dai Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio.

 

LVIII . La moltitudine è piu' savia e piu' costante che uno principe.

Nessuna cosa essere più vana e più incostante che la moltitudine. Così Tito Livio nostro, come tutti gli altri storici affermano. Perchè spesso occorre, nel narrare le azioni degli uomini, vedere la moltitudine avere condannato alcuno a morte, e quel medesimo di poi pianto e sommamente desiderato. Come si vede aver fatto il popolo di Manlio Capitolino, il quale avendolo condannato a morte, sommamente desiderava quello.

E le parole dell' Autore sono queste: "Insomma, il popolo, dopo che non veniva più alcun pericolo da parte di Manlio, incominciò a rimpiangerlo".

Ed altrove, quando mostra gli accidenti che nacquono in Siracusa dopo la morte di Girolamo, nipote di Ierone, dice: "Tale è la natura della moltitudine: o è serva umile, oppure è superba dominatrice".

Io non so se mi prenderò una provincia dura e piena di tanta difficoltà che mi convenga, o abbandonarla con vergogna, o seguirla con fatica, volendo difendere una causa la quale, come ho detto, da tutti gli scrittori è accusata. Ma comunque si sia, io non giudico, ne' giudichero' mai essere difetto difendere alcuna opinione con le ragioni, senza volervi usare l' autorita' di forza. Dico adunque come in quello difetto di che accusano gli scrittori la moltitudine, se ne possono accusare tutti gli uomini particularmente, e massime i principi; perchè ciascuno che non sia regulato dalle leggi farebbe quelli medesimi errori che la moltitudine sciolta. E questo si puo' conoscere facilmente perchè ei sono o sono stati assai principi; e de' buoni e de' savi ne sono stati pochi: io dico de' principi che abbiano potuto rompere quel freno che li puo' correggere; intra i quelli non ci sono quei Re che nascevano in Egitto quando il quella antichissima antichità si governava nella provincia con le leggi, ne' quelli che nascevano in Sparta, ne' quelli che a nostri tempi nascevano in Francia, il quale Regno è moderato più dalle leggi che alcun altro Regno di che nei nostri tempi si abbia notizia. E questi Re che nascono sotto tali costituzioni non sono da mettere in quel numero, donde si abbia a considerare la natura di ciascuno uomo per se' e vedere s'egli è simile alla moltitudine.

Perche' a rincontro si debba porre una moltitudine medesimamente regolata dalle leggi che sono loro, e si troverà in lei essere quella medesima bonta' che noi vediamo essere in quelli e verdrassi quella se' superbamente dominare ne' umilmente servire, come era il popolo romano il quale, mentre duro' la Repubblica incorrotta, non servi' mai umilmente, ne' governo' superbamente; anzi, con i suoi ordini e magistrati tenne il suo grado onorevolmente.

E quando era necessario ribellarsi contro a uno potente, lo faceva. E se il popolo romano desiderava Manlio Capitolino morto, non è maraviglia, perchè ei desiderava le sue virtu', le quali erano state tali che la memoria di esse recava compassione a ciascuno, e arebbono avuto forza di fare quel medesimo effetto in un principe : perchè è la sentenzia di tutti gli scrittori, come la virtu' si lauda e si ammira ancora negli inimici suoi; e se Manlio infra tanto desiderio fosse resuscitato, il popolo di Roma arebbe dato a lui il medesimo giudizio che ei fece tratto che lo ebbe di prigione, che dopo di poi lo condanno' a morte; nonostante si vegga de' principi tenuti savi i quali hanno fatto morire qualche persona e poi sommamente desiderandola, come Alessandro che uccise l' amico Clito ed altri suoi amici, ed Erode dopo aver fatto uccidere uccidere la moglie Marianne.

Pero' non è più da incolpare la natura della moltitudine che de' principi, perchè tutti egualmente errano quando tutti sanza rispetto possono errare.

Di che, oltre quel che ho detto, ci sono altri esempi de intra gli imperatori romani ed intra gli altri tiranni e principi dove si vede tanta inconstantia e tanta variazione di vita quanta mai non si trovasse in alcuna moltitudine.

Concludo dunque contro la commune opinione, la quale dice che i popoli, quando hanno il potere, sono vari, mutabili e ingrati, affermando che in loro non sono altrimenti questi peccati che siano ne' principi particulari.

Ed accusando alcuno i popoli ed i principi insieme, potrebbe dire il vero, ma escludendone i principi s' inganna: perchè un popolo che comandi e sia bene ordinato, sarà stabile, prudente e grato non altrimenti che un principe, ovvero che un principe eziandio stimato savio; e d'altra parte un principe sciolto dalle leggi sarà ingrato, vario ed imprudente più che un popolo.

E che la variazione del procedere loro nasce, non dalla natura diversa, perchè in tutti è a un modo, e se vi è vantaggio di bene è nel popolo. ma dallo avere più o meno rispetto delle leggi dentro alle quali l' uno e l' altro vive.

