L’eccidio di Lipa
Il 30 Aprile 1944 avvenne una strage di civili – 269 donne, anziani e bambini –
ad opera dei tedeschi nel paese di Lipa appartenente alla Provincia del Carnaro.
Essendo il paese da dove era nativa la mia mamma e con l’ausilio delle
testimonianze dei miei parenti, ho redatto una versione dei fatti che fu
pubblicata dalla Rivista “Fiume” della Società Studi Fiumani (Anno 2003 Pag.
108-117) e aggiornata nel 2014 dal sito www. rigocamerano.it.
(Estratto dalla Rivista “Fiume” della Società di Studi Fiumani di Roma)
Inauguriamo la nuova rubrica “Testimonianze orali” pubblicando un contributo del
dott. Rodolfo Decleva sull’eccidio di Lipa del 30 aprile 1944.
Lo scritto del dott. Decleva - che ci era pervenuto in una prima stesura nel
settembre 2000 e, in una seconda stesura riveduta (l’attuale), nel giugno 2001 -
non fu allora pubblicato sia perché non si era ancora conclusa la ricerca sulle
vittime di nazionalità italiana dal 1939 al 1947 a Fiume e dintorni intrapresa
dalla Società di Studi Fiumani insieme all’Istituto Croato di Storia sia perché
la rivista non aveva ancora una rubrica specifica in cui poter collocare
adeguatamente scritti di questo tipo.
Il contributo del dott. Decleva (che, in prima stesura, è già apparso sul n. 16
di Panorama del 31/8/2001, pubblicato a Fiume - Croazia) è infatti un
resoconto interamente fondato su fonti orali. La madre del dott. Decleva,
che è nato a Fiume l’8 gennaio 1929, era infatti nativa di Lipa e a Lipa la
famiglia Decleva aveva cugini e parenti. Una settimana dopo la strage, una
cugina del Decleva, Maria Bernetich, fortunosamente sopravvissuta (il 30 aprile
non si trovava in paese), riparò a Fiume in casa della zia (la madre del
Decleva), per sfuggire alla cattura da parte dei tedeschi, che cercavano i
superstiti di Lipa, e vi rimase nascosta per 15 giorni, finché non trovò un
altro rifugio più sicuro. Maria Bernetich, che aveva allora vent’anni, tra le
lacrime raccontò tutto ciò che era accaduto.
“Questa è una testimonianza -
ci ha detto il dott. Decleva - che mi ha
accompagnato per tutta la vita e che ha suscitato in me l’esigenza di
approfondire e di chiarire come realmente si svolsero questi incredibili e
terribili fatti. Ho sentito più approfonditamente miei parenti superstiti, tra
cui due cugini di Lipa e un secondo cugino di Rupa, che aveva vissuto quei fatti
in cantina a pochi metri dal Presidio fascista e dalla colonna tedesca ferma al
bivio. Sono così risalito all’episodio della signora Maria Africh - salvata,
come è noto a tutti gli abitanti della zona, da una Camicia nera sconosciuta - e
al Carabiniere (anch’egli sconosciuto) che aveva la morosa’ in paese ed aveva
avvertito gli abitanti di Lipa del pericolo incombente. Sono riuscito anche a
risalire, sia pure indirettamente, al Comandante del presidio fascista ovvero
della guarnigione di Rupa, ten. Aurelio Piesz.
La mia testimonianza dell’eccidio si basa pertanto su:
1. la cugina superstite di Lipa, Maria Bernetich, attualmente in Australia, da
me ospitata a caldo qualche giorno dopo la strage;
2. due cugini superstiti viventi in zona, Slosar Alois e Floriano, che mi hanno
in pratica confermato negli anni ‘70 e recenti quanto riferito dalla cugina
Maria Bernetich;
3. un cugino in seconda di Rupa, Surina Vinko, testimone “oculare” di quanto
avvenuto a Rupa il giorno dell’attacco partigiano e della strage tedesca;
4. per la parte italiana vedi nel testo dell’articolo.
Nel 1996 la Società di Studi Fiumani (Roma) ha sottoscritto sottoscritto un progetto di ricerca con l’Istituto Croato per la Storia (Zagabria) per accertare le perdite umane di nazionalità italiana a Fiume e dintorni dal 1939 al 1947. La ricerca - certamente laboriosa e lunga - non è stata ancora conclusa1 e pertanto mi pongo il problema dei ricercatori sul significato "di nazionalità italiana" delle vittime.
