a seconda della quale si avvicinano piu' o meno alla liberta' politica; e se non vi si avvicinassero la monarchia degenererebbe in dispotismo. 

 

VIII. Perche' gli antichi non avevano un'idea chiara della Monarchia. 

Gli antichi non conoscevano il governo fondato su un corpo di nobili, e ancor meno il governo fondato su un corpo legislativo formato dai rappresentanti d'una nazione. 

Le repubbliche della Grecia e dell'Italia erano citta' che avevano ciascuna il proprio governo, e che raccoglievano i loro cittadini entro le loro mura. 

Prima che i romani ingoiassero tutte le repubbliche, non c'era quasi nessun re in nessun luogo, in Italia, in Gallia, in Spagna, in Germania; si trattava di piccoli popoli o di piccole repubbliche; l'Africa stessa era sottomessa a una grande repubblica; l'Asia Minore era occupata dalle colonie greche. Non c'era esempio, percio', di rappresentanti di citta', ne' di assemblee di Stati; bisognava andare fino in Persia per trovare il governo di uno solo. 

E' vero che vi erano delle repubbliche federative; parecchie citta' mandavano dei rappresentanti a una assemblea. Insisto tuttavia che non vi era nessuna monarchia del modello suddetto. 

Ecco come si formo' il primo piano delle monarchie che conosciamo. Le nazioni germaniche che conquistarono l'impero romano erano, come si sa, liberissime. Non c'e' che da vedere, in proposito, Tacito sui costumi dei germani.

I conquistatori si sparsero per il Paese; abitavano le campagne, e meno le citta'. Quando stavano in Germania, tutta la nazione si poteva riunire; allorche' furono dispersi nella conquista, cio' non fu piu' possibile. 

Occorreva pero' che la nazione deliberasse sui suoi affari, come aveva fatto prima della conquista; lo fece per mezzo dei rappresentanti. Ecco l'origine del governo gotico fra noi (25). Fu dapprima una mescolanza di aristocrazia e di monarchia. Aveva questo inconveniente, che il basso popolo vi era schiavo. 

Era un buon governo che aveva in se' la capacita' di divenire migliore. 

Venne l'uso di accordare lettere di affrancamento; e in breve la liberta' civile del popolo, le prerogative della nobilta' e del clero, la potenza dei re, si trovarono in tale concerto che non credo vi sia stato sulla terra governo cosi' ben temperato come lo fu questo in ogni parte dell'Europa, finche' si conservo'. Ed e' cosa mirabile che la corruzione del governo d'un popolo conquistatore abbia formato il miglior tipo di governo che gli uomini abbiano potuto immaginare. 

 

IX. Modo di pensare di Aristotele. 

L' imbarazzo di Aristotele si rivela visibilmente quando egli tratta della monarchia (a). Ne stabilisce cinque tipi (26); non le distingue nella forma della costituzione, ma da cose accidentali, come le virtu' o i vizi del sovrano, o da cause estranee, come l'usurpazione della tirannia, o la successione alla tirannia. 

Aristotele mette nell'ordine delle monarchie, e l'impero dei persiani, e il regno di Sparta. Ma chi non vede che l'uno era uno Stato dispotico e l'altro una repubblica? 

Gli antichi, che non conoscevano la distribuzione dei tre poteri nel governo di uno solo, non potevano farsi un' idea giusta della monarchia. 

(b):  Politica, lib. III, cap. 14.

 

X. Modo di pensare di altri uomini politici. 

Per temperare il governo di uno solo, Arriba (a), re dell'Epiro, non immagino' che una repubblica. 

I Molossi, non sapendo come limitare lo stesso potere, elessero due re (b) (27); con cio' si indeboliva lo Stato, piu' che la carica: si volevano due rivali e si avevano due nemici. Due re non erano tollerabili che a Sparta; non vi formavano la costituzione, ma erano una parte della costituzione. 

(a): Cfr. Giustino, lib. XVII, cap. 3. 

(b): Aristotele, Politica, lib. V, cap. 9.

 

XI. Dei re dei tempi eroici, presso i greci.

  Presso i Greci, nei tempi eroici, si stabili' una specie di monarchia che non duro' (a). 

