L’organizzazione Todt

 

 

Nel Settembre 1944 non riaprirono le scuole perché la guerra stava andando troppo male dato che gli Alleati, già sbarcati in Sicilia nel Luglio 1943, bissarono lo sbarco ad Anzio e da lì la Quinta Armata americana del Gen. Clark liberò Roma nel Giugno 1944.

Sul Fronte russo le sconfitte tedesche non si contavano: la Wehrmacht aveva perduto gli Stati Baltici, i giacimenti petroliferi rumeni, l’Ucraina con la Crimea e si combatteva ormai in Polonia.

L’apertura dei nuovi fronti Alleati in Normandia e Costa Azzurra e il fallito attentato al Fuehrer a Rastenburg nell’ “Operazione Walkiria” di von Stauffenberg furono i segni che le sorti del conflitto erano ormai decise.

Solo i tedeschi avevano fiducia nella vittoria finale di Hitler, che prometteva armi distruttive nuove, che sarebbero state capaci di ribaltare la situazione e perciò difendevano strenuamente ogni metro di territorio italiano allo scopo di guadagnare tempo per i loro scienziati. Nel contempo, con le loro temute SS inasprivano in città e nelle fabbriche la repressione delle cellule antifasciste unitamente a improvvise retate e rastrellamenti dei boschi del circondario.

I primi bombardamenti anglo-americani di Fiume avvennero nei giorni della Befana 1945 e continuarono periodicamente provocando vittime e danni agli impianti portuali e industriali, nonché agli edifici civili. Gli effetti della guerra stavano purtroppo segnando inesorabilmente anche la nostra città che nel 1941 si era illusa di averla fatta franca. A Fiume la gente parteggiava sempre più contro i tedeschi e i fascisti, e seguiva con molta attenzione l’avanzata dell’esercito di Tito, ma non risulta che molti fiumani siano scappati in bosco.

Man mano che i partigiani di Tito si avvicinavano a Fiume, attentati e fucilazioni si susseguivano in città e l’attentato al Ristorante “Ornitorinco” fu quello che fece molta impressione per il risultato di aver eliminato o ferito presunti aguzzini nazisti e delatori fascisti. Il 30 Gennaio 1944 venne incendiato il Tempio Israelitico di Via Pomerio 31 mediante una esplosione preparata dalla Polizia tedesca e quando arrivarono i pompieri fu impedito volutamente loro di procedere allo spegnimento per cui andò distrutto l’interno con tutto il suo arredamento, le Sacre scritture, l’archivio e la biblioteca. 403 ebrei fiumani, tollerati dal Fascio dopo le Leggi razziali del 1938, riuscirono a sfuggire alla caccia dei tedeschi mentre 208 - dopo esser stati depredati dei loro averi - furono deportati prima alla Risiera di San Sabba di Trieste e poi al Campo di Auschwitz.

I partigiani di Tito ormai erano organizzati in un esercito regolare in continua avanzata dal sud e perciò sorse la necessità per i tedeschi di creare sbarramenti difensivi nella nostra Venezia Giulia onde precludere loro la strada per Trieste e l’Austria. A ciò provvide l’Organizzazione Todt, chiamata così dal suo fondatore Fritz Todt, che aveva un’esperienza decennale di tali strutture difensive paramilitari. Tutti gli studenti delle scuole superiori e molti cittadini non vincolati in armi, uomini e donne, ricevettero la cartolina precetto e iniziarono un’attività di lavoro pesante e obbligatorio, discretamente retribuito mensilmente. Si partiva col treno delle ore 6,30 e si scendeva a Mattuglie dove c’era il Lager (pron. Lagher) per l’appello, visita medica, etc. e da lì – accompagnati dai soldati che lavoravano insieme a noi - ci si recava al posto di lavoro. Nel bosco si iniziava a scavare il bunker e si portava fuori quella terra argilla rossa. Quando si arrivava al duro, il nostro soldato – un anziano austriaco della Carinzia con l’anellino all’orecchio – usava il martello pneumatico per fare i buchi per la dinamite, ma spesso toccava anche a noi con la mazza battere lo stampo sul sasso che non voleva cedere. Facevamo 30 mazzate a turno e quello che teneva lo stampo - il signor Stebellini, bidello della Scuola Brentari di Avviamento Commerciale – era in continua paura di qualche colpo sbagliato.

Il lavoro marciava coordinato per cui quando veniva il minatore egli faceva il suo lavoro per tutti i bunker contigui della zona: era quello il momento in cui potevamo riposare e prender fiato. Lui metteva la dinamite, preparava le micce mentre noi ci mettevamo bene al riparo. Poi il minatore suonava con una strana trombetta per avvisare l’imminenza degli scoppi. Lui li contava e quando era tutto finito suonava nuovamente per avvisare il finito pericolo. Questa operazione ci dava quasi un’oretta di riposo, ma poi quanta fatica per svuotare le pietre, trasportarle in due con delle rudimentali portantine che chiamavamo ziviere e sistemarle convenientemente in altro sito affinché producano un’ulteriore muro di difesa.