1 La ricerca, che non era ancora conclusa quando fu scritto questo contributo
(giugno 2001), ha avuto termine, come è noto, nel settembre 2002 con la
pubblicazione del volume, in edizione bilingue italiana e croata, Le vittime
di nazionalità italiana a
Fiume e dintorni (1939-1947), edito dal Ministero per i Beni e le Attività
Culturali
nella serie “Pubblicazioni degli Archivi di Stato”. [NdR]
Ciò in quanto il 30 aprile 1944 a Lipa, borgo del Comune di Elsane in provincia
di Fiume, fu commesso un eccidio in cui trovarono morte violenta 269 cittadini
inermi, rappresentanti la quasi totalità della popolazione del paese. È un
episodio della guerra criminale - rimasto purtroppo impunito - che si vendica
sulla povera gente inerme e di cui addirittura nulla si è scritto sulla stampa
della famiglia profuga giuliana o fiumana in Italia e nel mondo. Forse la causa
di questo colpevole silenzio è stata la difficoltà di individuare la nazionalità
delle vittime (italiane o croate?), ma spero che la Società di Studi Fiumani non
vorrà escludere dalla sua ricerca quanto è successo a Lipa nel 1944.
Sino al 1918 la regione giuliana ha fatto parte dell’Impero austro-ungarico e
successivamente col Trattato di San Germano del 10 settembre 1919, confermato
dal Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920, la linea di confine italiana
avanzò su tutta l’area di Tarvisio-Monte Nevoso-Volosca, comprendendo anche
questo territorio che divenne italiano.
Successivamente con gli Accordi di Roma del 27 gennaio 1924 anche Fiume venne
annessa all’Italia e la provincia di Fiume acquistò la giurisdizione su 14
comuni, tra cui quelli di Villa del Nevoso (Ilirska Bistrica), con popolazione
di lingua d’uso slovena, e di Elsane, con lingua d’uso prevalentemente croata.
La popolazione di Lipa, frazione di Elsane, era dedita all’agricoltura e
all’allevamento del bestiame, ma molte persone facevano anche i pendolari con
Fiume, lavorando al Porto, all’Ospedale, al Macello Comunale, ecc., o servendo
in case e trattorie, favoriti dalla facili e rapide comunicazioni delle
Autolinee Grattoni che, partendo dalla piazza Regina Elena (Via Spalato)
compivano il percorso di 25 Km in meno di tre quarti d’ora.
Con l’avvento dell’Italia, l’insegnamento del croato fu abolito e fu introdotto
obbligatoriamente l’insegnamento dell’italiano, mentre i giovani venivano
mandati a fare il servizio militare nel meridione. In quei tempi si doveva
ancora “fare” l’Italia e perciò la politica del Regno d’Italia era quella di
“travasare” i giovani dal Nord nel Sud e viceversa, ma per le popolazioni croate
di nuova annessione (allogeni) la cosa veniva interpretata come cattiveria e
forse era anche così.
Successe anche a noi profughi vent’anni dopo, quando la burocrazia romana
smistava da Udine le nostre famiglie a vegetare o morire nei campi profughi di
Altamura, Laterina, Gaeta, Latina, Barletta o Termini Imerese, dove c’era gente
buona e dal cuore immenso, ma i posti erano assolutamente non idonei per la
sistemazione di gente con la nostra qualificazione tecnica, marinara e
industriale.
E così nei paesi interni della Venezia Giulia il ventennio fascista non riuscì
ad accattivarsi la fiducia delle popolazioni di lingua slava, che nell’ultimo
conflitto si schierarono a favore della lotta partigiana di Tito e guardarono
ancora più lontano, verso Mosca. Stalin, con le sue false promesse di giustizia
ed eguaglianza, aveva fatto dimenticare la religione a questa gente assai
devota, rendendola addirittura autolesionista, perché - pur essendo piccoli
proprietari terrieri e coltivatori diretti - auspicavano l’abolizione della
proprietà.
“Striz, ce prit” (arriverà lo zio), dicevano dopo l’8 settembre 1943, quando
tutti credevamo che la guerra fosse finita, e così i giovani scappavano “in
bosco” per non essere arruolati dagli occupatori tedeschi o per non essere
mandati a lavorare in Germania.
Mentre il 23 settembre 1943 Mussolini annunciava la costituzione della
Repubblica Sociale Italiana, da parte tedesca si istituiva l’“Adriatisches
Küstenland”, che aveva giurisdizione sulla Venezia Giulia e il Friuli,cioè sugli
ex territori austriaci, nonché sulla provincia di Lubiana, quest’ultima annessa
all’Italia dal 1941.
È’ da questo momento in poi che la guerra si inasprisce e l’odio tra slavi e
italiani si infiamma: foibe, fucilazioni, impiccagioni e violenze inaudite si
susseguono chiedendo sempre nuove rappresaglie.
Accanto ai tedeschi che comandano, esistono ancora in Venezia Giulia forze
italiane, dell’ordine e collaborazioniste, quali i Carabinieri, la Guardia di
Finanza, la Polizia e altri reparti, e, nel caso di Lipa, un Presidio fascista
di una ventina di militi con sede a Rupa.