Coloro che avevano inventato qualche arte, che avevano fatto la guerra per il popolo, riunito uomini dispersi o dato loro delle terre, ottenevano il regno per se' e lo trasmettevano ai loro figli. Erano re, sacerdoti e giudici. E' questo uno dei cinque tipi di monarchia di cui parla Aristotele (b), ed e' il solo che possa dare l'idea della costituzione monarchica. Il piano di questa costituzione, tuttavia, e' opposto a quello delle nostre odierne monarchie. 

I tre poteri vi erano distribuiti in modo che il popolo vi aveva il potere legislativo (c), e il re il potere esecutivo col potere giudiziario; mentre nelle monarchie da noi conosciute, il sovrano ha il potere esecutivo e quello legislativo, o almeno una parte del legislativo, ma non giudica. 

Nel governo dei re dei tempi eroici, i tre poteri erano mal distribuiti. Queste monarchie non potevano durare, perche', dal momento che il popolo aveva il potere legislativo poteva, per il minimo capriccio, annientare la sovranita', come fece da per tutto.

Presso un popolo libero, e che deteneva il potere legislativo, presso il popolo rinchiuso in una citta', dove tutto quello che c'e' di odioso diventa ancora piu' odioso, il capolavoro della legislazione consiste nel saper collocare a dovere il potere giudiziario. Ma questo non poteva essere collocato peggio che nelle mani di colui che aveva gia' il potere esecutivo. 

Da quel momento il monarca diveniva terribile. 

Allo stesso tempo, poiche' non aveva il potere legislativo, non poteva difendersi contro di esso, aveva troppo potere, e non ne aveva abbastanza. 

Non si era ancora scoperto che la vera funzione del principe fosse di stabilire dei giudici, non di giudicare lui stesso. La politica opposta rese insopportabile il governo di uno solo. 

Tutti questi re furono cacciati. I Greci non compresero la vera distribuzione dei tre poteri nel governo d'un solo; la compresero soltanto nel governo di parecchi, e questo genere di costituzione chiamarono reggimento politico. (d) (28). 

(a): Aristotele, Politica, lib. III, cap. 14.

(b): Ibid.

(c): Cfr. Plutarco, Vita di Teseo, cap. VIII, cap. 24-25. Tucidide, lib. I.

(d): Cfr. Aristotele, Politica, lib, IV, cap. 8.

 

XII. Del governo di Roma , e come vi furono distribuiti i tre poteri. 

Il governo dei re di Roma aveva un certo rapporto con quello dei re dei tempi eroici presso i Greci. Cadde come gli altri, per il suo difetto generale, quantunque in se', e nella sua natura particolare, fosse ottimo. Per far conoscere questo tipo di governo, distinguero' quello dei primi cinque re, quello di Servio Tullio e quello di Tarquinio. 

La corona era elettiva, e sotto i primi cinque re il senato ebbe la parte maggiore della elezione. 

Dopo la morte del Re, il Senato esaminava se fosse da conservare la forma di governo stabilita. Se giudicava conveniente conservarla, nominava un magistrato (a) (29) appartenente al suo ordine, il quale eleggeva un re; il senato doveva approvare l'elezione; il popolo confermarla; gli auspici garantirla. Se una di queste tre condizioni veniva a mancare, bisognava fare un'altra elezione. 

La costituzione era monarchica, aristocratica e popolare (30) e tale fu l'armonia del potere che i primi tre regni non videro ne' gelosie ne' contrasti. 

Il re comandava l'esercito e sovrintendeva ai sacrifici; aveva il potere di giudicare gli affari civili (b) e penali (c); convocava il senato; riuniva il popolo; gli sottoponeva certi affari e decideva gli altri con il senato (d). 

Il senato aveva una grande autorita'. I re sceglievano spesso dei senatori per giudicare con essi; non presentavano al popolo nessun affare che non fosse stato esaminato nel senato (e). 

Il popolo aveva il diritto di eleggere (f) i magistrati, di approvare le nuove leggi e, quando il re lo permetteva, quello di dichiarare la guerra e di fare la pace. 

Non aveva il potere giudiziario. 