Poi arrivavano i pali che formavano l’ossatura del bunker e così avanti e da capo. Io mi sentivo importante perché avendo studiato tre anni di tedesco facevo un po’ l’interprete per gli altri.

Un giorno che l’austriaco era andato al Lager per suoi motivi personali, ci sdraiammo sull’erba e guardavamo gli aerei americani che andavano a bombardare in Germania. Che quiete!

Ad un tratto sbuca improvvisamente un Ufficiale tedesco in tuta mimetica con la sua classica picozza e cominciò a pestare colpendo il povero signor Stebellini sul quale si ruppe la picozza.

Quante urla del tedesco, ma per fortuna finì lì e anche il signor Stebellini ci rise sopra.

Un mattino – spinto dal desiderio di lavorare meno – decisi di fermarmi al Lager fingendo di non stare bene. Quando il Dottore mi visitò gli dissi che ero krank, cioè malato. Lui conosceva il rituale e mi dette la solita aspirina mandandomi al lavoro invece che a casa.

Camminavo per la strada principale con la pala sulle spalle ed ero vestito con una divisa da lavoro (terliss) color grigio dei soldati italiani, ricordo dell’8 Settembre 1943 quando nei magazzini abbandonati si trovava di tutto.

In quella mi sentii fischiare sopra la testa una raffica di parabellum.

Subito mi buttai al riparo in una cunetta e cominciai a gridare: “Ich bin ein Arbeiter” (Sono un lavoratore) e – sapendo che poteva trattarsi di cetnici (collaboratori dei tedeschi e nemici di Tito) che avevo già visto nei paraggi gridai “Brate, ne moi puzat: ja sam radnik; ja gren delat

(Fratello, non sparare; sono un lavoratore; vado al lavoro). Lo avevo chiamato “Fratello”; guai se lo avessi chiamato “Compagno” come invece si chiamavano i partigiani di Tito.

Silenzio assoluto e stetti anch’io in silenzio per una decina di minuti.

Poi piano piano svoltai la strada e di corsa arrivai al Lager raccontando la brutta avventura al Comando. Un tedesco si mise il fucile a tracolla e mi scortò sano e salvo sul mio posto di lavoro. Ma che paura! Era il Capodanno 1945, giorno lavorativo, e seppi che la notte prima, la notte di San Silvestro, i partigiani avevano tagliato la gola a un cetnico e da qui la rappresaglia dei serbi.

Ancora un episodio di quell’esperienza.

A casa per il riscaldamento si usava lo sparhet, cucina a legna che però scarseggiava mentre noi a Giordani avevamo tanti alberi che abbattevamo per far posto alle opere di difesa. Per questo motivo mio fratello Berto mi aveva fatto un carrettino di legno con le ruote di baliniere (cuscinetti a sfere) che portavo con me quando non pioveva e alla sera – anziché tornare da Mattuglie in treno – mi mollavo sulla ripida discesa con il fascio di legna, che mi portava a Cantrida dove c’era il Capolinea del tram.

Anni fa, il mio amico Giuseppe Inamo, Direttore di Macchina, mi ricordò che lo avevo salvato nella Stazione di Giordani quando un tedesco – trovandolo con il suo fascio di legna – lo voleva portare al Comando per fargli rapporto. I contadini avevano protestato contro i lavoratori della Todt perché sradicavano piante giovani e il tedesco voleva fare il suo dovere. Inamo mi disse che con il mio tedesco avevo convinto il soldato a lasciarlo tornare a casa lasciando la legna in stazione.

Io non ricordo il particolare, ma pensare che a 15-16 anni avevo potuto influire nella decisione di un soldato della Wehrmacht ed evitare al mio amico magari il trasferimento per punizione a Seiane - località vicina a Mattuglie, da dove non c’era possibilità di tornare a casa la sera – mi procura ancor oggi un giustificato motivo di orgoglio.

L’andata e ritorno Fiume-Mattuglie e Giordani continuò sino alla fine di Aprile quando ormai si sentiva il rombo del cannone perché i partigiani di Tito erano a circa 20 km dalla città.

Quando mi giunse l’ordine di presentarmi per lavorare sulle alture di Drenova e Santa Caterina sopra Fiume per urgenti opere di difesa, mio padre decise di nascondermi in cantina, per non essere rintracciato in caso di sopralluogo tedesco, rischiando grosse conseguenze.

Fortunatamente nessuno venne a cercarmi perché la situazione precipitava di giorno in giorno e la gente ormai esausta dormiva nei rifugi antiaerei.

Nel frattempo tedeschi e italiani repubblichini a malapena difendevano il territorio dai partigiani sempre più vicini e vincenti.

Mentre i tedeschi facevano saltare il porto di Fiume prima di ritirarsi, nelle alture di Drenova il 3° Reggimento Artiglieria di Montagna “Julia” oppose agli attaccanti titini le sue bocche di fuoco posizionate sul Monte Lesco fino al totale esaurimento delle munizioni. Sparato l’ultimo colpo e nell’impossibilità di continuare oltre l’impari lotta, il Comandante fiumano Franco Geja ordinò la distruzione delle armi perché non cadessero in mani al nemico.

Siamo liberi !

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