MANUALE DEL
BUON POLITICANTE
DA CAFFE’.
CAPITOLO PRIMO
Il fondamento del modello democratico
di convivenza
In senso democratico il popolo è la totalità dei cittadini
ordinati in uno Stato, secondo una legislazione civile.
Per quanto il significato attribuito al termine popolo sia
genericamente assai vasto, pure esso non può essere
democraticamente definito se non si ha ben chiaro il
significato del termine "cittadino", vocabolo la cui prima
esplicazione moderna fu compiuta dal d’Alembert (1) e poi da
Jean Jacques Rousseau nel suo “Contratto sociale”.
Esso fu accostato al termine cité e distinto da quello di
ville, ovvero della città materialmente considerata. In
senso tuttora ideale, la cité è una entità politica
organizzata in un ordinamento estemporaneamente costruito
dal popolo stesso.
In questo senso il cittadino è partecipe della vita di
tutti, e quindi di quella dello Stato; egli è dotato di un
potere legale attivo e passivo, ed è quindi,
contemporaneamente, soggetto e oggetto della propria
costituzione e dei propri ordinamenti giuridici.
Al di fuori di ciò non vi è alcuna giustificazione del
termine: la democrazia è, infatti, l’unica forma politica
che consenta un popolo di cittadini.
Non può corrispondere al termine “democrazia”, pertanto, uno
Stato che abbia una costituzione ed un ordinamento
legislativo immodificabili, o la cui modificazione rimanga
in potere di uno, o di un gruppo non rappresentativo della
volontà popolare. Non può corrispondere al termine uno Stato
il cui numero di cittadini attivi sia legalmente limitato
rispetto al numero degli abitanti censiti (a parte cause di
età, riconosciuta incapacità, etc.); un esempio ne è dato
dagli Stati che applicavano l’apartheid, o dalla stessa
Atene di Pericle, nella quale i cittadini riconosciuti tali
erano in rapporto di minoranza rispetto a lavoratori attivi
quali schiavi o meteci. Non può corrispondere al termine uno
Stato la cui magistratura non sia indipendente, o sia
assoggettata alla volontà del governo: in democrazia, anche
in tempo di guerra, nessun giudice indipendente avrebbe
potuto trovare una giustificazione legale per la fucilazione
di Galeazzo Ciano.
Alla fine, non può corrispondere al termine (o può esserlo
soltanto in senso spregevole) uno Stato nel quale i
“cittadini” siano realmente nemici l’uno dell’altro, e nel
quale i poteri legislativo ed esecutivo incarnino la volontà
di sopraffazione di gruppi o ceti.
In breve, il popolo, nella sua giustificazione democratica,
esiste soltanto come totalità di cittadini, mentre
costoro presuppongono la equivalenza dei poteri individuali,
legali e fisici.
Come si vede, il fondamento della democrazia è unitario e
trova la sua radice nel popolo, il quale riconosce sè stesso
e accetta le proprie singole diversità.
Poiché con l’arte è creato quel gran Leviatano, chiamato uno
Stato (in latino civitas), il quale non è che un uomo
artificiale, benchè di maggiore statura e forza del
naturale, per la protezione e difesa del quale fu concepito.
In esso la sovranità è un’anima artificiale, come per dar
vita e moto a tutto il corpo; i magistrati e gli altri
ufficiali giudiziari ed esecutivi sono le giunture; i premi
e le pene sono i nervi, che fanno lo stesso nell’organismo
naturale; la prosperità e la ricchezza dei singoli membri
sono la forza; la salus populi (la salvezza del popolo) i
suoi affari; i consiglieri, dai quali sono suggerite tutte
le cose necessarie a conoscersi, sono la memoria; l’equità e
le leggi un’artificiale ragione e volontà; la concordia è
la salute; la sedizione è la malattia; la guerra civile la
morte (2).
Così Hobbes, che, per quanto si dica, non può essere più
assolutista di quanto il giusnaturalismo consenta.
Tornando al discorso sul popolo, Kant lo intese un aggregato
di monadi, e non accettò il criterio di “massa”.
L’auspicabile miglioramento della democrazia dovrà infatti
aggiungere al termine “cittadino” (partecipante dello Stato
di diritto), il termine “persona” (singola unità in un
popolo); come dire, una società civile di persone, e non di
seguaci e gerarchie.
In questo senso, lo “spirito del popolo” inteso in senso
kantiano, non è un portato idealistico, una idea generale
astratta, magari inculcata, che comunque predomina, ma il
riconoscimento estetico e intellettuale del risultato
pratico del lavoro, dell’arte, di usi e costumi di una
collettività.
Tutto ciò presupposto, il fondamento del modello democratico
di convivenza lo si ritrova nella teoria del pactum
unionis in virtù della quale ogni cittadino riconosce,
nel proprio prossimo, un cittadino dotato di diritti e
doveri uguali ai suoi. Questo patto non è un atto notarile,
non ha base fisica concreta (nessuno lo ha mai firmato
materialmente); esso deve rimanere ideale e concreto.
Ciò che qui noi cerchiamo di dimostrare (o forse meglio, di
portare all’attenzione) è che tutto il lavoro teorico
compiuto soprattutto dal giusnaturalismo e dallo illuminismo
fra i secoli ‘Sei e ‘Settecento (prima delle due grandi
rivoluzioni), volgeva, sia pure disordinatamente, a
preparare la transizione dalla convivenza stabilita sul pactum
subiectionis, verso quella sul pactum unionis. Se
le cose non sono esattamente andate nel modo previsto dai
nostri avi, ciò è avvenuto per giustificazione storica
legata alle lotte di classe (vedi il Marx delle “Lotte di
classe in Francia” e del “18 brumaio”) o per
interesse della classe al potere (vedi il Rosmini di “La
Costituzione secondo la giustizia sociale”, Milano,
1848).
Emergono due “negatività” del sistema democratico attuale,
che nelle antiche teorizzazioni “unioniste”, diciamo di
Althusius, Cumberland, Pufendorf, Hume, non erano state
previste: la prima, è quella già rilevata da Rosmini, della
servitù che si deve alla maggioranza; la seconda, quella
rilevata da Marx, della inutilità del suffragio quando
esistono, nella società, determinate condizioni oppressive e
di servilismo che ne condizionano la libera scelta.
Non esiste, purtroppo, una teorizzazione coerente della
democrazia, nemmeno in sede giusnaturalistica: per cause,
sia storiche, sia dovute alla cultura e alla natura umana
dei suoi fondatori, il giusnaturalismo ha quasi mai
contemplato il pactum unionis per sé, ma lo ha spesso
adattato alla presunzione del primitivo volontario
assoggettamento degli uomini ad un potere precostituito: il pactum
unionis, cioè, è stato spesso risolto nel pactum
subiectionis. Così, con le relative differenze, in
Grozio, Spinoza ed Hobbes, e di fatto anche in Locke e
Rousseau, con la differenza, però, che, per i
primi, il pactum si cede al Re, mentre per i secondi
si cede, sì alla legge stabilita dai cittadini, ma ad una
legge rispetto alla quale il cittadino si trova in una
situazione di reale sudditanza verso sé stesso e, tramite sé
stesso, verso colui che lo rappresenta. Questa situazione fu
rilevata, prima che da altri, da Benjamin Constant nei suoi
“Principes de politique”.
In tutti i casi, comunque, questa linea interpretativa del
giusnaturalismo produce una cesura, pone distanza fra coloro
che accettano il patto ed il potere che, immediatamente
dopo, ad essi si contrappone, sia esso del monarca, del
Parlamento o del popolo stesso, cioè della Legge che la
stessa comunità ha contribuito a produrre (3).
Hume scoprì la debolezza di questa giustificazione in cui
emerge,sotto la scorza dogmatico-razionalista (contratto fra
popolo e fondazione consensuale dei governi) la trama
profana degli interessi.
Per Hume, pertanto, a questa, e non già alle deduzioni
metafisiche, dovrà essere commisurata la legittimità dei
governi. Cfr. Cerroni (4).
Kant sostenne la derivazione giusnaturalistica del diritto
(5) per condannare le decapitazioni di Carlo I e Luigi XVI,
con argomenti, però, che dallo stesso punto di vista
legalistico appaiono imperfetti, quasi che un patto notarile
fosse stato concordemente concluso fra i popoli e i Re.
Nonostante tutto, però, il contratto rimane la migliore base
teorica del fondamento giusnaturalistico della democrazia.
A mio parere, eliminata la trama profana degli interessi e
cancellato il pactum subiectionis (illecito anche
verso la legge fatta dal popolo, in quanto questa dev’essere
necessariamente modificabile), il giusnaturalismo ha la sua
ragion d’essere che si fonda, non sulla ricerca di una
conciliazione fra il popolo e una qualsiasi forma di potere,
ma sulla giustificazione del popolo in sé.
Tale era, anche per gli scrittori del ‘Sei e ‘Settecento ed
oltre, la strada naturale del percorso storico. Nel
‘Seicento, però, sarebbe stato difficile prevedere
le conseguenze sociali legate allo sviluppo della
manifattura, così come, nel ‘Settecento, quelle della
rivoluzione industriale, che allora iniziava.
Concettualmente però, era in questo senso che si andava
preparando la modificazione del rapporto “Autorità – popolo”
o meglio ancora “Monarchia – popolo”.
E’ noto che Constant attribuiva alla responsabilità del Re
Sole il decadimento dei costumi e l’ignoranza
dell’aristocrazia, che furono poi la causa profonda della
disgrazia della Casa Reale francese.
In astratto, se noi considerassimo (per nostro comodo) la
dichiarazione dei diritti dell’uomo, o meglio, i testi
fondanti le prime costituzioni americana e francese, come
la sconfitta della monarchia assolutista, allora, per la
cultura giusnaturalista, il Re (qualsiasi Re assolutista)
avrebbe avuto davanti a sé due strade: la prima, quella di
accettare la sconfitta e ritirarsi; la seconda, quella di
attendere il giudizio d’appello del popolo, allo scopo di
ricostruire il regno, stavolta secondo la logica del pactum
unionis. Non mai spartire il potere con un potere di
classe estraneo.
Questo fu un fatto che, ad esempio, vecchi Re come
Ferdinando I di Borbone, Carlo Felice e Carlo Alberto,
educati nel giusnaturalismo, vissero drammaticamente e
profondamente.
In breve, il liberalismo costituzionalista non condusse alla
modificazione del rapporto “Autorità – popolo”, ma a quello
“Autorità – classi sociali”, e in questo senso lo sbocco
naturale della storia divenne la lotta di classe. Da qui
altre nuove calamità per le monarchie, anche per quelle che
sopravvissero. Naturalmente, è chiaro che la storia del XIX
e XX secolo non si sarebbe potuta sviluppare altrimenti. Ma
torniamo al discorso teorico.
Solo dopo che il popolo si è giustificato ed ha accettato il
patto di convivenza, solo allora può esser cercata, dal
popolo stesso, la maniera di produrre leggi e quella di
applicarle attraverso l’esercizio della giustizia, penale e
civile. Se si presume che il popolo, dopo avere concluso il
patto, debba sottomettersi a una forza esterna, allo scopo
di garantire la propria sicurezza (da dove proviene questa
forza? Il popolo, quindi, non è più una totalità) non solo
si distrugge il concetto stesso di democrazia, ma si
invalida il senso dell’astrazione metafisica riguardante il
patto.
Re e Presidenti, in altre parole, si giustificano in virtù
del popolo, il quale li vuole e li finalizza ai propri
interessi, non il contrario.