E cio' considererà il popolo romano lo vedrà essere stato per quattrocento anni inimico del nome regio e animatore della gloria e del bene comune della sua patria: e vedrà tanti esempi usati da lui, che testimoniano l' una cosa e l' altra. E se alcuno mi allegasse la ingratitudine che egli usò contra a Scipione, rispondo quello che di sopra lungamente si discorre di questa materia, dove si mostrò i popoli essere meno ingrati dei principi.

Ma quanto alla prudenzia e alla stabilità dico come un popolo è più prudente, più stabile, e di migliore giudizio che un principe.

E non senza cagione si assomiglia la voce di un popolo a quella di Dio: perchè si vede una voce universale fare effetti meravigliosi ne' pronostichi suoi, talchè pare che per occulta virtù ei prevegga il suo male e il suo bene.

Quanto al giudicare le cose, si vede radissime volte, quando egli ode due concionanti che tendino in diverse parti, quando ei sono di uguale virtù, che non prevalga l' opinione migliore e che non sia capace di quella verità che egli ode. E se nelle cose gagliarde, o che paiano utili, come sopra si dice, egli erra, molte volte erra ancora un principe nelle proprie passioni, le quali sono molto di più che quelle dei popoli.

Vedesi ancora nelle sue elezioni ai magistrati fare di lunga migliore elezione che un principe, ne' mai si persuaderà a un popolo che sia bene tirare alle degnità un uomo infame e di corrotti costumi, il che facilmente e per mille vie si persuade a un principe; vedesi un popolo avere in orrore una cosa, e molti secoli stare in quella opinione; il che non si vede in un principe.

E dell' una e dell' altra di queste due cose voglio mi basti per testimone il popolo romano, il quale in tante centinaia d' anni e in tante elezioni  di Consoli e di Tribuni, non fece quattro elezioni di che quello si ebbe a pentire. Ed ebbe, come ho detto, tanto in odio il nome regio che nessun merito di alcuno suo cittadino che vantasse quel nome, potè fargli fuggire le devute pene.

Vedonsi, oltre di questo, le città dove i popoli sono principi, fare in brevissimo tempo argumenti eccessivi e molto maggiori che quelle che sono state sempre sotto uno principe; come fece Roma sotto la cacciata dei Re, ed Atene dopo che si liberò da Pisistrato. Il che non può nascere da altro se non che sono migliori governi quelli de' popoli che quegli de' principi.

Ne' voglio che si opponga a questa mia opinione tutto quello che lo istorico nostro ne dice nel preallegato testo, ed in qualunque altro; perché, se si discorreranno tutti i disordini dei popoli, tutti i disordini de' principi, tutte le glorie de' popoli e tutte quelle de' principi, si vedrà il popolo di bontà e di gloria essere di gran lunga superiore.

E se i principi sono superiori a' popoli nell' ordinare le leggi, formare vite civili, ordinare Statuti ed ordini nuovi, i popoli sono tanto superiori nel mantenere le cose ordinate, ch' esse aggiungono senza dubbio alla gloria di coloro che l' ordinano.

 

Ed insomma, per conchiudere questa materia dico:  come hanno durato assai gli Stati de' principi, hanno durato assai gli Stati delle Repubbliche, e l' uno e l' altro ha avuto bisogno d' essere regolato dalle leggi. perchè un principe che può fare ciò ch' egli vuole è pazzo, un popolo che può fare ciò che vuole non è savio.

Se dunque si ragionera' d' un principe obbligato alle leggi e d' un popolo incatenato da quelle, si vedrà piu' virtu' nel popolo che nel principe, e quelli minori, ed aranno maggiori rimedi.

Pero', che a un popolo licenzioso e tumultuario gli può da un uomo buono esser parlato, e facilmente puo' esser ridotto alla via buona; a un principe cattivo non è alcuno che possa parlare, ne' vi è altro rimedio che il ferro. Dal che si puo' fare coniettura della importanza della malattia dell' uno e dell' altro: che se a curare la malattia del popolo bastan le parole, ed quella del principe bisogna il ferro, non sara' mai alcuno che non giudichi  che dove bisogna maggior cura siano maggiori errori.

Quando un popolo è bene sciolto, non si temano le pazzie che quello fa, ne' si ha paura del male presente, ma di quel che ne puo' nascere, potendo nascere in fra tanta confusione un tiranno. Ma ne' principi cattivi interviene il contrario, che si teme il male presente e nel futuro si spera, persuadendosi gli uomini che la sua cattiva vita possa fare surgere una liberta'.

Sicche' vedete la differenza dell' uno e dell' ,altro, la quale è quanto alle cose che sono a quelle che hanno a essere. Le crudelta' della moltitudine sono contro a chi ei temano che occupi il bene comune, quelle d' un principe sono contro a chi ei temano che occupi il bene proprio.

Ma la opinione contro ai populi nasce perche' de' populi ciascuno dice male senza paura e liberamente ancora mentre che regnano, de' principi si parla sempre con mille paure e mille rispetti. Ne' mi pare fuor di proposito, poi che questa materia mi vi tira, disputare nel seguente capitolo di quali confederazioni altri ci si possa più fidare, o di quelle fatte da una repubblica, o di quelle fatte con un principe.

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