Rupa si trova a circa un paio di chilometri da Lipa ed è un nodo di
comunicazione assai importante fra Trieste, Fiume e Lubiana; spesso i partigiani
disturbano con i cannoni il passaggio delle colonne dei militari tedeschi.
Il Presidio fascista non ci fa una bella figura e si dà da fare per riportare
l’ordine ed eliminare l’azione dei partigiani, che viene individuata provenire o
da Lipa o da Novocracine, un borgo attiguo.
Un Carabiniere, che ha la fidanzata in paese, avverte quelli di Lipa:
“State attenti perché finirete male!” e la voce si diffonde, ma la gente non può
fare niente, perché i partigiani sono i loro figli e combattono per la loro
comune giusta causa.
Intanto i partigiani pensano ad un’azione dimostrativa contro il Presidio
fascista, fissata per la domenica del 23 aprile e poi spostata alla domenica
successiva 30 aprile 1944. Ciò in quanto questa data è il giorno che precede il
Primo Maggio, Festa dei Lavoratori, e quindi l’attacco avrebbe avuto anche un
grande significato politico e propagandistico.
Appena comincia l’attacco e cadono su Rupa le prime granate, il comandante del
Presidio fascista manda un uomo a chiedere rinforzi e questi ferma per tale
scopo una colonna di tedeschi che procede verso Fiume.
La colonna - sono quattro camionette con una cinquantina di soldati - si ferma
per decidere il da farsi e in quel momento cade su di essa una granata che
provoca quattro morti.
Immediatamente il comandante tedesco si collega con il suo Comando, che ha sede
a Castelnuovo d’Istria - a circa 10 Km da Rupa - e, quando dopo qualche ora
arrivano altri rinforzi, procede alla eliminazione dei partigiani.
Purtroppo l’attacco non viene svolto in maniera militarmente corretta: il paese
di Lipa viene circondato e ogni civile che si trova in strada e sui campi viene
ammazzato.
Uno di questi - Ivan Ivancich - ha la fortuna di essere solo scalfito dalla
pallottola ed è ferito all’orecchio; egli si finge morto - restando immobile
accanto al cadavere della moglie - e si salva così la vita, divenendo l’unico
testimone dell’eccidio tedesco, che descrive due giorni dopo a Scalniza, una
località vicina a Lipa. Si diceva che per prudenza avesse addirittura soffocato
con le catene il proprio cane di guardia per timore di non essere tradito.
I militari entrano nelle case e le svuotano degli abitanti, che vengono
concentrati in un edificio diroccato all’inizio del paese.
Mentre viene dato fuoco alla case, la gente di Lipa attende il suo destino che -
secondo un rituale già collaudato nel 1942 quando le nostre Camicie Nere
andavano per spedizioni punitive in quel di Karlovac o di Grobnico o di Delnize
- avrebbe dovuto essere: villaggio bruciato per rappresaglia e confino per la
popolazione civile con deportazione a Gonars o nell’isola di Arbe.
Ricordo infatti un mio vicino di casa, che era di fede fascista, il quale
tornava da queste “eroiche” spedizioni con un “jancich” (agnellino) sulle spalle
e ricordo ancora nei tristi giorni dell’8 settembre 1943 - quando i nostri
soldati riparavano dalla Jugoslavia in Italia - la povera gente slava, uomini e
donne dei paesi bruciati in Croazia, che facevano il percorso inverso, scappando
dai campi di confino di Arbe, del Friuli, della Toscana e perfino dalla lontana
Procida.
Ma per Lipa non fu così: la domenica del 30 aprile 1944 fu una “Tuzna Nedelja”,
come cantava una vecchia canzone tzigana ungherese.
Le terribili regole della guerra non furono rispettate e prevalsero la vendetta
e l’odio: le belve umane in divisa sfogarono la loro rabbia sulla povera gente
innocente e indifesa, certamente dopo averla depredata dei valori che
intendevano portare seco.
A un tratto furono svuotate latte di benzina su di loro e venne dato fuoco per
bruciarli vivi e colpi di mitra per chi tentava di uscire da quell’inferno.
I criminali tedeschi tentarono di nascondere l’eccidio, facendo brillare della
dinamite e coprire così le prove del misfatto, ma i sopravvissuti - grazie al
fatto che quel giorno non si trovavano in paese - poterono raccontare
l’accaduto.
Si calcola che dei 300 abitanti di Lipa solo una trentina di persone rimasero
vive e furono i ragazzi che pascolavano il bestiame nei dintorni o i giovani che
erano in bosco coi partigiani o quelle poche persone che - pur essendo domenica
- erano ugualmente a Fiume per lavoro.