Quando Tullo Ostilio rinvio' al popolo il giudizio di Orazio, ebbe ragioni particolari che si trovano in Dionigi d'Alicarnasso (g). La costituzione cambio' sotto Servio Tullio (h). Il senato non ebbe parte nella sua elezione: egli si fece proclamare dal popolo. Si spoglio' dei giudizi civili (i) e non si riservo' che quelli penali; sottopose direttamente al popolo tutti gli affari, lo allevio' delle tasse e ne addosso' tutto il peso ai patrizi. 

Cosi', a misura che indeboliva il potere regio e l'autorita' del senato, aumentava il potere del popolo (j). 

Tarquinio non si fece eleggere ne' dal Senato, ne' dal popolo. Considero' Servio Tullio un usurpatore e prese la corona come un diritto ereditario; stermino' la maggior parte dei senatori; non consulto' piu' quelli che rimanevano e non li chiamo' nemmeno a partecipare ai suoi giudizi (k). 

La sua potenza aumento'; ma quel che c'era di odioso in quella potenza divenne anche piu' odioso; egli usurpo' il potere del popolo; fece delle leggi senza di esso, ne fece perfino contro di esso (l). 

Avrebbe riunito i tre poteri nella sua persona, ma il popolo si ricordo' per un attimo d'essere legislatore, e Tarquinio non esistette piu'. 

(a): Dionigi d'Alicarnasso, lib. II, cap. 57-58, e lib. IV, cap. 40.

(b): Cfr. il discorso di Tanaquilla, in Tito Livio, lib. I, Prima deca e il regolamento di Servio Tullio, in Dionigi d'Alicarnasso, lib. IV, cap. 25.

(c): Cfr. Dionigi d'Alicarnasso, lib. II, cap. 56 e lib. III, cap. 30.

(d): Fu in forza di un senatoconsulto che Tullo Ostilio fece distruggere Alba. In Dionigi d'Alicarnasso, lib. III, cap. 27 e 31.

(e): Ibid. lib. II, cap. 12. Tuttavia non poteva eleggere a tutte le cariche, poiche' Valerio Publicola fece la famosa legge che vietava a qualsiasi cittadino di esercitare una carica se non l'avesse ottenuta per suffragio popolare.

(g): Ibid. lib. III, cap. 22.

(h): Ibid. lib. IV.

(i): Egli si priv� di met� del potere regio, dice Dionigi d'Alicarnasso, lib. IV, cap. 25.

(j): Si credeva che se non fosse stato prevenuto da Tarquinio, avrebbe instaurato il governo popolare. In Dionigi d'Alicarnasso, lib. IV, cap. 40.

(k): In Dionigi d'Alicarnasso, lib. IV, cap. 41.

(l): Ibid.

 

XIII. Riflessioni generali sullo Stato di Roma dopo la cacciata dei Re. 

Non si possono mai abbandonare i romani: e' cosi' che ancor oggi, nella loro capitale, si trascurano i nuovi palazzi per andare a cercare delle rovine; e' cosi' che l'occhio, dopo essersi riposato sullo smalto dei prati, ama vedere le rupi e le montagne. Le famiglie patrizie avevano avuto, in tutti i tempi, grandi prerogative. Queste distinzioni, cospicue sotto i re, divennero molto piu' importanti dopo la loro cacciata. 

Cio' suscito' la gelosia dei plebei, che vollero abbassare i patrizi. I contrasti colpivano la costituzione senza indebolire il governo: poiche', a patto che i magistrati conservassero la loro autorita', era piuttosto indifferente a quale famiglia appartenevano i magistrati. 

Una monarchia elettiva, com'era quella di Roma, presuppone necessariamente un corpo aristocratico potente che la sostenga, senza di che essa si cambia subito in tirannide o in Stato popolare. 

Uno Stato popolare, tuttavia, non ha bisogno di questa distinzione di famiglie per mantenersi. Cio' fece si' che i patrizi, i quali erano parti necessarie della costituzione al tempo dei re, ne divennero una parte superflua al tempo dei consoli; il popolo pote' abbassarli senza distruggere se' stesso e cambiare la costituzione senza corromperla.

Quando Servio Tullio ebbe umiliato i patrizi, Roma dovette cadere dalle mani dei re a quelle del popolo. Ma il popolo, abbassando i patrizi, non dovette temere di ricadere in quelle dei re. 