Kant ammise, ne Il diritto dello Stato, in contrasto
con Hobbes, che lo stato di natura poteva benissimo non
essere uno stato ingiusto (status iustitia vacuus), ma
contemporaneamente riconobbe la possibilità della
controversia e vide nel giudice la personalità
pre-storicamente primigenia dalla quale sarebbe poi nato il
diritto, e quindi la giustificazione dell’assoggettamento
del cittadino a un potere legale, soggezione che, in un
certo senso, diventava anche un privilegio in quanto
garantiva una difesa sicura contro abusi e soverchierie.
Per Kant, il potere legislativo poteva spettare soltanto
alla volontà collettiva del popolo, mentre i cittadini
rimanevano i membri della società civile riuniti per la
legislazione, con gli attributi giuridici della libertà
legale, della uguaglianza civile e della indipendenza civile
(6).
La debolezza di questa sistemazione proveniva dal fatto che,
in concreto, nella Prussia del XVIII e XIX secolo non era
certo la legge a determinare il potere esecutivo, era semmai
il contrario.
Purtroppo, la capacità di un potere di determinare la legge
e di giustificarla attraverso l’ambiguità di una
partecipazione popolare passiva, è la prerogativa di un
potere egemonico che può manifestarsi sia in uno Stato
dittatoriale che in una democrazia imperfetta.
Tale contraddizione, però, che è insuperabile in uno Stato
totalitario, in democrazia può essere superata col
progredire della storia e con la evoluzione verso il
riconoscimento delle giustificazioni fondamentali della
democrazia stessa.
In definitiva, non può esservi altra giustificazione del
concetto metafisico di democrazia, se non nel principio
logicamente conseguente del pactum unionis.
Da esso consegue, infatti, primariamente, lo immediato
riconoscimento dei cittadini in sé stessi, e quindi la
reciproca attribuzione della loro uguale potenza. La libertà
ne è la prima derivazione, e quindi la si deve intendere in
senso morale, prima ancora che legalistico. La libertà del
mio prossimo, tradotta in legge, consente a me, cittadino,
l’azione, e quindi, prima di tutto, è una derivazione
morale. Alla stessa maniera, anch’io consento l’azione agli
altri, e quindi sia io che il mio prossimo siamo obbligati a
riconoscere, nella morale, il primo valore che consente la
convivenza. I limiti del reciproco consenso all’azione
determinano, quindi, la legge.
Che la legge sia secondaria, e non primaria come la volevano
Rousseau e Robespierre, è molto importante, poiché
stabilisce la superiorità del cittadino sopra la legge, e
non di questa su quello. Alla fine, la legge dev’essere
rispettata proprio in quanto costruzione dei cittadini, però
dagli stessi può essere modificata.
Sia un buon governo che un cattivo governo possono avere
interesse a modificare la legge; il buon governo per scopi
onesti, – per allinearla, ad esempio, ai normali storici
mutamenti di usi, costumi e necessità – il cattivo governo
per trarne vantaggi suoi propri.
In quest’ultimo caso, il potere giuridico non può
opporsi alla applicazione di leggi approvate dal Parlamento
nazionale, salvo stabilire la loro incostituzionalità e
prendere atto della decadenza della democrazia stessa.
Per questo motivo, una situazione di conflittualità fra il
potere esecutivo-legislativo e la magistratura, è sempre
indicativa di malattia, qualunque ne sia il motivo e
chiunque abbia ragione.
Da qui l’importanza, per uno Stato democratico, di avere una
salda costituzione o, direi meglio, una costituzione
sinceramente accettata, poiché in questo consiste la sua
saldezza.
Siccome, però, nemmeno la costituzione può essere
inamovibile, allora l’ultimo giudice sarà sempre la maturità
del popolo, per la quale si dovrebbe avere più cura che per
qualunque seggio alla Camera o al Senato.
CAPITOLO SECONDO
Il fondamento dei valori di libertà e morale
in democrazia
In natura nessuno nasce libero : tutto il giusnaturalismo,
compresi Leibniz e l’Antropologia moderna contemplano questo
elementare principio. Le imposizioni fisiche, infatti,
contano : le persone umane sono costrette a mangiare,
dormire, ripararsi dal freddo, respirare, devono accertarsi
che il cuore batta. Hanno inoltre un cervello che, per
quanto perfetto, può essere influenzato dalle abitudini e
dall’ambiente. Simile tesi non contraddice nemmeno Rousseau,
il quale intendeva gli antichissimi liberi, nel senso di
esenti da schiavitù ad opera di una società civile non
ancora inventata.
La libertà, in breve, è un prodotto del vivere sociale, e il
fatto che l’umanità la desideri dimostra appunto che è un
bene raro.
Ciò che noi oggi definiamo libertà è, in fondo, il
raggiungimento dell’adattabilità all’ambiente. In breve, per
definirci liberi abbiamo bisogno di almeno quel minimo di
denaro necessario a mangiare ogni giorno, a procurarci un
alloggio, a vestirci, a curarci dalle malattie, e siccome
non viviamo di solo corpo, ad istruirci, e per conseguenza a
viaggiare, leggere, assistere a qualche spettacolo
culturale, ed altro.
In più, abbiamo anche bisogno di confrontarci col nostro
prossimo, di non mostrarci inferiori, di attrarre una
creatura del sesso opposto, di ridere e di giocare, di
ottenere comunque rispetto, di non essere insultati, derisi,
malmenati. Come scriveva Nietzsche, ogni tanto abbiamo anche
bisogno di sederci in poltrona.
I cosiddetti "valori negativi", ovvero le "dipendenze" da
ciò che non ci fa bene (ad es. da droghe, alcool, alcuni
tipi di gioco e in genere da tutti gli eccessi) sono tali
perchè diminuiscono il nostro grado di libertà e, in genere,
la nostra potenza sociale. Alcuni sostengono che il mondo
attuale è più orientato a favorire le dipendenze, piuttosto
che le libertà.
Allorché una persona raggiunge i leciti obiettivi anzi
descritti e non sia colpita da malattia mentale, si può
ammettere che sia libera e responsabile nel senso umano del
termine. Le organizzazioni politiche cosiddette liberali
dovrebbero esser le prime ad adoperarsi affinché ciò sia
comunemente raggiunto. La libertà, in breve, non la si ha
per natura ma, entro certi limiti, la si può socialmente
raggiungere.
Il fondamento del principio di libertà, in democrazia,
proviene direttamente dall’accettazione teorica del pactum
unionis e quindi, com’è stato già scritto, dal carattere
preminentemente morale del medesimo.
La liberté consiste à pouvoir faire tout ce qui ne nuit à
autrui.(Costituzione
del ’91).
La liberté est le pouvoir qui appartient à l’homme de faire
tout ce qui ne nuit pas aux droits d’autrui. (Costituzione
del ’93).
La forza che consente al corpo sociale di esercitare
collettivamente la sua volontà è la libertà ; pertanto
quest’ultima è regolata dal calcolo delle tolleranze
possibili e quindi rimanda direttamente all’etica, e solo
secondariamente alla politica. Secondo Montesquieu "La
libertà di ogni cittadino è parte della libertà
pubblica", così in "Lo Spirito delle Leggi" libro XV,
capo 2.
Principali critici del concetto di libertà, così come inteso
dalle prime costituzioni e diritti dell’uomo, furono Marx,
oppositore della democrazia borghese e quindi negatore della
esistenza concreta del citoyen (la libertà sarebbe soltanto
in funzione del potere del bourgeois) e, per altro verso,
Gentile e Schmitt che la negarono attraverso la confutazione
del giusnaturalismo (negazione della libertà politica) e con
l’ argomento dell’atomismo (negazione della libertà
pratica). Nessuno di questi tre pensatori seppe però
recuperare la misura del potere pieno e concreto
dell’individuo nel suo rapporto con la società civile.
Marx rimandò il potere pieno, libero e pacifico del
cittadino alla estinzione dello Stato (non solo di quello
borghese, ma anche della dittatura del proletariato) ;
Gentile riconobbe la libertà dello Spirito, hegelianamente
inteso, nel quale il potere dell’individuo si identifica
nella libertà e nel potere dello Stato stesso.
Qualunque cosa si pensi intorno a queste determinazioni,
alla resa dei conti storica, le tragiche esperienze e le
violenze del ventesimo secolo hanno chiaramente mostrato
che, se la libertà può rappresentare, in sé, un vacuum,
l’assenza di libertà ha rappresentato, purtroppo, un certum,
qualcosa che si è vissuto senz’altro molto in concreto, e
che potrebbe sempre tornare.
Il discorso morale è quindi necessario alla democrazia, e
precede, per importanza, quello politico.
Ma quale tipo di morale converrà al cittadino ? Non un tipo
imposto, ovviamente, per quanto onesto esso possa apparire.
Dall’accettazione della morale proviene, infatti,
l’accettazione della possibile diversità di giudizio, e da
questa l’accettazione della conseguente possibile
diversificazione politica.
La polis per sé, infatti, richiede due tipi di
moralità, uno imperativo, per il quale ogni cittadino
impegna sé stesso al riconoscimento dell’altro, e che
potremmo definire morale civile, l’altro, ipotetico, che pur
non contraddicendo la morale civile, presuppone però la
possibilità di scelta fra opzioni diverse.
Anche l’esistenza stessa del partito politico, ovviamente,
dev’essere condizionata all’accettazione della morale
civile.
L’imperativo della morale civile, a mio giudizio, può
ricalcare il modello kantiano:
“Agisci in modo che la massima della tua azione possa valere
come principio di una legislazione universale” (7).
Naturalmente, ciò non contraddice il principio cristiano, al
quale siamo più abituati.
In breve, il cittadino, per riconoscersi tale, deve sempre
specchiarsi nel carattere legalistico del proprio titolo, il
quale non può in alcun modo essere limitato al suo senso
parziale (partitico).
Quando il pactum non viene riconosciuto da tutti i
cittadini, esso si corrompe di necessità, e ciò, o annulla
il termine “democrazia” o ne fa scadere fortemente il
valore.
CAPITOLO TERZO
La giustificazione del partito politico
in democrazia
La conseguenza prima da trarre, nel giudicare il valore di
un partito politico in democrazia, è che esso non può aver
la funzione di dividere il popolo ; ciò anche se non bisogna
dimenticare che a fare la democrazia non sono i partiti, ma
l’humus profondo che nutre la morale della società
civile.
Ora, questo humus, che normalmente è sano, può essere
inquinato dall’abitudine dei partiti a considerarsi qualcosa
di diverso dalla società civile, quasi che gli effetti
potessero sfuggire alla conseguenza logica delle azioni.
Se un partito politico avesse costruito le proprie gerarchie
proporzionalmente al numero di tessere cumulabili da ogni
singolo proboviro, non ci si sarebbe meravigliati di veder
poi da ciò scaturire il sospetto di una Mafiopoli ; e se
invece i funzionari di un partito, per farsi eleggere al
Parlamento, si fossero avvalsi dell’ausilio di ricchi
imprenditori in grado di finanziar loro la campagna
elettorale, non ci si sarebbe poi stupiti di vedere da ciò,
sorgere Tangentopoli.
Esiste,comunque, un problema di fondo che converrà
esaminare : i vecchi saggi della democrazia, diciamo
Voltaire, Montesquieu, Helvetius, avevano desiderato la
punizione della classe sociale che allora dominava in catene
la maggior parte dell’umanità, ovvero non avevano negato che
fosse necessaria una lotta per il potere, anche se nessuno
dei tre nominati fosse poi un teorico della rivoluzione.