Alcuni cognomi più ricorrenti delle 269 vittime: Africh, Bernetich, Calcich,
Gabersnik, Iskra, Jaksetich, Juricich, Maglievaz, Puharich, Simcich (la famiglia
più numerosa), Slosar, Smaila, Tomsich, Toncich, Toncinich e Valencich.
Anton Toncinich era la persona più anziana, aveva 81 anni, mentre le tre bambine
Bozilka Iskra, Carla Slosar, mia cuginetta, e Miliza Valencich non avevano
ancora compiuto il primo anno della loro vita.
La versione da parte italiana del massacro fu resa nel marzo 1945 da un ex
allievo ufficiale dell’Accademia della G.N.R. di Modena, amico del tenente della
Milizia per la Difesa Territoriale Aurelio Piesz, comandante del Presidio
fascista di Rupa, del quale riporto la testimonianza nei termini seguenti3:
“Nessun militare italiano partecipò al raid tedesco.
Il caposaldo di Rupa era mèta di continue provocazioni da parte dei
2 I cognomi sono scritti con l’ortografia italiana dell’epoca.
3 La testimonianza letteralmente trascritta dell’amico del Ten. Piesz è compresa
in due
lettere custodite personalmente dall’autore.
Non era possibile individuare se l’arma fosse piazzata a Lipa, Novocracina o in
qualche dolina circostante, ma mai - nonostante le piogge di bombe acciaiose,
alcune inesplose - si ebbero reazioni da parte dei Militi fascisti.
La mattina del 30 aprile 1944 un’ autoblindo tedesca si fermò al quadrivio per
rifornirsi di acqua per il radiatore e fu colpita da una granata che uccise due
tedeschi.
Subito fu chiesto aiuto dal carrista superstite al Comando tedesco di
Castelnuovo, che inviò una colonna di S.S. al comando del tenente Arthur Walter,
che giunse a Rupa nel pomeriggio e «pregò» i soldati italiani di restare in
caposaldo a Rupa.
La strage fu pertanto opera unicamente delle S.S. tedesche, di cui faceva parte
il battaglione ‘Triest’ di stanza a San Saba, che inquadrava molti ucraini.”
Sempre secondo la versione dell’amico del tenente Aurelio Piesz, “il Tenente
Aurelio Piesz, comandante del caposaldo di Rupa, fu catturato in seguito dai
partigiani a Trieste e impiccato a Rupa, mentre il tenente Arthur Walter il 5
maggio sempre del 1944 si rese protagonista della distruzione dei paesi di
Sejane, Mune Grande e Mune Piccolo e della deportazione della popolazione
civile”.
Le ricerche da me personalmente svolte non hanno però finora confermato
l’esecuzione del Tenente Aurelio Piesz: agli abitanti di Rupa, infatti, non
risulta che tale esecuzione sia realmente avvenuta.
La versione di parte italiana è poi contraddetta da Maria Africh, la quale
riuscì a salvarsi grazie all’aiuto di un fascista - a lei sconosciuto - che le
salvò la vita, facendola fuggire in direzione opposta alla morte, quando uscì
dalla casa situata ai margini del paese.
La presenza di quell’angelo in camicia nera prova che anche gli italiani furono
della partita, anche se con funzioni di “copertura”, e non relegati passivamente
nel caposaldo, ma è lecito pensare che ben difficilmente essi avrebbero potuto
rifiutarsi di collaborare con i tedeschi senza pagare con la vita quella
decisione.
Subito dopo la guerra a Lipa è stato costruito un sobrio Cimitero monumentale
nello stesso posto dove le vittime vennero concentrate e bruciate vive, e anche
il paese è risorto sulle stesse case bruciate e diroccate per volontà dei
superstiti della strage.
Ogni anno la triste ricorrenza del 30 aprile 1944 viene ricordata dalle autorità
e dalla gente del posto e dei paesi vicini, che interviene numerosa, malgrado
sia stata divisa in due dal confine con la Slovenia che passa lì accanto.
Un Museo storico, che raccoglie i poveri cimeli rinvenuti tra le macerie delle
case diroccate, espone in una parete l’ingrandimento di una fotografia dove un
militare tedesco, riconoscibile dall’elmetto, è ripreso mentre ricaccia nel
fuoco un bambino che era riuscito ad uscire dall’inferno.
Si dice che un militare tedesco avesse fotografato quella scena e avesse dato a
sviluppare il rullino ad un fotografo di Villa del Nevoso e che questi - vedendo
di che cosa si trattava - ne avesse fatto una copia per sé.
Sulla strada Trieste-Fiume, in prossimità del bivio di Rupa, ci sono dei
cartelloni stradali che richiamano l’attenzione degli automobilisti per farli
visitare il “Lipa Memorial”, ma forse il messaggio non esprime bene di che cosa
si tratti e la gente tira dritto.
In Croazia i morti di Lipa sono ricordati da sempre, mentre da parte italiana
non è mai stata scritta una riga.