Uno Stato puo' cambiare un due maniere: o perche' la costituzione si corregge, o perche' si corrompe. 

Se ha conservato i suoi principi, e la costituzione cambia, e' segno che si corregge; se ha perduto i suoi principi, quando la costituzione viene a cambiare, e' segno che si corrompe. 

Dopo la cacciata dei re, Roma doveva essere una democrazia. Il popolo aveva gia' il potere legislativo; era stato il suo unanime suffragio che aveva cacciato i re; e se non avesse persistito in questa volonta', i Tarquini potevano tornare in qualunque momento. Non era ragionevole pretendere che avesse voluto cacciarli per cadere schiavo di qualche famiglia. Lo stato delle cose richiedeva dunque che Roma fosse una democrazia, e tuttavia non lo era. Convenne che il potere dei notabili venisse temperato, e che le leggi tendessero verso la democrazia. 

Spesso gli Stati prosperano nell'insensibile passaggio da una costituzione a un'altra, piu' di quanto non avvenga durante l'una o l'altra di quelle costituzioni. E' allora che sono tesi tutti i congegni del governo, che tutti i cittadini hanno delle aspirazioni; che ci si attacca o ci si blandisce; che regna una nobile emulazione fra chi difende la costituzione che declina e chi porta avanti quella che sta prevalendo. 

 

XIV. Come la distribuzione dei tre poteri comincio' a cambiare dopo la cacciata dei re.   

Quattro cose offendevano principalmente la liberta' di Roma. I patrizi ottenevano essi soli tutti gli impieghi sacri, politici, civili e militari; si era attribuito al consolato un potere eccessivo; il popolo veniva oltraggiato; infine, non gli si lasciava quasi nessuna influenza nei suffragi. 

Il popolo corresse appunto questi quattro abusi: 

Fece stabilire che vi fossero magistrature a cui potevano aspirare i plebei; e a poco a poco ottenne che avessero parte in tutte, tranne in quelle d'interrex. 

Si sciolse il consolato e se ne formarono parecchie magistrature. Si crearono dei pretori (a) ai quali si affido' il potere di giudicare gli affari privati; si nominarono dei questori (b) per far giudicare i delitti pubblici: si stabilirono degli edili ai quali si dette la polizia; si fecero dei tesorieri (c) che ebbero l'amministrazione del denaro pubblico; infine, con la creazione dei censori, si tolse ai consoli quella parte del potere legislativo che regola i costumi dei cittadini e il reggimento temporaneo dei diversi corpi dello Stato. Le principali prerogative che restarono loro furono di presiedere le grandi assemblee (d) del popolo, di convocare il senato, e di comandare l'esercito.

Le leggi sacre stabilirono dei tribuni che in qualunque momento potevano arrestare le imprese dei patrizi, e impedivano non soltanto le offese particolari, ma anche quelle generali. 

Infine i plebei accrebbero la propria influenza nelle decisioni pubbliche. Il popolo romano era diviso in tre maniere: per centurie, per curie e per tribu' (31), e quando dava il voto era convocato e costituito in una di queste tre maniere. 

Nella prima. i patrizi, i notabili e il senato, cioe' presso a poco la stessa cosa, avevano quasi tutta l'autorita'; nella seconda, se ne aveva di meno; nella terza, meno ancora. 

La divisione per centurie era una divisione per censo e per mezzi, piuttosto che una divisione per persone. Tutto il popolo era diviso in centonovantatre' centurie (e) che avevano un voto ciascuna. I patrizi e i notabili formavano le prime novantotto centurie; il resto della popolazione era sparso nelle restanti novantacinque. I patrizi erano dunque, in questa divisione, padroni dei suffragi. 

Nella divisione per curie (f) i patrizi non avevano gli stessi vantaggi. Ne avevano, tuttavia. Bisognava consultare gli auspici dei quali erano padroni i patrizi; non si poteva fare proposta al popolo che non fosse stata prima presentata al senato e approvata da un senatoconsulto. 

Nella divisione per tribu', pero', non vi era piu' questione ne' di auspici, ne' di senato consulto; i patrizi non vi erano ammessi. 