Il potere, però, al quale essi intendevano giungere, era il
potere della ragione. Da bravi illuministi, essi intendevano
la ragione una sola, poiché per loro, aristocratici
autentici (uno di essi anche nominalmente, per ceto), la
ragione di parte era soltanto “interesse”.
Purtroppo, come tutti sanno, la necessità di civile
elevazione che fece nascere il movimento illuminista e poi
le rivoluzioni americana e francese (si pensi, ad esempio, a
Diderot e alla Enciclopedia) annegò in un mare di volgarità
e di sangue. Naturalmente, ciò non avvenne per caso.
Ma sarebbe impreciso attribuire le rivoluzioni di fine XVIII
secolo, soltanto allo arricchimento della borghesia, già
iniziato da oltre cent’anni : le rivoluzioni furono il
prodotto della sintesi di un pensiero nobile al quale
contribuirono tutte le classi sociali sia in Europa che
nelle Americhe.
Nel primo capitolo di questo scritto sono stati citati, in
nota, i nomi dei costruttori teorici della democrazia, ed
era giusto che nessuno di essi fosse uomo d’azione, poiché
non spetta al filosofo fare “casa e bottega” delle proprie
opinioni, che potrebbero anche essere errate ; sono gli
altri che le devono giustificare e cercare, nel caso, i modi
di praticarle.
In sintesi, tuttavia, fu il ceto borghese, il più potente in
ricchezza, a trovarsi nella condizione di far volgere al
proprio interesse la situazione storica.
La lotta per il potere, fra le classi, continuò quindi con
alterne vicende e rovesciamenti di fortune, per oltre 200
anni, sino a giungere all’attuale fase di “stanca”.E’
importante, tuttavia, osservare che i partiti politici si
sono adeguati sinora a “quella” fase storica, e la loro
struttura è stata sempre la logica conseguenza delle
esigenze di “quella” epoca.
La dimostrazione di ciò sta nel fatto che, ancora oggi, i
partiti politici, pur nelle loro differenze, si accomunano
in un obiettivo : riempire, per quanto più sia possibile,
tutti i posti e le cariche disponibili con uomini di propria
fiducia, cosa che in una democrazia evoluta (a parte le
incombenze strettamente politiche) non dovrebbe trovar
giustificazione.
Tutto il periodo successivo alla rivoluzione
manifatturiera-industriale sarà ricordato dalla storia come
un periodo critico durante il quale la società occidentale è
passata, dalla fase organica dei grandi reggimenti
monarchici assolutisti, alla nuova fase organica che
attualmente dovrebbe consolidarsi nelle grandi nazioni
europee e americana.
L’arricchimento di tutte le nazioni civili a economia
capitalista che si sta producendo, con le inevitabili
battute d’arresto, dagli ultimi settant’anni, ha avuto
inizio da una intuizione di John Maynard Keynes provocata
dalle conseguenze della crisi economica del 1929. Si scoprì
allora qualcosa che si sarebbe potuta capire anche cent’anni
prima, cioè la grande importanza economica di un
proletariato “consumatore”.
Il vecchio capitalismo, che pensava soltanto in termini di
accumulazione e riproduzione della struttura industriale,
non avrebbe potuto, ingigantendosi, fare altro che
moltiplicare il numero e la miseria del proletariato,
favorendone con ciò la spinta rivoluzionaria e l’ingresso al
governo dello Stato. Vi fu, è vero, un aumento della
ricchezza pubblica, che iniziò negli anni successivi la
guerra franco-prussiana, ma esso si dové alla espansione
capitalista oltremare, non a modificazioni di comportamento
nei rapporti fra capitalisti e operai.
Il basso potere d’acquisto e la gran mole di merci prodotte,
alla fine necessariamente invendute, avrebbero portato lo
Stato capitalista a una serie di crisi sempre più profonde,
che si sarebbero risolte nel proprio definitivo collasso.
Era questa la posizione di Rosa Luxemburg (L’accumulazione
del capitale) la quale risolveva il ciclo storico del
nuovo secolo con la distruzione “dallo interno” del
capitalismo stesso.
Le conquiste sociali degli ultimi decenni del XX secolo
hanno, in fondo, portato casualmente al benessere, ma non
alla riduzione della concezione plebea della vita. Tuttavia
non sarebbe il caso di predicare il passo indietro: il
miglioramento, anche solo materiale, delle condizioni
generali del vivere, può consentire di approntare i mezzi
necessari a raggiungere quel risanamento dell’ humus morale
del quale si è scritto: un progresso è, certamente, il
superamento internazionale del protezionismo.
Tornando ai partiti politici, essi possono anche non
giustificare una democrazia se non sanno adeguarsi alle
regole naturali di convivenza. Ciò che si oppone al rispetto
di queste regole è il fatto che quasi tutti i partiti
attuali sono nati nell’epoca delle accennate guerre fra
classi, e quindi riconducono la loro organizzazione interna
e la loro prassi a quell’epoca, anche se lo negano ed
apparentemente ne sembrano fuori.
Ora, qui non discuto le ideologie, e nemmeno le religioni :
esse sono soltanto “presunti” sistemi di verità, costruiti
però non a caso, ma per necessità storica e nella onesta
finalità della utilità pubblica. In breve, il partito
ideologico non conosce altra forma di lotta, o di polemica,
che non abbia per fine la istituzione di un governo
finalizzato a dar forma pratica a un programma coerente con
le proprie conclusioni teoriche.
Purtroppo la lotta delle ideologie, soprattutto quella
cruenta, può essere indotta per contagio organico
proveniente dal gerarchismo. Mussolini, ad esempio, non
sarebbe mai potuto diventare duce del fascismo se non fosse
stato prima nominato direttore dell’”Avanti”.
Mi soffermo un momento a considerare il concetto di “Stato”,
secondo il modello ideologico e secondo quello democratico
(l’argomento sarà ripreso).
Secondo il modello ideologico (Hegel), lo Stato è lo spirito
obiettivo, il razionale in sé e per sé, il quale,
confondendosi con l’ideologia stessa, si identifica con il
popolo intero, coinvolgendolo idealmente e materialmente.
Per l’ideologo, pertanto, il governo è di già lo Stato. Così
fu nel migliore fascismo, nella migliore dittatura del
proletariato, nel migliore ideologismo cattolico
(naturalmente, non hegeliano), et coetera.
La decadenza del liberalismo si dové al fatto che,
all’interno di esso si affermò e prese forza un modello
ideologico ateorico definibile nell’interesse di una sola
parte sociale, che divenne poi preminente nella produzione
della legge.
La concezione democratica, almeno quella liberale,
presuppone invece lo Stato super partes.
Della concezione giusnaturalista riferentesi al pactum
unionis sarà scritto in seguito.
Negli ultimi decenni della nostra storia, le conseguenze
economiche della crisi del ’29, la fine della seconda guerra
mondiale, la caduta della “dittatura del proletariato”, lo
invecchiamento delle ideologie laiche borghesi, il
miglioramento tecnologico televisivo e informatico, la crisi
della unità politica dei cattolici, la permissività
consumistica, l’allungamento del limite medio della vita,
per non dire la neo-urbanizzazione, la rivoluzione
strutturale nelle campagne, le migrazioni, tutto ciò sta
rendendo sempre più anacronistica la prassi ordinaria della
vita dei partiti.
La cosiddetta “crisi delle ideologie”, se ha migliorato le
società civili dell’Occidente liberandole da fanatismi e
violenze, pure non ha saputo sostituire adeguatamente la
parte utile delle medesime, quella delle persone in buona
fede, oneste, costruttive, affidabili, disinteressate e
capaci di sacrifici.
Le ideologie, come si sa, sono sempre sorte da società
malate, come cure per le medesime : il loro fallimento è
stato provocato dalla necessità della loro canonizzazione
teorica e dalla conseguente gerarchizzazione che ha portato
poi a confondere la vita, o l’interesse di qualche
individuo, con l’ideologia stessa. In breve, tutte le
ideologie hanno dovuto scoprire che il “potere” è di per sé
una ideologia che le accomuna tutte e che, alla fine,
pretende la contraddizione delle teorie.
Dovrebbe conseguirne, in pura linea teorica, che le società
ideologizzate sono poco adatte a provocare il risanamento
morale della società civile, e che le società positivamente
pragmatiche sarebbero (sempre teoricamente) molto più adatte
a ciò. Rispetto ai partiti politici la società civile sembra
avere, in pratica, un rapporto di vero e proprio pactum
subiectionis, il quale, lo abbiamo già visto, non è un
rapporto che possa definirsi democratico.
Il partito, in breve, non è condizionante della democrazia,
ma è soltanto un sistema (apparentemente ritenuto
insuperabile), che consente ai cittadini – attraverso delega
– di contribuire alla costruzione della legge. E’, tuttavia,
anche una porta pericolosamente aperta sul controllo
permanente dello Stato da parte di piccoli gruppi solo
formalmente rappresentativi della volontà popolare. E’
giusto che i partiti politici siano gli unici ad avere le
chiavi di questa porta ?
Lo è, solamente se tutti i cittadini, liberamente, lo
consentono.
Riguardo, infine, al rapporto partito politico – Stato, per
comprenderlo sarà necessario tornare alla discussione sulle
ideologie.
In senso democratico, sia liberale che giusnaturalista, lo
Stato è una istituzione fondata e accettata da un popolo, o
da più popoli, allo scopo di dar corpo e potenza unitaria
alla loro comune necessità di sopravvivenza e sicurezza. Se
uno Stato è fondato forzatamente, ovvero al di là della
ragione e della volontà comune dei popoli e delle nazioni
che lo compongono, esso non è democratico, in quanto si
regge su una evidente coercizione legale.
Se si ritorna sulle concezioni espresse nei primi due
capitoli di questo scritto, si dovrà concludere che lo
“Stato dei cittadini” si caratterizza per queste
particolarità : essere super partes, possedere una
morale super partes.
Chi dunque, nella politica democratica, giungesse alla
carica di primo ministro e fosse in grado di formare un
governo, avrebbe ancora sopra di sé uno Stato super
partes e una morale pubblica coerente a questo valore.
Ciò che, praticamente, significherebbe : pubblica
amministrazione professionalmente apolitica e imparziale e
situazione morale nazionale tale che il governo non potrebbe
giammai forzare imponendo una morale sua propria.
Per questo motivo, le ideologie non possono essere
assimilate completamente, né ai pragmatismi, né alle
democrazie : esse, infatti, contengono già in sé stesse la
propria forma morale ben definita e giustificata, sicché,
quando giungono alla possibilità di formare un governo, esse
sono di già Stato e morale : per l’ideologo convinto il
cittadino imparziale è una persona da acculturare.
Questo testo riconosce quattro tipi principali di
ideologie :
L’ideologia hegeliana, di destra e sinistra : per essa lo
Stato si identifica con la morale e con l’ideologia stessa :
tali furono gli Stati mussoliniano e hitleriano, nonché la
dittatura del proletariato.
Vi è, ovviamente, differenza fra la destra e la sinistra
hegeliana, poiché la destra è più coerente ad Hegel e si
giustifica nella concezione gentiliana dello Stato che
contiene in sé la libertà dei cittadini e che idealizza sé
stesso e il popolo in una unica sintesi spirituale.
Per la vecchia destra il condottiero carismatico era la
conseguenza logica di tale concezione.
Per la vecchia sinistra, invece, lo Stato divino non era il
punto d’arrivo, ma un mezzo che il trascorrere storico
avrebbe dovuto cancellare in favore di una situazione di
benessere collettivo anch’esso, tuttavia, giustificato da
una morale ideologica ecumenica.
I recenti avvenimenti internazionali che hanno portato, sia
gli hegeliani di destra che quelli di sinistra, a
dichiararsi democratici e liberisti hanno aperto un
contenzioso teorico che meriterebbe di esser trattato
ampliamente, e che invece questo testo ignorerà, limitandosi
a un breve commento sul liberalismo, che sarà fatto nel
sesto capitolo (8).
Un secondo tipo di ideologia interessa il carattere
religioso (qui non c’entra il credere in Dio, cosa che
rientra, invece, nel campo dei diritti dell’uomo).
Quivi esiste una tradizione più conciliante, e si è già
visto come il politico religioso possa governare
pragmaticamente (con alleati laici), senza imporre l’etica
della propria parte alla collettività civile.
Esiste però, nella educazione religiosa in genere, e lo è
stato già rilevato, la tendenza alla incompatibilità
caratteriale. E’ più facile, quindi, per l’ideologo
religioso, la inclinazione alla disobbedienza civile, a non
accettare principi etici legalizzati dalla volontà popolare.
Questo problema si rivela importante sia in campo
etico-sociale che bioetico.
In questo campo la coerenza democratica vorrebbe che ogni
cittadino la pensasse con la sua testa, ma che poi
riconoscesse la forza dell’autorità popolare legalizzata,
qualunque fosse la sua opinione sulla maturità della
medesima.
L’ideologo religioso segue, invece, una sua etica
consequenziale, ed è difficile che poi si adatti
sinceramente a risultati diversi da quelli in cui lui è
convinto, anche se ciò interferisca con la volontà e le
convinzioni altrui. Casi di disobbedienza civile
pregiudiziale si rilevano spesso negli ospedali, fra le
reclute militari, etc.
Anche l’ateismo è una ideologia di carattere religioso :
infatti l’ateo è “sicuro”.
In realtà, Dio è l’ineffabile : temere o pretendere che il
pensiero di lui si tolga dal mondo è ridicolo. Egli ha
creato leggi naturali contraddittorie (almeno per quanto
riguarda la vita umana) ma ha poi messo la morte ad
equilibrarle.
Un terzo tipo di ideologia è “l’ideologia del me”, ovvero
l’ideologia dell’utile personale, o del gruppo.
Helvetius rammentò che, nella lotta fra i ricchi e i poveri,
i primi sono avvantaggiati dal fatto di possedere una
ideologia comune, non codificata (sono queste le ideologie
più forti), facilissima da apprendere e conservare in quanto
coincidente con l’interesse di ogni singolo ricco. I poveri,
invece, sono costretti a costruire programmi d’azione spesso
discordi, ed a seguire capi diversi, sovente in contrasto
fra loro.
La “ideologia del me”, storicamente, distrusse i valori
della rivoluzione francese già al tempo di Robespierre (che
abolì di fatto l’indipendenza della magistratura mediante
l’azione dei tribunali popolari da lui controllati) (9) ;
distrusse, in seguito, i postulati morali della rivoluzione
liberale.
Teorico inconsapevole della “ideologia del me” fu il
Machiavelli.
Questa ideologia ha la prerogativa di camuffarsi da
pragmatismo, sicchè funziona, per chi conosca un poco il
computer, come un “virus cavallo di Troia” delle
democrazie : la più pericolosa in assoluto in quanto si
impossessa anche delle altre ideologie e le fagocita.
La si riconosce in quanto, una volta arrivata al governo,
essa non ammetterà più né lo Stato, né la morale super
partes e tenderà a trattare il corpo sociale come un suo
proprio possesso : potrà conservare una democrazia formale
includente il suffragio universale, se troverà i mezzi
tecnici atti ad amministrarlo secondo il proprio interesse.
Questo tipo di ideologia può vestire qualunque abito, e
quand’è violenta mette in pericolo e divora, primi fra
tutti, i suoi stessi aderenti.
L’ultimo tipo di ideologia qui contemplato è l’ideologia
dinastica, che non dev’essere confusa con un ramo
particolare della “ideologia del me”, poiché una cosa è una
Casa regnante moderna, altra cosa è un potentato medioevale
o un principe rinascimentale.
Il Re di una nazione democratica, con le dovute differenze
di ordine dinastico e, naturalmente, di ordine legale, ha,
grosso modo, le stesse giustificazioni che l’articolo 87
della Costituzione italiana dà al Presidente della
Repubblica, soprattutto per ciò che riguarda la
rappresentatività dell’unità nazionale (o di un
Commonwealth, o di una unione di etnie diverse, come nel
Belgio).
Normalmente le dinastie tendono a non troppo pubblicizzare,
né a far pesare le proprie singole ideologie e si danno, non
so quanto volutamente, veste frivola.
In Italia, alla restaurazione monarchica, nel secondo
dopoguerra, nocque la condizione di Stato vinto (ed ex
nemico), cosa che, a parte la particolare situazione sociale
nazionale, non fece vedere agli occhi dei pochi cittadini
allora non ideologizzati (ma che contavano ; ad esempio il
Croce), la Casa Reale una garanzia per uno Stato e una
morale super partes. Parve inoltre, al popolo, che si
volesse restaurare una Casa monarchica ad hoc, per gli
interessi delle potenze vincitrici e di particolari classi
sociali.
In tutti i modi se, secondo la logica democratica, Re
costituzionalisti e Presidenti della Repubblica sono i
rappresentanti umani della unità popolare, e quindi anche i
garanti della moralità politica. In tale caso una dinastia onesta
dovrebb’essere preferibile a una istituzione presidenziale,
proprio in quanto non ha bisogno d’esser votata. Per contro,
però, un Presidente può essere preferito proprio in quanto
non porta seco una ideologia dinastica, ovvero, è assai meno
probabile che, in caso di grave emergenza, anteponga sé
stesso, o l’interesse della propria famiglia, al Paese. Un
pericolo potenziale costituisce, comunque, l’alternanza dei
presidenti.
Nemmeno l’aderenza della istituzione monarchica a una forma
di ideologia è facile da definire.
Ideologica dovrebb’essere la monarchia assolutista, che
tiene per sé morale e gerarchie. Semi-ideologica la
costituzionale, che condivide morale e gerarchie.
In breve,secondo
logica, la costante “Monarchia – Repubblica” eternamente
incompatibili, prodotto ideologico insuperabile nella
monarchia di spada e nell’assolutismo, nella coerenza
giusnaturalistica verso il pactum unionis, dovrebbe
non esistere, in quanto monarchia o repubblica “eterne” sono
già, di per sé, un subiectionis.
Per il giusnaturalismo moderno, Re e Presidenti devono
essere “funzionari”, in quanto il corpo sociale deve
attribuir loro una funzione equilibratrice e normatrice ben
precisata e chiara.
“Super partes” perciò, non il Re o il Presidente, ma
la morale, la vita libera e sana della società civile per la
quale Re e Presidenti sono già popolo.
Il prossimo capitolo di questo libro sarà dedicato,
pertanto, al corpo sociale ed ai valori che lo giustificano.
CAPITOLO QUARTO
Educazione e cultura
Ci si può chiedere a cosa serva l’educazione in una società
democratica: si può rispondere che essa serve a far
percorrere, a un giovane, una strada nella quale evolverà da
una situazione di passività e debolezza riguardo
all’ambiente, ad una nella quale egli avrà acquistato quella
capacità d’agire che poi lo connoterà e gli consentirà di
porsi razionalmente nella società in cui vive.
L’educazione serve quindi a dare sana potenza, quella
potenza che poi si trasformerà in qualità di lavoro e di
opere e che quindi, alla fine, giustificherà il cittadino.
In considerazione di tali scopi, l’educazione dovrà
predisporre un ambiente libero, privo di condizionamenti,
non solo sull’educando, ma anche sull’educatore.
In breve, sarà importante non vedere, nella educazione in
sé, qualcosa di strumentale e finalizzato a un interesse
parziale. Ciò pensava anche John Dewey, il quale dava, alla
educazione, la stessa giustificazione pratica che alla
democrazia, la quale non può concepire il cittadino carente
di potenza civile.
L’educazione, in sé, ha dunque questo fine: di evitare che
lo Stato sia popolato di plebi (10).
Se ci riferissimo poi ai secoli passati, non ci
meraviglieremmo più della difficoltà che il corpo sociale
manifesta a raggiungere una maturità culturale autonoma, e
della facilità, invece, con la quale esso è aggredibile
dalle ideologie.
Secondo me, il punto da cui parte la intuizione nietzscheana
del "Superuomo" si trova all’ interno della concezione
pessimistica della filosofia di Schopenhauer che vuole il
genere umano continuatore, e quasi sintetizzatore, della
logica che intende la natura eterno campo di battaglia per
la conservazione dei singoli e delle specie.
La natura non tende al progressivo miglioramento, ma, nei
limiti del possibile, alla conservazione, e la cosiddetta
"evoluzione" altro non è che progressiva fissazione delle
modificazioni, che altrimenti la lucertola sarebbe un
perfezionamento del dinosauro.
In questo senso, il genere umano moralmente inteso, non
sarebbe altro che il riassunto, il compendio logico della
vita animale, e la sua "apertura al miglioramento" sarebbe
solo illusoria.
Scientificamente, tuttavia, se si rapporta l’uomo morale
all’animale fisico, allora, per quanto riguarda la
modificazione, l’ambiente dovrebbe contare.
In breve, per Schopenhauer, l’uomo sarebbe il Superanimale,
niente di più in considerazione etica. Per superare la
gerarchia morale del "Superanimale" sarà necessario che il
genere umano ascenda alla statura di "Uomo". Ed in effetti,
nulla vi è, nell’opera nietzscheana che intenda il
"Superuomo" ente a sé, individualmente separabile dal
contesto umano.
Si sosterrà adesso che la democrazia può avere un suo tipo
di filosofia preferenziale, come questa sia, di necessità,
non sistematica e debba quindi condurre, per logica
conseguenza, ad una politica non ideologica.
Finora i metodi di osservazione della natura e della società
si sono sviluppati come risposta a tre domande analitiche:
Perchè?, Come?, A che serve?
La domanda-risposta sintetica: Cos’è? – Ecco cos’è!
presuppone la preventiva risoluzione dell’analisi.
Le tre domande analitiche non si combattono e non si
escludono a vicenda, in quanto la prima è rivolta al
passato, la seconda al presente e l’ultima al futuro.
Il filosofo, quale "amico del sapiente" dovrebbe perseguirle
tutte tre, ma normalmente ogni metodologia di ricerca ne
approfondisce una sola, limitandosi a tenersi al corrente
riguardo alle altre.
Un esempio può provenire da un fatto qualsiasi: i giovani si
sono azzuffati nello stadio.
- Perchè? – Per individuare le cause sociali, o
sociobiologiche, o psico-storico-sociologiche, occorre uno
studio eziologico d’ambiente.
- Come? – In che modo si è svolta la zuffa? La risposta
richiede una mentalità scientifica.
- A che serve? – Quali conseguenze potrebbero derivarne?
Questa domanda richiede una risposta più decisamente
filosofica, che sarà analizzata fra poco.
La domanda – Perchè? – (Perchè avviene? – Cosa ha prodotto,
o produce un fenomeno?) è la più antica ed apparentemente
ingenua, ed è anche la domanda che ha interessato il più
gran numero di scuole, intervenendo sia nella fisica che
nella psicologia, ovvero sia nello studio della materia che
in quello dell’anima. E’ un grave errore pensare che sia
superata, o che possa esserlo nel futuro.