Ora, il popolo (32) cerco' sempre di fare per curie le assemblee che si solevano fare per centurie, e di fare per tribu' le assemblee che si facevano per curie; il che fece passare gli affari dalle mani dei patrizi a quelle dei plebei. 

Cosi', quando i plebei ebbero ottenuto il diritto di giudicare i patrizi, il che comincio' al tempo dell'affare di Coriolano (g), vollero giudicarli riuniti per tribu' (h) e non per centurie; e quando vennero stabilite a favore del popolo le nuove magistrature (i) di tribuno e di edile, il popolo ottenne di riunirsi per curie onde designarle; e quando la potenza fu rinsaldata, ottenne (j) che fossero designate in una assemblea per triu'�. 

(a): Tito Livio, Prima deca, lib. VI, cap. 42.

(b): Quaestores parricidii. Pomponio, leg. 2, � 23, ff. De orig. jur. I, 2.

(c): In Plutarco, Vita di Publicola.

(d): Comitiis centuriatis.

(e): Cfr. Tito Livio, lib. I., cap. 43, e Dionigi d'Alicarnasso, lib. IV, cap. 15-17 e VII, cap. 59.

(f): In Dionigi d'Alicarnasso, lib. IX.

(g): Id., lib. VII, cap. 59.

(h): Contro l'uso antico, come si vede in Dionigi d'Alicarnasso, lib. V, cap. 57.

(i): Ibid., lib. VI, cap. 89.

(j): Ibid., lib. IX, cap. 41.

 

XV. Come, nel fiorire della repubblica, Roma perdette a un tratto la liberta'.

Nell'ardore delle dispute fra i patrizi e i plebei, questi chiesero che si emettessero leggi fisse, affinche' i giudizi non fossero piu' l'effetto di una volonta' capricciosa o di un potere arbitrario. Dopo molte resistenze, il senato acconsenti'. 

Per comporre queste leggi si nominarono dei decemviri. Si ritenne che convenisse dotarli di un grande potere, poiche' dovevano dar leggi a partiti che erano quasi incompatibili fra loro. 

Si sospese la nomina di tutti i magistrati, e nei comizi essi vennero eletti soli amministratori della repubblica. Si trovarono investiti della potesta' consolare e della potesta' tribunizia. L'una dava loro il diritto di convocare il senato, l'altra quello di riunire il popolo; ma non convocarono ne' il senato, ne' il popolo. 

Dieci uomini, nella repubblica, ebbero da soli tutto il potere legislativo, tutto il potere esecutivo, tutto il potere giudiziario. Roma si vide sottomessa a una tirannide altrettanto crudele di quella di Tarquinio. 

Quando Tarquinio esercitava le sue vessazioni, Roma era indignata del potere da lui usurpato; quando i decemviri esercitarono le loro, stupi' del potere che aveva conferito essa stessa. 

Ma che cos'era questo sistema di tirannide, prodotto da persone che avevano ottenuto il potere politico e militare soltanto per la conoscenza degli affari civili; e che, date le condizioni di quei tempi, avevano bisogno, all'interno, della vilta' dei cittadini perche' si lasciassero governare, e all'esterno del loro coraggio per difenderli? 

Lo spettacolo della morte di Virginia, immolata dal padre al pudore e alla liberta', fece svanire la potenza dei decemviri. Ognuno si ritrovo' libero, perche' ognuno fu offeso; ognuno divenne cittadino, perche' ognuno si senti' padre. Il senato e il popolo rientrarono in possesso di una liberta' che era stata affidata a ridicoli tiranni. 

Il popolo romano, piu' di qualunque altro, si commoveva agli spettacoli. Quello del corpo sanguinoso di Lucrezia pose fine alla monarchia. Il debitore che comparve nel foro, coperto di piaghe, fece cambiare la forma della repubblica. La vista di Virginia fece cacciare i decemviri. Per far condannare Manlio convenne togliere al popolo la vista del Campidoglio. La toga insanguinata di Cesare ripiombo' Roma nella schiavitu' (33).

 

Fine della seconda parte

 

Libro XI, prima parte

Libro XI, seconda parte

Libro XI, terza parte

Commentario di Robert Derath�:   I.   II.   III.

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