Da Talete e dai fisici di Mileto sino al materialismo
storico, dalla teologia scolastica medioevale alle più
attuali forme di spiritualismo, la ricerca eziologica è
sempre stata ritenuta indispensabile alla scoperta delle
cause degli avvenimenti reali. Essa non distingue il
fenomeno limitato dal tutto: dal perchè della coltivazione
dei campi si può risalire alla dimostrazione della esistenza
di Dio o alla giustificazione della rivoluzione cinese.
La differenza tra spiritualismo, idealismo, realismo e
materialismo non sta, pertanto, nella qualità della domanda,
ma nella diversità dei percorsi di ricerca.
Per lo spiritualista, la catena ascendente delle cause
finirà necessariamente per ricondurlo a una causa prima;
per l’idealista
hegeliano ad un itinerario storico-dialettico non ancora ben
definito e chiaro, nonostante se ne discuta da quasi due
secoli.
Per il materialista le cause che producono un fenomeno sono
da ricercarsi nella composizione stessa della materia, e se
questa materia è la società, nella effettiva strutturazione
economica della medesima.
Materialismo e idealismo osservano il fenomeno "per causa"
(se lo risolvessero "per effetto" diverrebbero deterministi,
ma così non è), pertanto sono rivolti al passato.
In nota discorsiva, il determinismo presuppone che le stesse
cause producano gli stessi effetti, e viceversa: si può
intuire che ciò non può essere, sempre e correttamente,
applicato alle scienze umane.
La domanda – Come? (- Come avviene? Spiegazione sincronica
del fenomeno) è propria della scienza, sia fisica che umana.
Segue il fenomeno nel momento stesso del suo attuarsi, e
quindi riguarda il presente. Se storia, politica o
sociologia vogliono trattare convenientemente il presente (o
analizzare un fatto avvenuto entro un piano di
contemporaneità) devono attenersi alla domanda scientifica.
La scienza, in genere, inizia lo studio di un fenomeno
(semplice: ad esempio, un minerale; complesso:
la vita nel mare)
non trascurando, prima e dopo aver realizzato l’analisi, né
le cause che lo producono, né tutto ciò che ne può
conseguire. Il suo limite è però contenuto nella sua stessa
metodologia, che si attiene alla evidenza (criterio non
contraddittorio e riproducibile di verità).
Ma il criterio non contraddittorio e riproducibile non può
spingersi lontano rispetto al passato e al futuro;
presuppone la fissazione del presente. Non storia, infatti,
poiché i documenti umani possono essere variamente
interpretabili; non filosofia, in quanto non sarà possibile
accettare nessuno sconfinamento né sul campo della
metafisica, né in quello delle ipotesi.
Le scienze fisiche colgono quindi la verità
(indipendentemente dalle discussioni sui relativismi e dalle
limitazioni degli strumenti) soltanto in quanto esplorano un
campo più ristretto e già stabilizzato in precedenza.
Per le scienze umane l’adeguamento alla metodologia
scientifica è una tendenza che si ritiene indispensabile a
mantenere elevata la qualità della raccolta documentaria
propedeutica, ma che, alla fine, non garantisce la
ripetitività delle conclusioni. Si è scoperto questo nelle
scienze umane: che due, tre, dieci piccole verità sommate
non conducono ad una conclusione veritiera univoca. Fu
questa scoperta a far cadere il positivismo e a mettere in
difficoltà la dialettica marxista.
La domanda "Com’è avvenuto? – infatti, rapportata alla
storia, è solo apparentemente scientifica, poiché può essere
deviata da documenti contradditori, o comunque
interpretabili in modo non univoco.
Alla fine, le domande – Perchè? e – Come? non sono domande
prettamente filosofiche: applicata a queste domande la
filosofia logicamente muore, poiché vi sono altre discipline
che si occupano delle risposte.
Il metodo scientifico non può essere applicato in filosofia
se non casualmente e parzialmente, ciò per motivi di
estensione di campo.
- A che serve? – (- Cosa ne consegue?). La domanda non è
moderna quanto potrebbe ritenersi; soltanto che è dallo
statunitense Charles Sanders Peirce (1839-1914) che ne è
stata rilevata la importanza fondamentale per la filosofia,
ovvero l’adattamento agli effetti sensibili delle cose che
ogni problema di questo tipo produce.
Per esser chiari, qui si intende il pragmatismo proveniente
dal principio di ragione utilitaristico, non diverso da
quello che perseguiva Bentham, il quale si riallacciava alla
esigenza kantiana di un’etica fondata su un principio a
priori di carattere razionale e universale.
Prima di Peirce la domanda pragmatica era considerata
volgare, allineabile al "- Cui bono?" – o al "Cui prodest?"
(- A chi giova? – A chi conviene?). Nietzsche, che fu pure,
nel suo fondo, un moralista serio, non si pose questo
problema, probabilmente a causa della sua stessa
(riconosciuta) scarsa comprensione di Kant (il cinese di
Koenigsberg) di cui Peirce, invece, fu appassionato
estimatore.
Durkheim applicò il concetto al finalismo e, insieme ad
esso, ne propose il rifiuto dalle scienze sociali."Mostrare
a cosa un fatto sia utile non vuol dire spiegare, né come
esso sia nato, né come esso sia ciò che è" (11), critica
lapalissiana che però non inquadra il problema.
Peirce intuì che dare un significato pratico alle domande
che si ponevano alla filosofia sarebbe stata la strada più
breve e più chiara per giungere alla risposta etica diretta,
evitando ogni deformazione dovuta a inquinamento da
pregiudizio (12).
La più evidente risposta che si può dare alla domanda – A
che serve? – è, infatti, questa: – “Può servire a molte cose
diverse” cosa che obbliga alla scelta di un tipo
preferenziale di risposta ed a giustificarlo.
Come si vede, questo è l’unico metodo coerente a una morale
super-partes, in quanto la risposta non è
anticipata da un codice, ma discussa e accettata da un corpo
sociale, tollerante se in minoranza.
In più, la risposta non è permanente, ma può seguire le
modificazioni del costume e cambiare se i risultati che ci
si aspettava non sono venuti.
Proverò a produrre due esempi, uno pratico, uno
neutro-intellettualistico.
Per il primo, potrei chiedermi: – “A cosa serve una legge
per la limitazione della quantità di fosforo nei
fertilizzanti, in agricoltura?”
Questa domanda presuppone almeno due risposte
contraddittorie, una ottimistica (la diminuzione
dell’inquinamento nelle falde acquifere e, conseguentemente,
nei mari e nei fiumi), un’altra pessimistica (la prevedibile
diminuzione del consumo totale dei fertilizzanti chimici,
con conseguenze dannose in campo industriale e
occupazionale).
L’ambivalenza di queste risposte mi obbligherà all’abbandono
della ricerca di un criterio assoluto di ragione e alla
necessità di una scelta etica, di un’affermazione di
responsabilità in campo sociale e morale.
Per il secondo esempio, posso pormi la domanda: – “A cosa
serve la metafisica?” – Posso rispondere: – “Serve a
trattare tutti quei problemi che non consentono la
ripetitività dei risultati e che quindi non possono essere
risolti con metodo scientifico.” – Per controllo posso
ancora chiedermi: – Esistono questi problemi? – Posso
facilmente rispondere di sì, in quanto tutto lo scibile
delle scienze umane ne è pieno. In questi casi un criterio
di orientamento non potrà essere dato che dalla valutazione
dell’effetto pratico.
Riguardo a questo problema dovrei riconoscere di non avere
alternative da seguire; tuttavia sarei costretto ad
ammettere che le domande: – Perché? – (esiste) la
metafisica, o un determinato problema metafisico, e Come?
(opera) la metafisica, non sono domande filosofiche, in
quanto la prima richiederebbe una risposta
storico-sociologica, la seconda una risposta
metodologico-scientifica.
L’unico modo di trattare filosoficamente la metafisica
sarebbe quello di trovare, di volta in volta, un argomento
metafisico e svilupparlo (ad esempio: l’architettonica della
ragion pura) adeguandolo alla domanda. – A che serve? –
In caso di risposta negativa (- “Serve a nulla” -) dovrei
dedurre che l’argomento non è filosofico.
Nei primi decenni del ventesimo secolo si convenne di
sottoporre ogni argomento filosofico alla domanda: – Cosa
significa? – (Russell, Wittgenstein, Scuola di Vienna),
domanda professorale che consentiva di dare un voto e
separare il grano dalla pula. Aveva il solo difetto di
pietrificare ogni argomento e preferire l’analisi del verbo
allo sviluppo del significato. Esaurita la Scuola di Vienna
e assassinato Schlick, nel 1936, da uno studente nazista, si
convenne che la filosofia era morta, ed anche Hitler lo
confermò.
Da allora, effettivamente, la filosofia sembra scomparsa
dalla comprensione popolare e, per conseguenza, si è avuta,
almeno sino al principio degli anni Ottanta, una grande
lievitazione di ideologie e micro-ideologie.
E’ accaduto, purtroppo, che, cadute le ideologie (che sono
tutte codificazioni morali assolutizzate), e non essendo
esse state sostituite da una morale libera e razionale, ne
ha risentito soprattutto la morale pubblica, in genere.
Tornando alla filosofia analitica, o dell’analisi logica,
essa era una utilissima revisione capace di scardinare (nel
segreto dell’alcova universitaria) troni consolidati, ma in
sé non era ancora filosofia, in quanto non si rivolgeva al
futuro, non generava proposte: era sterile.
La filosofia, in Peirce e James, è innanzitutto un
“rapporto” fra un “Io” umano pensante e un “Non Io”
indifferentemente concreto o astratto, pezzo di materia o
ente di ragione. Non, pertanto, la conoscenza del “Non Io”,
ma quella del suo rapporto con l’”Io”, questo identifica la
filosofia.
Quest’ultima, pragmaticamente, più ancora che rispondere
alla domanda: – Cosa ne consegue? – si identifica nella
domanda stessa.
Supponiamo che il “Non Io” sia una pietra. Si è convenuto
che, se ricerco la natura della pietra in sé, rispondo alla
domanda Come? E faccio scienza. Potrò rapportare la pietra
ad altri oggetti e ricavarne alcuni parametri di analisi e
misura (peso, qualità di materia, etc.); se quindi vorrò
avere esperienze riproducibili (o almeno quanto oggi si
consente con questo termine) dovrò limitare lo studio della
medesima al piano fisico oggettivo.
Se intendo fare filosofia, invece, dovrò cercare un rapporto
fra me e la pietra. Potrò rivolgermi una infinità di
domande, sia intelligenti che stupide: – Cosa accadrebbe se
la pietra mi venisse in testa?” – “A che serve che alcune
pietre delimitino un campo?” – “Che siano grezze o
lavorate?” – … Queste domande presuppongono l’attività
intellettuale di un “Io” in rapporto a un “Non Io” e
pertanto sono speculazioni filosofiche (si intende che il
“Non Io” può essere anche un rapporto umano).
Alla fine, la filosofia non è, come si vede, un mestiere,
un’attività riservata a pochi: essa, piuttosto, è il
rapporto del vivere quotidiano.
Nella storia, sistemi di bugie (superstizioni) e sistemi di
verità (ideologie) sono sempre serviti a confondere la
innata capacità filosofica popolare, né i tempi moderni
sembra ce n’abbiano tirato ancora fuori del tutto.
Tornando al nostro argomento, la domanda pragmatica non può
essere risolta senza arrivare necessariamente alla
valutazione etica della risposta, né senza raggiungere una
giustificazione imperativa, o almeno la tendenza ad essa.
William James (statunitense, 1842-1910), ad esempio,
sosteneva un pragmatismo ipotetico che dava per buone tutte
le risposte alla domanda: – A che serve? – purché
utili al soggetto che se le poneva (tuttavia entro un
preciso limite legalistico). Se non centrò il problema, o
meglio, se dimostrò di non avere compreso Peirce, suo amico,
pure ebbe il merito di intuire che la filosofia, per aver
senso, non può limitarsi ad essere un’autoriproduzione di
professori.
Alle fine, non so se la filosofia pragmatica potrebb’essere
definita “propria” della società democratica, però la
consapevolezza che solo la risposta etica imperativa rende
efficiente la domanda che proviene dalla osservazione di
ogni problema umano e sociale concreto, questo può rendere
l’individuo interprete e produttore diretto della propria
moralità e della propria storia.
La consapevolezza della necessità della valutazione etica
delle azioni sociali e di quelle private non può che essere
peculiare del cittadino: nessun tipo di società che abbia
una morale precostituita e imposta, può riconoscere ciò in
modo sincero.
Per concludere, il pragmatismo non dev’essere mai confuso
con una ideologia “buona”, in quanto esso non è una
filosofia di sistema. Conditio sine qua non affinché
nel mondo si affermi una qualche situazione di moralità
fertile, è di fissare la morale a sé stessa (al concetto
fine a sé), non a un modello precostituito di verità: il
giudizio morale dev’essere finalizzato a un problema e
discusso estemporaneamente; non devono interferirvi verità
"superiori" capaci di influenzarlo o modificarlo, ad esempio
il versetto di un testo sacro o un passaggio in un libro di
un pensatore importante.
Mi spiego meglio: tutto può essere accettato, ma nulla “a
priori”, per inconsapevole costrizione intellettuale.
Alla fine, la sfiducia nella saggezza umana non può risultar
vincente “ruat coelum”; ci dev’essere un “punto zero”
oltre il quale le conseguenze delle azioni umane devono
poter essere messe a frutto in modo socialmente e moralmente
positivo.
CAPITOLO QUINTO
Lo spirito ed il lavoro
Ci si può chiedere cosa sia lo spirito di un popolo: in
coerenza con la definizione cartesiana secondo la quale
“spirito” è sinonimo di “intelletto” o “ragione”, la domanda
potrebb’essere girata così: – Esiste nel popolo una ragione
comune?
Una risposta logica potrebb’essere questa: può esistere
nella valutazione collettiva di alcuni valori di natura
morale; può non esistere per una infinità di altri valori o
prodotti dell’intelletto che siano oggetto di speculazione
collettiva.
Si può avere ragione universale, ad esempio,
nell’accettazione del principio generale di benevolenza,
nell’amore di patria, nello spirito di fratellanza, etc.; se
ne potrà, invece, non avere per una moltitudine di altri
problemi etici (ad esempio nella bioetica e nella socioetica).
Lo spirito, in altre parole, non è mai ente astratto “per
sé”, ma è sempre interno a un concetto razionale ben
determinato.
E’ un pericoloso pregiudizio ritenere che lo spirito sia
qualcosa che vada al di là dell’ethos, quasi un denominatore
comune di tutte le idee o ragioni dei singoli. L’”anima
universale” contemplata da Montesquieu quale astrazione di
molte cose che riguardano gli uomini: leggi, tradizioni,
costumi, usanze, è sempre qualcosa di umanamente
riconoscibile, definibile e quantificabile.
Se ne può dedurre che non esiste uno spirito del popolo
astratto in sé, ma soltanto una unione individuale di anime
che si riconoscono e che, in alcuni casi e per limitati
periodi, possono unirsi a determinare una volontà
collettiva. Lo “spirito”, alla fine, è soprattutto una
manifestazione di volontà.
La definizione “spirito” rimanda, in breve, alla concezione
kantiana di popolo quale aggregato di monadi.
Interpretare lo “spirito” quale ente per sé, significa, per
conseguenza logica, definire anche popolo, Stato e
istituzioni, enti astratti, e siccome in realtà non lo sono,
considerarli tali costituisce una forzatura imposta od una
pericolosa autoillusione.
Considerato in tal modo, qualunque sia la determinazione
propagandistica del termine “popolo”, esso diventa “altro da
sé” dal governo; questa, ad esempio, fu la contraddizione
che impedì alla “dittatura del proletariato” di affermarsi
come continuazione logica della rivoluzione del 1917, e che
provocò alla fine – giustamente – il trapasso verso i tempi
attuali.
In concreto, quando si dice “spirito di un popolo” occorre
sapere sempre di cosa si sta parlando, e quali ne siano i
limiti.
Lo spirito individuale, invece, si determina come riflesso
di cose animate e inanimate, le quali, presenti e percepite
come fenomeni, sono riconosciute dall’intelletto, non
secondo ragione, ma come sensazione spirituale.
Il fondo originario della musica, della poesia, della
mistica, dell’arte figurativa e tali, proviene dalla
percezione, da parte dell’”Io”, di un “Non Io” fenomenico,
oggetto singolo o composizione, concreto o mentale, animato
o inanimato, sensibile, visibile, audibile, odoroso,
elaborato nel pensiero, proveniente dalla natura esterna ed
interna.
Lo spirito può svilupparsi, all’inizio, per imitazione,
poi come risposta originale, ed è quindi il rapporto fra un
“Io” e un oggetto (o una composizione statica o dinamica di
oggetti) che provoca nell’”Io” uno stimolo diverso da quello
prettamente razionale, però non contraddittorio e oppositore
della ragione.
In senso spirituale posso conversare col monte, con le
fronde degli alberi, con gli uccelli, ascoltare il fragore
della risacca respirandone le spume, posso osservare lo
scorrere delle acque di un torrente e godere del gioco dei
vortici, posso ammirare i colori del cielo nell’alba, il
fiammeggiare di un tramonto o le argentee luminosità della
notte. La risposta spirituale dell’”Io” all’oggetto si
esprime chiaramente nell’arte, in forme infinite. Anche il
pensiero stesso, la fantasia, si riflettono nell’animo umano
come forme reali, trasfigurandosi in rappresentazioni
ipostatiche.
E così, come non esiste incompatibilità fra ragione e
spirito, non ne esiste fra arte e ragione. L’arte può creare
una razionalità irrazionale, o il suo contrario, ma non
potrebbe negare la ragione senza negare sé stessa.
L’arte, in fondo, è una forma di comunicazione, dapprima
dell’artista con la natura viva o con il pensiero ad essa
interposto, poi dello stesso artista col proprio pubblico,
al quale egli racconta i risultati del suo precedente
dialogo. Ciò succede, peraltro, non solo a livello
artistico: la espressione della ragione spirituale è una
necessità di tutti e connota la libertà.
Ognuno deve accettare che le forme d’arte siano
innumerevoli: nessuno può ridurle entro un codice o renderle
necessariamente applicative a uno scopo. O meglio, ognuno
può dare uno scopo alla propria arte, ma non può dare uno
scopo all’arte in sé; mille altre forme e mille altre
applicazioni potranno sempre giustificare espressioni
diverse.
A cosa serve l’arte? – Serve all’artista, ad esprimere
sensazioni e ragioni trasfigurate, o reali. – Serve,
contemporaneamente, al pubblico, a riceverle e giudicarle.
Quest’ultimo non è un corpo estraneo; è la seconda metà
della sfera dell’artista.
Nessun governo può imporre una forma d’arte se non forzando
lo spirito umano; nessuna forma d’arte può, per sé,
giustificarsi come preminente.
Il giudizio proviene da una meditazione razionale sul
rapporto fra l’oggetto realizzato dall’arte (il racconto, o
la descrizione grafica, che l’artista ci ha fatto della sua
comunicazione con il proprio “Non Io”) e lo spirito
individuale del giudicante. In altre parole, il giudizio è
una privacy: se al mio amico non piacesse Picasso, io non
avrei alcuna arma per dimostrare il suo torto, anche se
tutto il mondo si pronunciasse contro di lui.
Con questo non sostengo la inammissibilità oggettiva della
critica; il buon gusto di certo esiste. Però, in campo
artistico, se pure ognuno può accettare o rifiutare
(personalmente) un’opera, pure a nessuno può essere
riconosciuto assoluto potere di giudizio individuale su
essa.
La dittatura di una scuola non è giustificabile, soprattutto
se imposta da una critica di Stato; se sinceramente e
concordemente accordata, di norma non dura molto.
L’arte, infatti, è una produzione di attività spirituale che
si rinnova in continuazione.
Anche il lavoro è una forma d’arte. Quest’ultima, infatti,
secondo Platone, è techne, ovvero opera per cui
l’uomo, con determinati mezzi, raggiunge i suoi fini
(Enciclopedia Vallardi, 1931).
Per il Petrocchi, arte e lavoro si identificano, essendo
l’arte: lavoro dell’uomo risultante dallo studio della
pratica e dall’ingegno, nel conseguire un effetto
determinato; mentre il lavoro è esercizio del corpo e della
mente rivolto a uno scopo.
Il Tommaseo pone in sinonimo arte, professione e mestiere,
mentre riguardo al lavoro pone l’opera come effetto e il
lavoro come atto, concludendo che ogni lavoro è opera.
La domanda pragmatica: – A che serve il lavoro? – (a parte
il lavoro illecito, cioè nocivo alla società) ha una
risposta facile: – “Serve a produrre molte cose diverse,
tutte imperative”.
Alla fine, si potrebbe accettare l’opinione dei vecchi
maestri, secondo i quali ogni buon lavoro richiede arte.
Lavoro ed arte, infatti, si risolvono in un prodotto, ovvero
in un atto creativo compiuto, ad ottenere il quale hanno
concorso ragione, spirito e consumo di potenzialità nervosa
e muscolare.
Non è completamente accettabile la suddivisione idealistica
crociana dell’attività produttiva in estetica e pratica.
Michelangelo e Leonardo da Vinci estetizzavano e
spiritualizzavano, ma non avrebbero mai potuto tradurre la
loro estetica in atto e in prodotto, se non praticando e
faticando.
L’estetica in sé è una qualità (o se si vuole una categoria)
del giudizio, non è un oggetto: qualsiasi concetto estetico,
per diventare opera, deve concretizzarsi attraverso il
lavoro.
A puro titolo prudenziale rimarrei, pertanto, con i vecchi
maestri, o come usano dire gli inglesi, col senso comune.
Il lavoro, come realizzazione di un prodotto, può essere
gerarchizzato. Si può ammettere che gli uomini non siano
tutti uguali e che alcuni, in determinati campi, siano più
dotati e possiedano predisposizioni migliori.
La realizzazione del Perseo del Cellini, ad esempio, non
sarebbe potuta avvenire ad opera dell’arte di un uomo solo;
esso ha richiesto anche il lavoro di un gruppo di operai a
lui sottoposti, addetti alle fornaci, alle colate, alle
funi… Ieri come oggi, anche nella più grande industria, la
realizzazione di un prodotto passa attraverso le stesse fasi
di ideazione, graficazione e messa in opera, per ottenere le
quali occorrono lavoratori strutturati in modo diverso, sia
per natura che per educazione.
In breve, qualsiasi lavoro, per essere realizzato, abbisogna
di un’attività intellettuale e di un’altra fisica che, in
genere, viene risolta da un gruppo.
Può fare eccezione chi lavora da solo, come talvolta accade
in campo scientifico e sovente in quello letterario, e chi
lavora in gruppo con metodi semplici, come un tempo accadeva
in agricoltura, ed ancor oggi nell’ artigianato.
Questo tipo di divisione del lavoro in sé, che entro limiti
vasti riconosce le differenze dei valori individuali, non ha
niente a che fare con la divisione del lavoro per caste (il
termine non è obsoleto), che presuppone una società
gerarchizzata “a priori”.
La divisione del lavoro “dei lavoratori” presuppone, in
alcuni, la predisposizione artistica, in altri quella
matematica, in altri ancora la virtù di adattamento a lavori
più semplici (che poi sono tali solo quando li si guarda
da fuori, con occhio stupido), in altre parole, presuppone
insieme, mente, braccio e virtù morali.
Tutto ciò riporta, in breve, alla considerazione che la
civiltà, intesa come espressione etica della vita comune di
un popolo, per giustificarsi deve esprimere la buona qualità
della classe lavoratrice, intesa tale in tutte le sue
espressioni gerarchiche.
L’argomento riconduce alla Scuola.
La qualità della Scuola, è stato scritto, riflette la
temperie morale in atto; sino a pochi anni fa era accusata
di provocare, a volte, spreco di intelligenze, disamorando i
ragazzi. Se ciò fosse vero, si dovrebbe aggiungere che essa
ha prodotto anche spreco di buoni insegnanti, ed è
importante comprendere che ciò non è avvenuto per demerito
delle nostre facoltà di Magistero, delle quali, al
contrario, sarebbe da apprezzare l’ottima qualità.
Tuttavia, se si ritorna alla prima nota del capitolo
intitolato “Educazione e cultura”, si potrà osservare che la
trasposizione pratica della logica educativa liberale, la
quale tende al massimo recupero delle attitudini, può
avvenire solo attraverso la massima differenziazione
spontanea, dal che dovrebbe conseguire una liberalizzazione
dei programmi primari assai più vasta di quella prevista
attualmente.
Scrivevo, nel testo “Teoria dell’Anarchismo aristocratico”
del 1996:
“Secondo logica – a mio parere – lo insegnamento medio
primario e secondario, dovrebb’essere unificato e assimilato
a una tavolata di cibi per la mente, da consumarsi secondo
preferenza, in modo che la scelta professionale possa esser
fatta, nel tempo giusto, dal ragazzo stesso (piuttosto che
dalla famiglia), non prima dei 16-18 anni, ovvero prima di
accedere all’università, o alla mezza università, o di
lasciare.” Mi sembra che, da allora, qualcosa in questo
senso sia stato sperimentato.
E’ chiaro che un nuovo ambiente dovrà essere costruito per
gradi, con il concorso corale di tutte le forze della
società: dovere della Scuola è cercare di scoprire e
corrispondere alle predisposizioni naturali dell’allievo,
non di forzarle e distruggerle. E’ un fatto che, avere una
passione incompresa per un lavoro, un’arte, un gioco, uno
sport, può condurre un giovane all’isolamento spirituale e
al dramma dello smarrimento della personalità, con tutte le
conseguenze che ne possono derivare.
In breve, non si può negare che Scuola e famiglia si
dividano reali responsabilità sulla paurosa perdita di
valori che impoverisce la società dell’oggi, anche se,
ovviamente, non grava tutto su loro.
Ritornando ai lavoratori attivi, sarebbe da chiedersi: E il
sindacato? Mi fosse richiesto un voto, darei un diciotto
strettissimo.
Ho già scritto che, in mancanza di alternative migliori,
sarebbe un errore rinunciare al consumismo. Ma un buon
sindacato dovrebbe almeno saperlo gestire: sembra retorico,
ma il problema centrale, per un lavoratore, è proprio quello
di sentirsi individuo, di liberare sé stesso, per prima
cosa, dal pensiero di appartenere alla categoria degli
oggetti di compravendita.
E’ una grave distorsione pensare che la filosofia del lavoro
si esaurisca in una conflittualità di mercato, che la vetta
degli ideali di un lavoratore sia quella di darsi, o
vendersi, al migliore offerente. Se lo fa, è perché ne è
costretto.
Bisogna riconoscere che nemmeno la buona fede delle
ideologie proletarie, sino ad oggi espresse, è riuscita a
vedere, nel lavoratore, qualcosa di diverso di un “altro da
sé”.
Il liberalismo di classe ha poi riconosciuto soltanto le
leggi e le esigenze del capitale: in entrambi i casi i
lavoratori “umani” sono stati separati da una società
concepita in astratto come qualcosa di differente da essi.
Nell’attuale forma di democrazia, la figura sociale del
lavoratore, nonostante il sindacalismo, è, purtroppo,
rimasta passiva.
Ammettendo infatti – come si ammette, da destra e da
sinistra – l’importanza dell’accumulazione e la persistente
validità storica del libero mercato, si deve riconoscere
anche alla categoria umana del lavoro, al di là di una
nebulosa e mistificante “dignità”, anche una “importanza
equivalente”.
Ora, la “importanza equivalente” il lavoratore non può
raggiungerla soltanto attraverso (ammesso e non concesso)
l’equo salario.
Se poi consideriamo che la “pacificazione delle nazioni” è
diventata, nel mondo attuale, non più un pensiero astratto,
ma una necessità in prospettiva storica concreta, allora non
si potrà non pensare che la classe lavoratrice
internazionale non avrà titolo in questa realizzazione. Ma
per realizzare questo, la classe lavoratrice si dovrà
trasformare in classe emergente, dovrà, intendo, “pensare ed
agire” da classe emergente.
E una classe sociale diventa emergente quando si toglie dal
rango di massa, quando i suoi componenti si trasformano da
oggetti in persone. La situazione storica, grazie allo
sviluppo attuale della tecnologia informatica, sembra essere
favorevole a ciò, anche se i tempi, almeno in Italia,
sembrano, in questo senso, scarsi di prospettive.
Se è proprio vero che le forze del capitalismo mondiale
perseguono una loro filosofia "global" finalizzata a
realizzare particolari interessi, pure mondiali ma di
settore, è altrettanto vero che la trasformazione di questi
interessi in fini che si propongano la perequazione delle
fortune e la pacificazione mondiale delle nazioni può essere
realizzata soltanto dalla classe lavoratrice internazionale.
Non dagli antiglobal, non dalle brigate rosse, non
dai piccoli partiti politici proletario-borghesi, i quali
tutti sono ammalati di carrierismo, di gerarchismo, di
minimalismo, di furbismo, e soprattutto intendono la ragione
una forma teologica di verità, non una strada, e non
capiscono i reali valori della democrazia, che sono fatti di
tolleranza e di senso pratico. Mancando la classe
lavoratrice, manca tutto, poiché un tale risultato può
essere raggiunto soltanto da un proletariato emancipato e
libero, capace di agire e pensare in modo positivo e per
conto proprio. Intendo, un proletariato che possa mandare i
figli a scuola ed emanciparsi.
Se poi questo discorso è inattuale e astratto, allora
bisognerà accontentarsi dei kamikaze sui grattaceli, delle
bombe in Afganistan, della incapacità a risolvere i fatti di
Palestina, e delle prospettive nucleari. Un discorso
eziologico su questi punti sarebbe, ahimè, troppo
lungo da fare e soprattutto concluderebbe poco, poiché
sarebbe rivolto ai sordi.
Dal punto di vista liberale, ogni lavoratore deve poter
contare, in ogni momento della sua vita reale, su uno Stato
di diritto che garantisca dignità e salario, difesa
sindacale, controllo dell’ambiente di lavoro, possibilità
concreta di miglioramento civile illimitato da realizzarsi
attraverso l’istruzione professionale e scolastica di sé
stesso e dei propri figli. Tali valori egli potrà
pretenderli per tutte le società del mondo, e solo lui avrà
la forza di realizzarli.
Animum debes mutare, non caelum (così
Seneca).
Alla fine, la “importanza equivalente” di tutti i lavoratori
fra loro, e della società con i lavoratori, non è una
conquista da raggiungere, o una invenzione polemica: è la
conditio sine qua non dell’applicazione pratica dei principi
teorici della democrazia, è la traduzione in atto del pactum unionis.
Nella prima parte di questo testo ho accennato a quattro
ideologie; avrei dovuto introdurne una quinta, la ideologia
economica, ma sarebbe stato assai difficile definirla, in
quanto essa interconnette con tutte le altre.
In realtà, una ideologia economica, per sé, non esiste,
proprio in quanto ogni ideologia ha una sua economia
preferenziale (o un particolare uso economico del mercato).
Ciò storicamente ha raggiunto il suo massimo, ad esempio,
nella ideologia hegeliano - marxista (o fascista) (tutti
i beni allo Stato - tutte le coscienze allo Stato), o
nello esasperato liberismo (niente allo Stato), et coetera.
Nell’etica democratica, al contrario, la morale (ovvero, la
conseguenza logica dell’accettazione del pactum unionis )
precede tutto, e di conseguenza anche l’economia.
Pertanto, la coerenza teorica dovrebbe suggerire: la società
civile dei cittadini è preminente, e deve quindi essere
messa in grado di poter influire sulle scelte economiche, in
modo da poterle liberamente modificare quand’esse le siano
di danno, o anche, più semplicemente, per migliorarle (ad
esempio, nei problemi internazionali, monetari, di lavoro,
di mano d’opera, etc.).
Alla fine, il Sindacato deve porsi all’altezza di questi
problemi, e se non ce la fa, che si munisca di istituzioni
d’appoggio, o al contrario si limiti ad appoggiarsi a
istituzioni nuove, capaci di entrare nel sistema di mercato
con un’ottica diversa.
Ad esempio, non esiste se non apparentemente, un sindacato
“europeo". Eppure è abbastanza evidente che il reciproco
rispetto dei nazionalismi dev’essere bilanciato dalla
realizzazione di una società civile comune.
Un problema concreto, conseguente a ciò
che sta, si potrebbe dire “a valle” di quello scolastico,
riguarda la comunicazione dell’individuo singolo con la sua
società. Nonostante si sia tutti d’accordo nel ritenerci
“straffogati” di comunicazione, pure dobbiamo ammettere che
quest’ultima scorre in un solo senso: dalle alte vette dei
detentori della pubblica informazione (che sono i detentori
del potere) alla bassa valle di chi poi legge e magari
vorrebbe discutere.
Intendo, si invitano le persone a leggere, ma ci si guarda
bene dall’invitarle a scrivere, a trasmettere agli altri i
frutti della loro esperienza, intelligenza, a raccontare ciò
che la vita ha loro insegnato.
Consegue da ciò uno spreco di esperienze dalle quali la
società civile potrebbe trarre grande utilità. Questo spreco
è anche provocato dalla indolenza dei più, però non è
completamente casuale, spesso discende da particolari modi
di intendere le gerarchie sociali, di regolare le carriere,
di costruire pubblici personaggi e grandi uomini.
E’ un mio vecchio pensiero di bibliotecario che, gli utenti
delle pubbliche biblioteche, insieme alle direzioni delle
medesime, potrebbero istituire sodalizi editoriali diretti
da comitati interni autonomi, finanziati e regolati dalle
stesse istituzioni che amministrano le biblioteche.
So bene che le biblioteche si sostengono con elemosine,
tuttavia l’etica bibliotecaria presuppone, da parte degli
utenti e degli utilizzatori delle medesime, la libera
appropriazione della conoscenza contenuta nei documenti
pubblici.
Questa, però, è solo la metà della sfera, la quale, per
completarsi, deve assimilare e metabolizzare la conoscenza
ritrasformandola in nuova cultura sociale.
Ciò sarebbe d’interesse per tutti, ma in modo particolare
potrebbe favorire le classi anziane, sulla promozione delle
quali, spesso, si parla a vanvera.
Quanto ai siti culturali Internet, suggerirei di non farne
scimmiottamenti di Case Editrici.
Chi apre un sito Internet per scopi culturali, si pone di
fronte agli altri nella sua dignità di “persona” eticamente
intesa. Egli vuole comunicare senza alcun giudice che il suo
interlocutore, e non intende passare sotto il capestro di
commissioni giudicatrici, e autorità consimili.
Prima di finire, poche altre aggiunte riguardanti la
sociologia del lavoro.
La prima riguarda la immigrazione extracomunitaria: vogliamo
servirci degli stranieri per i lavori più grevi e meno
qualificanti che i disoccupati italiani rifiutano?
La cosa si verifica di già, ma spesso in modo talmente
disordinato e caotico da presentare pericoli.
In tali casi la nazione ospitante dovrebbe comportarsi da
“maestra” e restituire alla loro patria uomini migliorati.
Purtroppo invece le leggi italiane abbastanza spesso hanno
consentito, sotto una ipocrita maschera di tolleranza
benefattiva, il lavoro sottopagato, lo sfruttamento, e assai
di peggio, come san tutti. Su questi problemi sono in atto
movimenti legislativi che mi auguro non si dilunghino in
sempiterno e apportino duraturi miglioramenti. .
Teoricamente, comunque, in una nazione democratica possono
esistere soltanto cittadini, o lavoratori stranieri
equiparati tali (non schiavi, non meteci), e turisti, ovvero
cittadini stranieri liberi e protetti da consolati.
Le attività dei non cittadini che non siano lavoratori
equiparati o stranieri protetti, possono spesso essere
giustificate come casi umani, ma è ammesso che possano
produrre pericolosi problemi sociali. Riguardo infine ai
problemi della disoccupazione e della delinquenza, intesa
quest’ultima come una specie di "anti-lavoro", questi sono,
praticamente, soltanto "effetti" che potrebbero essere
ripensati se si verificasse una sensibile modificazione
etico-strutturale della società.
Il metodo sociologico più idoneo a trattare prospettive di
cambiamento è, com’è noto, quello di procedere sulle cause,
e questo testo si è attenuto ad esse.
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NOTE:
(1)Cfr. J.J. ROUSSEAU. Il
contratto sociale, nota
al capitolo “Del patto sociale”.
(2)Th. HOBBES, Leviatano. Introduzione. Nella
traduzione di Mario Vinciguerra.
(3)Di fatto, è piuttosto difficile classificare e ripartire
gli Autori che hanno trattato il problema (metastorico)
degli inizi dei rapporti umani di convivenza e della
giustificazione delle leggi, essendovi, anche all’interno
della produzione di alcuni di essi, oggettive difficoltà di
interpretazione. Trattandosi, tuttavia, di testi classici,
il miglior consiglio da dare a chi legge è di cercarseli in
biblioteca e farsene una idea personale.
Fra le opere più rappresentative si possono ricordare :
quelle di Johannes Althusius (Politica methodice digesta) ;
Ugo Grozio (De iure belli ac pacis) ; Samuel
Pufendorf (De iure naturali et gentium) ; Richard
Cumberland (De legibus naturae) ; Thomas Hobbes (Elementi
filosofici del cittadino e Leviathan) ; Baruch de
Spinoza (Trattato politico) ; John Locke (il primo ed
il secondo saggio sul governo civile, la lettera e il saggio
sulla tolleranza) ; Ch. Louis de Secondat, barone di
Montesquieu (Lo Spirito delle leggi) ; Emanuele Kant
(Metafisica dei costumi, p. 1^Dei principi
metafisici della dottrina del diritto, sez. I., II. Il
diritto dello Stato) ; David Hume (Ricerca
sull’intelletto umano –Ricerca sui principi della
morale).
Il nostro testo si orienta, per i fondamenti della politica,
sulle opinioni di Althusius, Cumberland e Hume ; per la
morale, su Kant, per la filosofia su Peirce.
Riguardo alla posizione di Rousseau, la sua
contraddittorietà fu evidenziata da Benjamin Constant
e in seguito da Hans
Kelsen : “La volonté générale di Rousseau – scrive
quest’ultimo – espressione antropomorfa che indica
l’ordine statale oggettivo, valevole indipendentemente dalla
volontà degli individui, è assolutamente incompatibile con
la teoria del contratto sociale, che è funzione della
volonté de tous. Ma questa contraddizione fra una
costruzione soggettiva ed una costruzione oggettiva o – se
si vuole – questo passaggio da una posizione iniziale
soggettiva a un risultato finale oggettivista, non è certo
meno caratteristico del pensiero di Rousseau che di quello
di Kant e di Fichte.” Cfr. Hans Kelsen, I
fondamenti della democrazia, e altri saggi . Il Mulino,
Bologna, 1966, p.16.
(4)Cfr. Umberto Cerroni, Il pensiero politico dalle
origini ai nostri giorni. 1^Ed. 2^ rist. Editori
Riuniti, Roma, 1975, p. 535.
(5)Emmanuel Kant, nota a Il diritto dello Stato, sez.
I., p. II. di Dei Principi metafisici della dottrina del
diritto. (Metafisica dei costumi, p. 1).
(6) Kant (op. cit.) intese col termine libertà legale la
facoltà di obbedire alla legge alla quale il cittadino ha
dato il consenso, e non ad altre ; col termine uguaglianza
civile la considerazione che superiore al cittadino è
solo la propria legge ; con indipendenza civile il
riconoscimento che il diritto del cittadino proviene dal
proprio Stato e dalla propria Legge.
(7)Traduzione di Vittorio Mathieu, Kant, in Filosofia. Curcio,
Milano, 1988 IV, p. 1000 – 1043.
Ciò che dev’essere universalizzabile, spiega Mathieu, non è
l’azione in sé, bensì il principio soggettivo che la guida.
(8)Cfr. G.F.W. HEGEL, Lineamenti di Filosofia del Diritto.
Laterza, Bari, 1971.
§ 258. Scrive Hegel : Lo Stato, in quanto è la realtà
sostanziale, che esso ha nell’autocoscienza particolare,
elevata alla sua universalità, è il razionale in sé e per
sé. Quest’unità sostanziale è fine a sé stessa, assoluto,
immoto, nel quale la libertà giunge al suo diritto supremo,
così come questo scopo finale ha il più alto diritto, di
fronte ai singoli, il cui dovere supremo è di essere
componenti dello Stato.
In critica al giusnaturalismo : Se si scambia lo Stato
con la Società Civile, e la sua destinazione è posta nella
sicurezza e nella protezione della proprietà e della libertà
personale, l'interesse del singolo come tale è il fine
ultimo, nel quale essi sono unificati, e segue appunto da
ciò che esser componente dello Stato è una cosa a capriccio.
§ 270. In esaltazione : Lo Stato è la volontà divina, in
quanto attuale Spirito esplicantesi a forma reale e ad
organizzazione di un mondo.
(9) Si può ricordare la cosiddetta “Legge dei sospetti” del
17 settembre 1793, relazionata, nel Parlamento francese, dal
giurista Merlin de Douai. Questa legge, che prese atto
durante la dittatura di Robespierre, dichiarò superflue le
prove ed abolita qualsiasi forma di difesa dell’imputato
(politico).
(10)E' noto che il principio di libertà educativa, fondato
sul riconoscimento delle attitudini, sulla differenziazione
individuale spontanea, sulla negazione di ogni teoria
educativa ideologicamente imposta (anche come libertà da
metodologie precostituite),è centrale nella pedagogia
democratico-liberale. Basterà ricordare i nomi di John Dewey
e Alfred N. Whitehead.
Se noi spogliamo il suo credo –
Così John Dewey – dagli elementi provvisori (le esigenze
della organizzazione sociale e delle sue attività
economiche) rimangono sempre dei valori durevoli per i quali
il primo liberalismo reggeva; essi sono la libertà, lo
sviluppo delle attitudini individuali reso possibile dalla
libertà stessa, ed il ruolo centrale dell'intelligenza che
gioca liberamente nella indagine, nella discussione, nella
espressione. (Liberalismo e Azione sociale, capo secondo).
Roberto Ardigò riconobbe l'importanza dello stimolo
differenziato, applicabile "secondo le condizioni, il
carattere e l'età dell'educando" (La Scienza
dell'educazione, capo ottavo).
Fuori del campo pedagogico, Georges Sorel accreditò la
giustificazione della naturalità delle tendenze, osservando
che il genio può svilupparsi anche nell'ombra..
"Si è spesso rilevata la povertà della notizie di cui
siamo in possesso sui grandi artisti gotici.
Tra i tagliatori di pietre che scolpivano le immagini delle
cattedrali c'erano uomini di capacità superiori che sembra
siano sempre rimasti confusi nella massa dei loro compagni,
ciò nondimeno essi producevano capolavori.
Viollet le Duc trova strano che gli archivi di Notre-Dame
non ci abbiano conservato alcun particolare sulla
costruzione di questo gigantesco monumento, e che in
generale i documenti del medioevo siano assai parchi di
notizie sugli architetti; aggiunge che il genio si può
sviluppare anche all'ombra, e che è proprio della sua
essenza di ricercare il silenzio e l'oscurità. (Riflessioni
sulla violenza, capo
settimo).
Wilhelm von Humboldt (Saggio sui limiti dell'azione dello
Stato) osservò, riguardo all'educazione: – "Qualunque
metodo (lo Stato) scelga, si allontanerà sempre dal migliore
procedimento, il quale, senza dubbio, consiste nel
presentare tutte le possibili soluzioni del problema, per
preparare l'uomo a scegliere da sè."
(11)Emile DURKHEIM, La divisione del lavoro sociale; Le
regole del metodo sociologico. Traduzione.
Milano, 1962-1963.
(12)Cfr. Ch.S.PEIRCE, How to make our ideas clear.
Popular Science Monthly, genn. 1878.
(13) Cfr. Principes de politique applicables a tous les
Gouvernements représentatifs…B.CONSTANT Œuvres, a
cura di Alfred Roulin. Ed.
Gallimard, Paris, 1957. La traduzione italiana dei passi
citati è di Umberto Cerroni. Cfr. B. CONSTANT, Principi
di politica. Editori Riuniti, Roma, 1970.
(14) Aggiunge Constant: Ora, che accadrebbe se l’arbitrio
fosse permesso contro di loro, non per la loro condotta
pubblica, ma per cause segrete? L’autorità ministeriale,
senza dubbio non imporrebbe loro le sue sentenze quando
fossero assisi suoi loro scranni, nella cinta apparentemente
inviolabile ove la Legge li ha posti. Non oserebbero neppure
se obbedissero alla loro coscienza, a dispetto della
volontà, arrestarli, o esiliarli come giurati e come
giudici. Ma li arresterebbe e li esilierebbe come individui
sospetti …
Non avreste dunque abbandonato all’arbitrio della polizia
dei cittadini oscuri, ma avreste messo in sua balia tutti i
tribunali, tutti i giudici, tutti i giurati, tutti gli
accusati.”
Op. cit. p. 200-201 della traduzione del Cerroni. Ora, “l’arbitrio
della polizia” potrebbe continuare ad esistere sino a
che essa stessa non fosse legata scrupolosamente ai codici
ed al potere indipendente della giustizia.
(15) Th. HOBBES, op. cit.. p. 154.
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